HOMO EST QUANTUM EST

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Homo est quod est dicevano i latini ricorrendo a una tautologia solo apparente, che in realtà si rivela un felice calembour (il secondo “est” non è la ripetizione della terza persona singolare del verbo essere, bensì la variante di edit = “mangia”). Tradotto: “L’uomo è ciò che mangia”.

Lo sapevano anche loro, anzi: lo sapevano loro per primi, gli Antichi Romani che adoravano ingozzarsi per giornate intere, dacché il carro di Apollo spiccava il volo a quando faceva ritorno alle stalle olimpie, e che quando si sentivano troppo satolli per proseguire, si prendevano un break, filavano dentro il primo vespasiano utile per rigettare l’ingombro, e subito dopo si riaccomodavano intorno al desco per ricominciare tutto daccapo, consumando cosce di pavone, ghiri cosparsi di miele e papavero, hors-d’oeuvre in carne di asinello, focacce di formaggio, triglie, frattaglie, il tutto irrorato da una pioggia di garum, il ketchup di allora, onnipresente, ottenuto dalle interiora di pesce decomposte al sole.

“Vomunt ut edant, edunt ut vomant” scriveva Seneca a sua madre: vomitano per mangiare e mangiano per vomitare.

Per i Quiriti non era tanto questione di nutrirsi. Loro non si alimentavano semplicemente, a ogni pasto mangiavano il mondo intero, come metafora reiterata di quello che facevano le loro legioni con le continue conquiste territoriali.

Cibarsi è la prima urgenza fisiologica. Ma, oltre a questo, mangiare è una metafora da sempre, la più potente di tutte. Ciò che introduciamo nel nostro corpo ci seleziona sotto il profilo antropologico e ci distingue socialmente.

In pieno Umanesimo il circolo di pensatori fiorentini tra cui rientravano Pico della Mirandola e il Poliziano si era fatto convinto che per potenziare il cervello si dovessero assumere cervella bovine o d’altra bestia, per rinforzare le reni mangiare rognone, per rinvigorire gli occhi succhiare bulbi oculari di capre o vacche a mo’ dei saraceni, e così via, secondo l’antica dottrina della conoscenza del simile attraverso il simile tradotta in termini culinari.

Noi oggi sappiamo che non è così. Non funziona che se ordini lingua salmistrata parlerai in maniera più fluente o che se finirai tutto un piatto di granelli di gallo i tuoi ammennicoli, giù da basso, ne trarranno chissà quale giovamento.

Ciò che serve al nostro organismo non sono cartilagine piuttosto che muscoli, bensì le proteine, gli zuccheri semplici, le vitamine e i grassi che essi contengono. Per cui, giusto per campare, ci basterebbe ingollare di tanto in tanto una manciata di pillole da astronauti, incolori, insapori, inodori, ma composte di tutti gli elementi chimici sufficienti a sostentarci.

Ma mangiare va ben al di là della pura alimentazione. Il cibo non si identifica con il vitto, principalmente il cibo ci serve per godere.

Noi italiani lo sappiamo bene, che ancora fino a qualche decennio fa nascevamo sul tavolo di marmo della cucina, sgusciando fuori dalle gambe divaricate della mamma sdraiata lì sopra, e intorno alla tavola facciamo ancora tutto, tra una masticazione e l’altra: pranzi di lavoro, riunioni di famiglia, summit politici, festeggiamenti comandati, buffet per il morto.

Ma perché all’homo sapiens sapiens piace così tanto mangiare? Non è un obbligo materiale, la maggior parte di noi potrebbe ingozzarsi molto meno di quello che fa abitualmente e viversela benissimo lo stesso, anzi senz’altro meglio, almeno dal punto di vista clinico.

Ci strafoghiamo di grassi saturi, zuccheri lavorati, carboidrati, acidi grassi trans ben oltre le nostre esigenze gastroenteriche. Ci abbuffiamo fino a scoppiare o, se va bene, pasteggiamo come se dovessimo scalare una fottuta montagna e ridiscendere ai suoi piedi prima che faccia notte, mentre tutt’al più quello che ci tocca fare nella maggior parte dei casi è di starcene con la fascia lombare spalmata contro il sedile di una poltrona ergonomica tutto il santo giorno, con gli occhi fissi sullo schermo di un monitor.

Ci ingozziamo come se non ci fosse un domani, zuccheri, grassi, colesterolo, cloruro di sodio: fonti energetiche di rapido consumo nella vita attiva di un cacciatore-raccoglitore.

È su questo che si basa il cosiddetto “Punto G gastronomico”, ossia la ricetta che ci rende così appetibili i cibi spazzatura: il segreto è ipersalarli e iperaddolcirli per innescare la fame e la sete.

Il nostro cervello è vecchio di 300.000 anni. Non ha subito grosse correzioni evolutive da questo punto di vista. Sotto il profilo nutrizionale ragiona ancora come quando eravamo costretti a gattonare per la savana con un cencio ci pelle intorno alla vita, in perenne fuga dalle tigri dai denti a sciabola e alla continua ricerca di chilocalorie, sotto forma di erbivori velocisti quasi impossibili da raggiungere e bacche o frutti da spiccare dalla sommità di rami posti così in alto da rischiare, lungo la scalata, di volare giù dall’albero e spaccarsi l’osso del collo.

Allora trovare una preda bella grassoccia era festa grande. Ti spartivi la carcassa dell’oritteropo in cinque, badando bene ad affondare i denti nella parte più adiposa e saporita, che ti avrebbe dato la giusta carica per i tanti plausibili giorni di digiuno da affrontare.

Continuiamo a comportarci così di fronte a una porzione di cibo iperlipidica e succulenta, anche se, ora come ora, per l’approvvigionamento alimentare ci basta scendere sotto casa e riempire il carrello della spesa.

Il cervello, tuttora timoroso di non rintracciare anche l’indomani una sufficiente aliquota di glucosio, aminoacidi, acidi grassi e adenosina trifosfato, di fronte a un invitante apporto ipercalorico si autopremia pompando dopamina in tutto il corpo. Più bocconi ingurgiti più dopamina si irradia per l’organismo.

È in questo modo che l’atto della cibazione, la cui attuale fruibilità ha ormai slegato da originale misura necessaria alla sopravvivenza, si è trasformata in manducante traslato: mangiare si è convertito in una forma di conoscenza che viene ben prima della necessità corporea.

Conosciamo il mondo circostante ingoiandolo un pezzo commestibile dopo l’altro, per cacarlo infine e ricominciare daccapo, insaziabili gnostici crapuloni quali siamo.

In cosa pilucchiamo o tracanniamo si vede che cosa decidiamo di essere, ci insegnano gli antropologi: sangue vaccino mescolato al latte, pizza con l’ananas come topping, alimenti kosher o halal, caviale varietà Almas, chimichanga con doppio cheddar, brasato di cammello o merendine sottocosto in confezione famiglia. C’è chi mangia vegano per evitare la sofferenza delle bestie, chi la pensa uguale ma non ce la fa a stare senza carne e allora va a cercare cadaveri di opossum o di scoiattoli lungo le strade, arrotati da qualche pick-up, così da non rendersi corresponsabile delle macellazioni e degli allevamenti intensivi, chi mangia insetti per minimizzare il proprio impatto sull’ecosistema, chi mangia esotico per sondare il mondo senza uscire dal suo tinello, chi si sgaloppa albumi d’uovo, petti di pollo e barrette energetiche per fare massa, chi digiuna fino al tramonto e chi di venerdì rinuncia alla carnazza.

Come mangi sei.

Però il vero salto di qualità, lo step finale lo compiono i mangioni da gara. I partecipanti a una di quelle sfide a chi ingurgita di più e in minor tempo. Quelli cioè che di quest’astrazione metatrofica  scelgono di fare uno sport, una sfida personale tra resistenza fisica e meta da raggiungere: i 500 hamburger da scofanarsi in un’ora, i 200 arrosticini da sfilare via dallo spiedo uno via l’altro, la montagna di ravioli da deglutire prima del fischio della giuria, in maniera non dissimile dall’asticella da superare nel salto in alto o dal minutaggio sotto cui stare nella competizione del podista.

Abbattere i limiti, anche qui. Trovare una quadra tra masticazione, dilatazione stomacale e intestinale, conservare il giusto ritmo per far scivolare il boccone giù per il tubo digerente e addentare quello dopo ancor prima che il bolo si metabolizzi in chilo, in poche parole ottimizzare la tecnica per raggiungere il jackpot dello sgagnamento.

Le gare dei mangioni ‒ com’è presumibile ‒ sono state inventate in America, dove vige il motto “Bigger than life!”, dove tutto è più grande della vita, o del girovita. Dove conta sempre chi primeggia, anche a spazzolare il piatto. Dove non sei quel che mangi, ma sei QUANTO mangi.

L’abbuffata è figlia del capitalismo. Se un tempo a pappare a quattro palmenti era giusto la ristretta oligarchia che se lo poteva permettere (aristocratici e clero perlopiù), il diffuso benessere e l’abbassamento dei costi di produzione hanno reso l’obesità democratica. Noi infatti sperimentiamo il paradosso di vivere nell’unica epoca della storia umana in cui i poveri sono più grassi dei ricchi.

FILOSOFIA STORIA DELLE IDEE

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