MENTI BULIMICHE
PIER MARRONE
“Non pensare a un elefante rosa!” Questo è un esempio che talvolta utilizzo in classe per mostrare ai miei studenti che sono dotato di superpoteri e in grado di controllare le loro menti. È un trucco banale, perché l’ingiunzione performativa che obbliga chiunque la ascolti a non pensare a un elefante rosa, obbliga anche tanto chi la pronuncia quanto chi la ascolta a pensarlo. Questo vuol dire che tutti siamo dotati di questo superpotere, che, quindi, non è affatto tale. Ma forse questo piccolo esperimento non è totalmente incocludente e ci suggerisce qualcosa, ossia che non possiamo fare a meno di pensare, per lo meno quando siamo coscienti.
Cosa accade quando siamo incoscienti non lo sappiamo con certezza. C’è sicuramente un’attività cerebrale costante (altrimenti saremmo morti), ma questa non emerge alla coscienza. È anche chiaro che non è necessario ci sia una conscienza che riflette su sè stessa afficnché ci sia pensiero. Questo è dimostrato dalla nostra attività onirica. Nel sogno non siamo consapevoli, quasi mai per lo meno, di stare sognando. Questo è dimostrato anche dai nostri comportamenti meccanici, ossia da tutte quelle attività che ripetiamo senza che ci sia bisogno di riflettere, ad esempio camminare. È il pensiero, una qualche forma di pensiero, che ci fa camminare (oltre alla capacità biologica presente nel nostro corpo che ci permette di farlo), ma non pensiamo a come camminiamo quando stiamo camminando, almeno la grandissima parte delle volte. Impariamo a guidare un’automobile, apprendendo in maniera riflessiva e cosciente che cosa dobbiamo fare per circolare secondo il codice della strada. Una volta, però, che abbiamo acquisito l’abilità non abbiamo bisogno di ripercorre coscientemente tutti i passi necessari per percorrere una strada. Il pensiero si è cristallizzato e interiorizzato nelle profondità della nostra mente, dove non è che sia inaccessibile, perché può sempre essere, almeno in condizioni normali della nostra mente, riportato alla superficie della coscienza, ma agisce al di sotto della nostra consapevolezza. E per fortuna che questo accade, perché se altrimenti dovessimo ogni volta pensare a che cosa fare per guidare, questa sarebbe una continua fatica e una grandissima noia. Lo stesso vale per mille altre attività che occupano la nostra vita, ma che non hanno quasi più posto nella nostra vita cosciente.
Però c’è qualcosa di comune a queste attività non più coscienti e all’attività consapevole della nostra mente, e anche all’attività onirica: che possono essere riportate alla consapevolezza. E poi ci sono le tecniche psicologiche e psicoterapeutiche per portare alla consapevolezza quello che è il continente dell’inconscio, che queste discipline considerano serbino le nostre motivazioni più intime e accessibili solo con grande sforzo, talvolta anche con grande sofferenza, ma sempre con l’assistenza di professionisti ben pagati.
Questi esempi per dire della meccanicità e ripetitività del pensiero che non può mai cessare. Possiamo smettere di respirare per un certo tempo (Schopenhauer riferiva compiaciuto la notizia inventata di santoni indiani che si suicidavano smettendo volontariamente di respirare, che lui riteneva la prova della possibilità di liberarsi dalla volontà di vivere, che è la forza metafisica che produce l’universo e tutta la nostra sofferenza), ma non possiamo smettere di pensare quando pare a noi. È il pensiero che ci pensa e non siamo noi a pensare il pensiero. Sembrerebbe che sia questa la conclusione da trarre. E si tratta di una conclusione alla quale induce lo stesso “io penso” cartesiano, che ci dice che il pensiero è garanzia di esistenza, anzi di certezza sulla propria esistenza, ma non ci dice che siamo noi, attivamente e in prima persona, a produrre nel pensare quello che pensiamo. Ma dove collocare il pensiero e perché pensiamo sempre? Alla prima domanda sembra facile rispondere, alla luce di quelle che sembrano essere delle conoscenze medie condivise da qualsiasi persona con un’istruzione da scuola superiore: è nel cervello che deve essere collocato il pensiero, almeno nel senso che senza cervello non c’è un individuo umano a noi conosciuto che possa pensare. Ma perché pensiamo sempre? In fin dei conti, abbiamo la capacità di fare molte cose, ma non le facciamo sempre. Non camminiamo sempre, non ridiamo sempre, non dormiamo sempre, non mangiamo sempre, eppure pensiamo sempre anche quando, e forse soprattutto, non ce ne rendiamo conto.
Il pensiero è alimentato da qualcosa oppure alimenta qualcosa? Indubbiamente c’è una voracità della mente. Thomas Schelling, uno dei padri del pensiero strategico contemporaneo, aveva notato questo fenomeno della mente che immagina sempre di più. Il suo esempio, familiare a ogni giocatore d’azzardo, è il seguente: immagina di realizzare una grossa vincita alla lotteria, diciamo 300mila euro. Sono una bella somma, vero? Potresti comprarti un appartamento oppure vivere parecchi anni senza lavorare. Ma perché non immaginare di vincere una somma più ingente e poi una più ingente ancora e così via. L’immaginazione della mente non si ferma. Il pensiero vuole incarnarsi in una volontà di potenza tendenzialmente senza limiti, in una sorta di spasmo libidico di oltrepassare i confini che limitano per ognuno di noi la sua brama di fare esperienze soddisfacenti. E pensiamo a come alimentiamo pensieri molto meno innocui, quali ad esempio il risentimento e l’odio. Proviamo risentimento per il collega che ostacola la nostra carriera e ci immaginiamo che qualcosa gli procuri un danno irreversibile e che questo danno costituisca la giusta pena afflittiva che nessun carcere potrebbe mai procurargli, anche se non ha commesso nessun reato nei nostri confronti. Proviamo risentimento e magari anche odio per il partner che ci ha lasciato, infliggendoci quella ferita narcisistica così difficile da curare, che pensiamo non potrà mai rimarginarsi, ma che magari potrà essere lenita se qualcosa di sgradevole o anche di terribile accadesse a chi ha osato disprezzare il nostro ego.
Una mia amica mi aveva confessato che una delle sue fantasie ricorrenti era di procurarsi una pistola per sparare al fidanzato che l’aveva scaricata per una sua amica. In alternativa, nei momenti di massima indulgenza, si immaginava di bruciargli la casa che aveva appena acquistato. Per un periodo, che non fu certamente breve, la sua mente si nutriva di queste fantasie di distruzione, che si erano ossessivamente installate nella sua mente. Per fortuna, la maggior parte delle volte la maggior parte della gente queste fantasie non le realizza, ma trova un conforto nell’immaginarle, così come il giocatore d’azzardo trova conforto nel progettarsi un luminoso futuro con il denaro che non ha e con le immense somme che mai vincerà. In questo senso, la mente è bulimica e si potrebbe dire che è drogata da sé stessa. Detto in maniera incidentale, questi esempi fanno ritenere che è meglio che in uno stato non circolino troppe armi, perché gli individui borderline sono numerosi e altrettanto numerosi sono forse quelli che in qualche momento della propria vita si potrebbero avvicinare a realizzare queste fantasie anti-sociali. Queste reazioni anti-sociali, anche quando fortunatamente non le mettiamo in atto, le percepiamo come qualcosa di viscerale, che sale appunto dalle nostre parti interne, dalla pancia, come anche si dice. E questo potrebbe essere qualcosa di più di una semplice metafora, almeno da quando è risultato chiaro che noi non alberghiamo un solo cervello, situato nella nostra scatola cranica, ma almeno due, l’altro dei quali è posto invece nell’intestino, dove dimorano centinaia di milioni di neuroni nel sistema nervoso enterico.
Un intero campo di ricerca e interveno clinico si è condensato nella neurogastroenterologia, che si occupa appunto di studiare i meccanismi di questo cervello che pare messo in secondo piano, ma che invece svolge un ruolo di eccezionale rilievo. Lo dimostra il fatto stesso che questo cervello ci ha accompagnato in tutta la nostra storia evolutiva, presente in ognuno dei nostri molti progenitori a partire dal primo vivente dotato di spina dorsale e sistema nervoso centrale. Questo secondo cervello non può quindi essere un fossile evolutivo, altrimenti difficilmente sarebbe sopravvissuto all’evoluzione. In realtà, è il sistema che ci permette di compiere dei compiti di assoluto rilievo, come l’assorbimento di sostanze nutritive, l’assimilazione di cibi, l’espulsione di residui nutritivi dannosi. E tutto questo senza che noi dobbiamo minimamente pensarci, almeno sin tanto che le sue funzioni, svolte senza che il cervello che abita nella nostra cella cranica ne abbia alcun sentore (solo alcune migliaia di fibre nervose collegano il cervello alle centinaia di milioni di neuroni che si sono acquartierati nell’intestino tenue), procedono normalmente. Ma ci sono circostanze dove il nostro intestino si eleva alla percezione cosciente, quando abbiamo i sintomi del reflusso gastro-esofageo, quando abbiamo i crampi al nostro sistema digestivo, quando la maledizione di Montezuma ci colpisce con devastanti diarree. Avevo un collega che era colpito sistematicamente da mal di pancia quando stava per entrare in aula a fare lezione. Verrebbe da dire che mentre il nostro intestino si eleva alla percezione cosciente, la nostra esperienza cosciente si abbassa nelle oscurità delle nostre viscere. Sembrerebbe che più di un terzo dei pazienti che si recano dal medico di famiglia lo faccia perché ha dei problemi gastrointenstinali. La pattuglia organica che costituisce il loro intestino non funziona a dovere, ma spesso nessuno riesce a capire perché. Forse bisognerebbe cominciare a pensare che dal momento che questo secondo cervello insediato dove la percezione cosciente il più delle volte non arriva, segnali il suo disagio attraverso delle nevrosi specifiche, che potrebbero non essere intaccate dalle sostanze che vengono utilizzate per curare disturbi nervosi come l’ansia o la depressione.
La neurograstroenterologia, che costituisce un duro colpo al nostro egocentrismo, è sì una disciplina rivoluzionaria, ma questa rivoluzione non è affatto iniziata recenteemente. Al contrario, si tratta di una rivoluione che è iniziata nel XIX secolo a opera di due fisiologi, William Bayliss e Ernest Starling, che studiavano gli intestini dei cani. In cani sottoposti a anestesia Bayliss e Sterling isolarono un’ansa e aumentarono la pressione all’interno di questo tratto intesinale. Quando la pressione raggiungeva una determinata intensità, la reazione del tratto intestinale era sempre la produzione di movimenti muscolari che dirigevano il contenuto del tratto intestinale sempre in una medesima direzione, ossia in direzione anale. Un’onda di contrazione e rilassamento si riproduceva sempre esattamente nella stessa maniera. Questa uniformità di comportamento involontaria fu chiamata “legge dell’intestino” dai due ricercatori. Ma la scoperta importante non era questa. Infatti, quando i due ricercatori rescissero i nervi in entrata e in uscita dall’ansa intestinale, ovviamente credevano che il riflesso sarebbe andato perduto, perché se si tagliano le connessioni di altri organo al cervello o al midollo spinale, questi organi non sono più in grado di ricevere istruzioni. Questo fu precisamente quanto invece non accadde. Se i nervi di connessione esterna non erano necessari a produrre quelo che ora si chiama riflesso peristaltico, allora dovevano essere i nervi interni a svolgerlo. In realtà, si era già a conoscenza che una rete nervosa complesso era presente nelle pareti intestinali, circondata dagli strati di muscolatura che avvolgono l’intestino, in un sistema chiamato plesso di Auerbach (dal nome dello scienziato tedesco che lo aveva osservato in America durante il periodo della guerra civile) o plesso mienterico. Poco dopo questa scoperta, venne individuata un’altra rete di neuroni, il cosiddetto plesso di Messner o plesso sottomucoso.
È un’idea presente in certi settori della filosofia della mente che noi pensiamo con tutto il nostro corpo e non soltanto con il cervello e pensiamo con tutta l’interazione del nostro corpo con l’ambiente che ci avvolge. Bene, questa idea, che scavalca il pregiudizio di identificare il nostro pensiero con il nostro ego, è fortemente sostenuta da queste scoperte che le zone di transito del cibo in qualche modo pensino. Non si tratta certo di un pensiero cosciente, ma di una sorta di pensiero cristallizzato intrecciato in primo luogo non con l’espressione esplicita, ma con la materialità del nostro corpo. Questo apre capitoli della ricerca di enorme interesse. Si prendano ad esempio i disturbi nervosi e le malattie mentali Generalmente si ammette che siano provocati da una qualche alterazione nel nostro cervello, magari dovuto a un malfunzionamento delle connessioni sinaptiche o all’assunzione di sostanze psicotrope oppure a un qualche evento traumatico. Ma se almeno qualche disturbo fosse invece provocato dal nostro cervello enterico? In fin dei conti, la serotonina, assieme a un ampia gamma di neurotrasmettitori è presente nell’intestino. Per quale motivo disturbi nella trasmissione di questi neurotrasmettori tra le sinapsi presenti nell’intestino non potrebbero provocare alterazioni patologiche? Sembra del tutto sensato ipotizzarlo e se siamo restii a farlo è soprattutto perché coltiviamo ancora il pregiudizio che la mente sia nel cervello e rimanga solo lì. Magari a questo pregiudzio associamo un altro, ossia che dal momento che non abbiamo invidividuato alcuna anomalia visibile nel cervello, il disturgo che stiamo cercando di capire non ha una base organica. È chiaro che non vediamo il cervello pensare così come invece vediamo il cuore battere. Quando la causa di un cattivo funzionamento gastrointestinale non è così evidente, magari la attribuiamo a cattivi pensieri che il nostro cervello formula.
La scoperta di un secondo cervello situato nell’intestino apre la porta a una comprensione più profonda della nostra mente. Così come si è inclini a pensare che alcune malattie autoimmuni siano prodotte dall’alterazione dello sviluppo dei meccanismi di trasmissione neuronale del sistema nervoso enterico, allo stesso modo potremmo pensare che anche i cibi che ingeriamo abbiano effetti a livello della nostra mente enterica profonda. Forse questo dovrebbe farci riconsiderare l’idea stessa della salute mentale come qualcosa che coinvolge anche la nostra nutrizione. Per allenare la nostra mente, per tenerla in forma, dovremmo allora non soltanto evitare di assumere massiciamente droghe, dovremmo non soltanto fare gli esercizi di sudoku o allenarci alle strategie del gioco degli scacchi o di altri giochi di strategia, ma anche nutrirci con quanto benevolmente può favorire il buon funzionamento del nostro cervello enterico e per ritardare le sue inevitabili patologie che ci ricondurranno verso l’inorganico, da dove questa mente nascosta è sorta.