THE NAKED APE RELOADED, O DELLA PROSOPOPEA NUDISTA DELL’EUROPA
MONICA VISINTIN
Dare un’immagine all’Europa? Impresa non facile per una realtà che non ha di suo neanche una dimensione fisica definibile: l’Europa infatti non è neppure un continente dotato limiti ben definiti perché il suo territorio fa tutt’uno con l’Asia, spazio culturale continuamente richiamato nella storia europea ora come origine ora antagonista delle sue espressioni culturali più importanti. La stessa figura mitologica di Europa sembra richiamare questa ambiguità: secondo gli antichi greci era figlia di Agenore, re di Tiro ovvero della Fenicia che nel mondo antico rappresentava la porta dell’Asia, a sua volta figlio di Libia (eponima dell’Africa antica) ed esule dall’Egitto.
Perché tanto melting pot in un solo mito? Di sicuro nell’antichità non ci si arrovellava più di tanto sulla vexata quaestio dei confini orientali dell’Europa (Urali o Dardanelli?) o sul altri temi geopolitici diversamente complessi (quanta Europa c’è in Russia? Perché nello sport Turchia ed Israele rientrano a diritto nei Campionati Europei?).
Tutt’altro: campioni nella difesa della libertà contro il dispotismo delle monarchie assolute, anche i proto-europei sub specie ellenica dai tempi di Alessandro hanno cullato l’idea di un impero universale, modello politico di origine orientale elaborato nel VI sec. a.C. dai grandi avversari di sempre, i Persiani. Il mito, antichissimo, della principessa orientale sedotta dal re degli dei in sembianze di toro diventa popolare quando i Greci iniziano a immaginare alle spalle un grande avvenire purtroppo rimasto allo stato di fantasia, ovvero quando la conquista da parte dei romani dei regni ellenistici nati dalla disgregazione dell’effimero disegno ecumenico di Alessandro porta a compiacersi dell’espansione della cultura ellenica in tutto il mondo abitato. In questo periodo storico, che copre tutta l’età ellenistica e continua in quella imperiale, la figura d’Europa ri-nasce nel segno di un’origine multietnica che nella fantasia degli autori antichi sembrava predestinarla al dominio del mondo.
Ma il mito, come noto a tutti, trova ben più faticosa realizzazione nella realtà. Dopo secoli di fantasie sulla volontà di potenza di un’unità politica mai realmente realizzata né dagli eredi di Carlo Magno né dagli epigoni di Carlo V, in un’Europa lacerata dalle guerre di religione e lui stesso esule di lusso da un’Italia a suo modo europeizzata dalle dominazioni straniere, nel XVII sec. il poeta Giovan Battista Marino nel suo poemetto lirico Il Rapimento d’Europa fa così il punto della situazione:
Poi, per memoria eterna,
Europa dal suo nome appellar vòlse
la piú bella del mondo e nobil parte
come a dire che, in attesa di evoluzioni della sua fortuna politica, si era provveduto intanto a dare un nome a questa terra tanto vasta quanto perennemente alla ricerca di un centro di gravità permanente; salvo poi moderare il ben più trionfalistico finale del travaglio europeo immaginato dal poeta siracusano Mosco (da lui neanche troppo velatamente plagiato e saccheggiato, stando alla dotta delazione di Giacomo Leopardi nelle sue Osservazioni su Mosco). Il quale Mosco, per l’appunto, mille settecento anni prima di Marino trovava ancora l’ottimismo per augurarsi assieme a Giove, astuto seduttore di Europa nelle mentite spoglie di navigator cornuto
Te Creta or accorrà, che me nutrìo:
Quivi tue nozze appresteransi, e quivi
Di me tu produrrai famosi figli,
Che su tutti i mortali avran lo scettro
(Mosco, Europa, trad. Luca Antonio Pagnini 1827).
Quei figli famosi, che in Marino diventarono più cautamente generosi. Mai vate rimase più inascoltato, verrebbe da dire guardando alle tormentate vicende della Grexit mentre si fanno gli scongiuri, con carità assai interessata, contro l’ipotesi di una Brexit.
Che immagine dell’Europa esce dunque dal mito? Di sicuro l’immagine di una divenuta madre molto prolifica di una famiglia eterogenea; tra i suoi numerosi figli c’è il mitico Minosse, che Dante collocherà nell’Inferno come giudice inappellabile dall’aspetto semiferino: qualcosa di molto simile alla percezione che molti abitanti del Vecchio Continente hanno dell’Europa. Poi c’è l’immagine di una donna – assai poco domina, e cioè padrona, e meno che mai del suo destino – sedotta con l’inganno: Europa viene raggirata dall’incarnazione di un potere nascosto nelle insidiose fattezze di un animale addomesticabile che finisce per rivelarsi dominante.
Né l’una né l’altra sono immagini particolarmente augurali di un grande destino, a partire dalla prima: se c’è qualcosa di squisitamente europeo nei modelli di pensiero che costituiscono il grande codice della cultura occidentale c’è la figura del padre, come mostra bene la condanna dei diritti della madre in vicende mitologiche esemplari (uno per tutti Oreste punitore della madre adultera Clitemnestra a favore del padre Agamennone – che non era stato meno fedifrago della moglie, come ci informa Omero a proposito delle sue attenzioni per la schiava Criseide). Tra gli autori del passato, c’è chi gira il coltello nella ferita appena aperta dalla fantasia mitopoietica greco-romana: come l’anonimo autore trecentesco dell’ Ovidio Moralizzato che si premura di spiegarci che Europa rappresenta la corruttibile natura umana strappata alle lande del peccato (l’Oriente!) dall’onnipotenza di un toro figura Christi, capace di viaggiare sulle acque come il figlio di Dio.
Salvatore o usurpatore, il toro è comunque un’immagine di un potere cui Europa deve sottomettersi: e comunque l’ideale della supremazia paterna non sta nelle fattezze di Europa, ma nella latente violenza del suo seduttore. Durante l’ avvento dei totalitarismi in Europa, avrebbe avuto facile – si fa per dire – gioco il pittore “degenerato” Max Beckmann nel fare del toro una prevedibile allegoria del nazismo, rapitore di un’imbelle donna nuda – pronta ad essere violentata

Di questa ed altre incertezze che avvolgono la peripezia della Giovine Europa, sogno soprattutto italiano da Mosco e Ovidio a Giuseppe Mazzini e ai due padri nostrani dell’UE, fu avveduto anche l’infallibile Marino: il quale, descrivendo l’angoscia di Europa che si vede trascinata in mare aperto dal toro divino da lei incautamente accarezzato e montato, le mette in bocca una confessione ricca di indicazioni per il futuro:
Pavento, e m’indovino
non so che d’infelice
che nella sua vaghezza sembra preannunciare, pur nelle sue edulcorate forme liriche, gli alti lai euroscettici dei populismi d’ aujourd’hui.
Ad ogni modo, oltre ai poeti, artisti di ogni tempo non esitano a raffigurare Europa nell’aspetto di una giovane dalla bellezza florida, non di rado in una nudità presaga dell’ineluttabile amplesso con la forza taurina di Giove. Ci vuole un bel po’ per arrivare alle apocalittiche visioni di Max Ernst che a due riprese ripensa all’esito fatale della peripezia d’Europa nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale. La prima è un delirio geografico claustrofobico, metafora della finzione autarchica e nostalgica partorita dai fascismi: un’ Europa che si chiude su un Mediterraneo privo di stretti, in cui i confini del mondo retrogrado diventano incomunicabili ai Nuovi Mondi, uno spettro d’Europa acefalo dell’Italia e della Spagna che per prime coltivarono l’idea di un dominio universale. La seconda ci mostra un cumulo di macerie in cui giacciono i resti di un toro fatto a pezzi, sovrastati con trascurata indifferenza da una donna smagrita e ignuda di spalle (Europa, amputata delle braccia e coperta da un cappello di emblematica foggia borghese) e un mostro con la testa di uccello che probabilmente simboleggia la guerra.
Ed oggi? Sfiancati dalla recessione economica, sfiduciati nella possibilità di una ripartenza nell’avventura politica dopo il fallimento del progetto di una Costituzione Europea, divisi più che mai nella gestione della drammatica emergenza dei migranti (provenienti in gran parte dai dintorni della patria d’Europa, se vi fosse sfuggito), succede, come molto spesso nei periodi di crisi, che ci si rivolga alle figure di un passato che si immagina tanto più grande di un mediocre presente; grande però anche nel suo potere, altrettanto immaginario, di trasmettere geneticamente il suo splendore agli eredi di una sua presunta dinastia. Poco conta che gli eredi siano dei nani, perché in Europa della res publica litterarum sognata da Erasmo, culla del lògos e della retorica, siamo formidabili a rovesciare anche le immagini meno esaltanti. Correvano tempi non esaltanti per il sogno germanico di tenere unita l’Europa sotto un unico scettro, quando l’arguto filosofo francese Bernardo da Chartres evocava l’idea di una grandezza indiscutibile almeno per i paladini della cultura occidentale
Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti
ignorando che il tempo avrebbe messo in seria discussione il teorema dell’ipermetria europea.
Ma che nani! Bernardo non poteva sospettare che oggi, dalle nostre parti, l’immagine scelta per rappresentare l’orgoglio europeo non sarebbe stata più quella di una giovane ingenua rapita da un toro – ostentata ormai, per somma ironia della sorte, solo sul verso della moneta da 2 euro corrente in Grecia –, bensì quella di una donna che si copre i pudenda e pure nascosta da una cabina. È quello che è stato sottinteso negli strali contro l’iniziativa di sottrarre alcune statue di nudi (prevalentemente femminili) allo sguardo pudico di Hassan Rohani e della corposa delegazione iraniana in visita ufficiale a Roma per concludere, fra le altre cose, accordi economici per il valore di diciassette miliardi di dollari (fonte: The Financial Times). Un altro atto di sottomissione di un volgo disperso (cit. Alessandro Manzoni, sfegatato filoeuropeo), premonitore degli scenari apocalittici prefigurati nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq alla vigilia della strage di Charlie Hébdo. Con la differenza che mentre le immagini del romanzo di Houellebecq scorrevano in desolata sovrimpressione sulla tragedia consumatasi nella sede del più prestigioso giornale di satira francese, nessuno può negare che l’idea di velare di una lingerie cartonata le vergogne marmoree di alcune sculture dei Musei Capitolini di Roma abbia sciolto nei toni di un’ italicissima farsa la severa austerità della famosa sura del Corano che ricorda al seme del primo nudista della storia
O figli di Adamo, abbiamo fatto scendere su di voi un abito che nasconda le vostre parti intime (Corano 7, 26)
“Prostituzione culturale”, “scelta incomprensibile”, “indecente sudditanza”, “roba da matti” (nella consueta semplificazione stilistica di Matteo Salvini) e l’immancabile “non ero informato” nelle imbarazzate dichiarazioni rese dal Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo Dario Franceschini anche in rappresentanza del Presidente del Consiglio. Sulla significato delle cabine per la Venere capitolina e altri compagni di censura è stato chiarissimo Pippo Civati, che nelle sue dichiarazioni ha elevato la procace Venere al bagno al rango di simbolo dell’identità culturale italiana come componente di quella europea (“Questo episodio ci relega ad una posizione di subalternità non solo nei confronti dell’Iran, ma anche nei riguardi dell’Europa”, Huffington Post 26/1/2016).
L’immagine di Europa ingannata e rapita da un dio-padre toro non sembrava evocatrice di destino di grande potenza: come potrebbe prometterla quella di una donna sorpresa da uno sguardo indiscreto ai suoi lavacri? In realtà sembra che ci sia qualcosa di squisitamente europeo nel nudo della Venere Capitolina. Se vestirsi è immettersi nel flusso della civilizzazione con la produzione di segni che rimandano alla nostra apparenza sociale, alla nostra cultura, alla nostra sensibilità estetica, alla nostra sessualità o addirittura all’orientamento sessuale, svestire il corpo è in effetti un atto doppiamente liberatorio: nell’arte rappresenta il momento della definizione dell’immagine corporea in cui si integrano studio anatomico e ricerca di canoni idealizzanti. La definizione porta anche a riappropriarsi del proprio corpo, anche attraverso la proiezione in un corpo ri-costruito, svolgendo quella funzione di identità e controllo, a loro volta, sui meccanismi di controllo sociale e culturale dei nostri corpi: lo mostrano molto bene fenomeni come la pratica della nudità atletica nell’antica Grecia (esemplificata su quella degli eroi, gli ex grege per la loro prestanza fisica: i Greci ne andavano fieri e la indicavano come un segno di distinzione rispetto al pudore orientale nel mostrarsi nudi); ma non meno indicativi della passione europea per il nudo è anche la diffusione della cultura fisica nel mondo industrializzato, concepita fin dagli albori come forma di Neoclassicismo prêt à porter, da indossare nella carne dei nostri muscoli in reazione alla massificazione civilizzatrice come mostrano splendidamente le immagini del padre tedesco del body building, Eugen Sandow;

per tacere delle simpatie per il naturismo, che in Europa è un fenomeno senza confronti con il resto del mondo (30 federazioni nazionali affiliate all’International Naturist Federation contro le 14 distribuite negli altri quattro continenti), comprendente persino un movimento cristiano eretico noto già ai Padri della Chiesa (gli Adamiti) di un certo impatto presso alcune chiese riformate nel XV sec..
Dunque non c’è da stupirsi che l’idea di nascondere l’uomo come scimmia nuda (secondo la celebre definizione di Desmond Morris), ricaricata del senso della sua evoluzione culturale abbia fatto balenare lo spettro della rinuncia alla libertà come espressione dell’essere individuale europeo. E come in fondo la prosopopea nudista delle statue dei Musei Capitolini abbia saputo, per il breve spazio di alcune giornate, fatto ripensare in termini anche fisici, corporei, al senso del diniego alla sottomissione massificante, in Europa iniziata e in prima battuta in Europa combattuta: spettro sempre incombente quando le leve del potere economico sono sottratte alla manovra dell’individuo.
ARTE MITO STORIA DELLE IDEE Adamo Endoxa Europa Giovani Battista Marino Hassam Rohani maggio 2016 Mosco Naturismo Nudo Venere Capitolina