CREAZIONE
MARCELLO MONALDI
Perché la mostra fotografica di Sebastião Salgado, che si è potuta ammirare nel freddo gennaio 2017 nella Chiesa di S. Giacomo a Forlì, ha per titolo Genesi e non Creazione? In fondo, se pensiamo alla Bibbia, è nel suo primo libro, la Genesi, che si narra la creazione del cielo e della terra da parte di Dio. Il termine genesi rinvia al secondo, creazione, almeno su un piano teologico-religioso. Se fosse questo lo sfondo della mostra, la scelta di questo o quel titolo sarebbe puramente terminologica e non concettuale. Ma la mostra e l’opera di Salgado si muovono davanti a uno sfondo diverso: per lui, genesi non sembra più rinviare necessariamente a creazione. Troppo esplicito, nel termine creazione, è il rimando all’idea di un creatore trascendente. E l’idea di una creazione dal nulla appare oggi ingombrante proprio a chi, come Salgado, vuole elevare un inno alla natura incontaminata (una volta si sarebbe detto: “appena uscita dalle mani del creatore”) ma senza più “laudare”, per suo tramite, anche e soprattutto il Signore del creato (come accadeva nel francescano Cantico delle creature). La genesi ha perso contatto con la creazione, nonostante la loro antica vicinanza nei testi sacri. In effetti, il titolo Genesi, di matrice greca, sembra alludere meglio alla forza generativa e alla natura vivente della terra; è meno connotato in senso teologico ma resta evocativo sul piano cosmico, perché non parla soltanto di forze naturali o di processi fisici ma esalta soprattutto la capacità di rigenerarsi della vita sulla terra e richiama pur sempre il momento dell’inizio, della nascita, della generazione, come un evento che si è dato in origine e che in certo modo si rinnova di continuo – uomo permettendo, che non sarà neppure lui un dio creatore ma può essere certamente un distruttore.
Allo stesso tempo, nessuno di noi se la sentirebbe di affermare che gli scatti di Salgado siano delle semplici riproduzioni, delle copie meccaniche dell’esistente; ci sembrano invece scaturire da una serie di atti creativi, equamente distribuiti tra l’ideazione del progetto, la singola visione da inseguire, il trattamento della luce, la scelta delle lenti impiegate, la sapienza delle inquadrature, l’abilità della messa a fuoco, ecc. Ci sembrano un misto di ispirazione e di tecnica, che riassumiamo utilizzando le parole creazione e creatività.
Dunque: se la creazione non ci parla più come insieme delle cose create (da Dio), sembra ancora parlarci come attività libera e ispirata di un uomo di talento, che proprio in virtù del suo talento è capace di portarci al cospetto di qualcosa che non saremmo in grado di vedere da soli o comunque non con quella evidenza e quella forza, che la sua arte sa creare. Se vacilla o scompare la fede nel Dio creatore, anche ciò che gli veniva attribuito come sua creazione non appare più tale. L’arte, invece, sembra ancora riservare all’uomo una funzione creativa rispetto al mondo (che peraltro non è stato certamente lui a creare). Tutto questo sembra dirci la Genesi di Salgado.
Attraverso la fotografia stiamo parlando dell’arte, di un’attività che, almeno da un certo momento in poi, è stata effettivamente caricata di una valenza divina comparabile alla creazione del mondo. Oggi, quando continuiamo a parlare di creazione in senso artistico, non ci spingiamo più così lontano, con conseguenze peraltro difficili da valutare a dispetto di questo atteggiamento più modesto. E qui, in queste pagine, non possiamo neanche soltanto provare a riassumere i termini della disputa tra antichi e moderni sulla primogenitura dell’idea di arte come creazione. Di certo vi è che il termine di cui oggi disponiamo per concepire questo pensiero, il creare appunto, perde la sua connotazione generica di fare, produrre, quando la creatio diventa la parola che traduce in latino l’attività creatrice del Dio biblico (designata dal verbo ebraico bārā, riservato all’atto divino) e si appresta a fissare teologicamente il rapporto tra Dio e mondo. A un certo punto, l’arte occidentale pesca nella teologia cristiana questo termine, lo riempie filosoficamente con la teoria settecentesca del genio e lo innalza alle vette dell’umano con l’idea di una libertà dell’immaginazione e di una maestria tecnica, che non possono essere acquistate con l’esercizio o lo studio: immaginazione e tocco creativo sono infatti un dono, da affinare e mettere a frutto con il lavoro, certamente, ma pur sempre un dono (divino anch’esso?).
In tempi più recenti l’arte ha a sua volta ceduto l’esclusiva della creazione ad altre sfere dell’attività umana (scienza, tecnologia, design, moda, pubblicità) ma è rimasta detentrice, per così dire, del suo marchio di fabbrica. Questa cessione di diritti, senza diventare una vera e propria cessazione di attività, implica che si possa parlare in tutti questi ambiti, arte compresa, della creazione nel duplice senso, soggettivo e oggettivo, del termine. Diversamente da quel che accade, come abbiamo visto, all’uso del concetto di creazione in senso teologico, si può ancora parlare senza inciampi di creazione, ad esempio, sia per l’attività di un pittore o di un musicista, sia per il dipinto o il brano musicale che ne sono il frutto, che sono cioè la creazione di quegli artisti e di quell’attività. Ma creazione è per noi, oggi, anche e soprattutto l’attività di un designer, di uno stilista, di un pubblicitario e creazioni sono quindi gli spremiagrumi di Philippe Starck, gli abiti di Armani, le animazioni di Armando Testa. Creativi per antonomasia sono poi diventati i fondatori e gli eredi delle grandi multinazionali che producono nuove tecnologie, anch’esse assimilate all’ordine delle creazioni pur essendo in prima istanza invenzioni, più o meno geniali.
Sullo sfondo, c’è sempre l’idea che la creazione abbia a che fare con mondi nuovi, senza precedenti, inediti. Mondi futuri già sbarcati nel presente e diversi comunque da ogni passato: nuovi in quanto appena nati. E’ sicuramente bello crederlo. Mondi che sembrano davvero nati dal nulla, tanto sono nuovi. Ma questi mondi, se vogliono essere nuovi, sono anche destinati a restare plurali, diversi, irriducibili gli uni agli altri e a connettere questa differenza alla variabilità dei nostri modi di sentire. Gli oggetti del desiderio, le creazioni che scatenano la voglia di possederle sono non soltanto degli oggetti feticcio, sono anche e soprattutto dei talismani che sprigionano magicamente dei mondi, che ci aprono porte emozionali, che ci fanno entrare in comunità esclusive. Questi mondi sono fatti soprattutto delle nostre fantasie. Della molteplicità delle nostre fantasie, che non debbono assomigliarsi tra loro per essere e continuare a essere nuove il più a lungo possibile.
L’arte, quando vuole ancora prendersi la briga di produrre opere e non lavorare esclusivamente di concetto o esaurirsi nell’azionismo, sa bene come evocare anch’essa interi mondi dentro a ogni goccia, a ogni parola che circola nel mondo. Sa farlo con una profondità radicale, anche se nella sua lunga storia non ha disdegnato lo scintillio e il compiacimento degli effetti speciali. Per rimpolpare il suo concetto di creazione e continuare a tenerlo distinto dalla versione puramente innovativa e nuovista che circola nella nostra civiltà dello spettacolo può essere utile, e forse anche gustoso, soffermarsi per un momento su due sostantivi creati a partire proprio dalla creazione: ricreazione e procreazione. Può sembrare che ci portino fuori strada e invece possono far emergere meglio il senso della stessa creazione artistica.
Cominciamo con la ricreazione, che ci ricorda subito le aule di scuola dell’infanzia, i corridoi, le corse e gli schiamazzi in giardino, le merende, insomma la sospensione della fatica dell’apprendimento e della paura dell’interrogazione. La mitica ricreazione, che di solito arrivava a metà mattina. Nella ricreazione ci si ricrea. Ecco l’uso del riflessivo e l’idea che, per ricrearsi, non si debba necessariamente riavvolgere il nastro del tempo trascorso dalla nostra nascita e tornare davvero nella pancia di nostra madre, che a un certo punto del passato ha procreato (noi). Possiamo ricrearci da soli o in compagnia, ma anche quando è qualcuno che ci ricrea, la cosa non va presa alla lettera. Ricrearsi indica una piccola rinascita in senso metaforico: riposo, rilassamento, divertimento ma anche recupero delle energie attraverso il cibo. Ristorazione.
Ancora più solleticante è però un nome di luogo deverbale, cioè derivato da un verbo, che ci parla di un posto adibito proprio alla ricreazione: il ricreatorio. Una specie di paese dei balocchi, almeno nelle intenzioni della parola che lo designa. Il ricreatorio è infatti l’equivalente laico dell’oratorio, senza la preghiera o le orazioni, che a rigor di termine dovrebbero essere la missione esclusiva dell’oratorio e un tempo lo erano veramente, prima delle partite di pallone e delle stese di cemento, dove si giocava indifferentemente a basket, pallavolo, tennis. Trieste è piena di ricreatori, che io, da non triestino, non ho avuto il bene di frequentare da bambino. E ricreatorio, al di fuori di Trieste (un’altra delle sue molte peculiarità), è termine desueto; come altri deverbali analoghi (refettorio, dormitorio, riformatorio, reclusorio, sanatorio, obitorio), anch’esso rinvia a una fase storica in cui l’educazione, la beneficienza, l’intrattenimento, la repressione, le cure mediche, il trapasso a miglior vita erano per così dire inscritti nella stessa morfologia dei sostantivi che designano queste funzioni. In quei nomi si parla di spazi chiusi che sembrano forniti di una capacità di agire: in essi, quelle funzioni collettive venivano gestite burocraticamente da inservienti e operatori ma è il nome stesso del luogo che sembra farsene carico, ancora prima e al di là di costoro. Potere del suffisso -orio. Erano luoghi in cui si dovevano ottenere certi risultati, come in un laboratorio multifunzionale, appunto. Sono termini che, a masticarli oggi, trasmettono quasi tutti un misto di oblio e di ribrezzo, una cosa che sta tra il gusto del rosolio e il brivido dei campi di prigionia. Ma il ricreatorio no, nel ricreatorio la pianificazione sociale è comunque vinta dalla libertà che esso regala e regalava al suo interno, una libertà laica e senza pensieri; la stranezza un po’ sferragliante è nel nome ma non è minacciosa, almeno per un triestino. Un po’ come la corriera degli studenti pendolari. Corriera, anch’esso un termine d’altri tempi.
Ricreare e ricrearsi. Ricreo l’atmosfera del nostro primo incontro, ricreo in un set cinematografico una via della Parigi anni ’20: l’arte, la seduzione, l’arte della seduzione sanno riesumare mondi sepolti. Ma la ricreazione sa anche rinnovare qualcosa o qualcuno che continua a esistere, restituendogli la sua dotazione originaria, come fosse appena nato. Questa ricarica spirituale e corporale è ricreazione. Ma questo implica che le cose, appena create, sono piene, intatte, ricche, sono nuove in quanto non ancora usate, anche quando appaiono fragili, delicate: teniamo ferma questa accezione del temine creazione, che ci viene consegnata in realtà dalla ricreazione.
La procreazione è già stata evocata: oggi è termine che ricorre per lo più nella sua versione biotecnologica, come procreazione assistita; senza questa aggiunta o assistenza di tipo medico sembra in effetti anch’esso un vocabolo raro e desueto al pari di ricreatorio, e in fondo lo resta anche così. Ma ci porta comunque nel campo della vita in senso biologico: procreare non può valere per oggetti, artefatti, opere ma è l’atto del generare qualcuno che godrà di una vita, che gli è stata data e che potrà dare a sua volta. Nel procreare prevale l’aspetto del favore, del vantaggio, del dono fatto al pro-creato: quel che gli si dà è la vita. Ma quel che accade tra i viventi può anche essere riferito, con altrettanto vantaggio, al mondo delle opere d’arte. Creare un’opera d’arte significa produrre qualcosa di vivo, non in senso letterale ma nel senso della sua capacità di animarsi davanti allo spettatore e di esercitare in questo modo un’influenza, di generare un effetto anche su altre opere d’arte, così da costituire una sorta di catena vivente. Metafore, certo. Metafore di trasmissione e di trasformazione. Metafore che servono a fissare la vitalità e l’intensità del processo creativo nel suo prodotto e a presentare l’artista come un essere sempre gravido e sempre (o quasi) travagliato dalle doglie del parto. Beh, in effetti è proprio una metafora. Ma anche qui occorre tenere ferma una sfumatura del concetto di creazione, che viene isolata meglio passando attraverso il prisma della procreazione: se la creazione è effettiva e non un suo lontano derivato, essa consiste nel creare qualcosa che non dura semplicemente ma che dura vivendo, irradiando vita dalle sue fibre, procreando nuova vita.
Dopo aver chiarito queste due accezioni laterali, l’aspetto di una ritrovata freschezza e quello della vita che si espande e si comunica, possiamo tornare alla creazione artistica con qualche riferimento in più: in realtà, con due determinazioni centrali della sua natura. Un romanzo, un film, una fotografia, un quadro, quando sono opere d’arte, parlano dei loro contenuti e mostrano le loro forme come se fossero qualcosa di nuovo, di mai visto prima e come se in questa freschezza di sguardo si rispecchiasse in realtà qualcosa che è vivo di suo e che quello sguardo, semplicemente, coglie. Pienezza e intensità, ritrovate spingendosi a fondo, anche al fondo della stessa superficie, e presenza vitale di qualcosa che ha un’anima, che si muove e che ci invita a seguirlo: ricreazione e procreazione, appunto. Ma nel segno di una trasformazione, che non sa più che farsene dell’idea di creazione dal nulla, anche quando ci sono di mezzo l’immaginazione e la fantasia più sfrenate. Per noi, creare è trasformare ciò che già esiste, perché anche nell’atto di fantasia si cambia di segno a qualcosa, lo si ricombina, lo si manipola più o meno. Creare mondi è possibile solo in questo modo.
Penso a un racconto molto famoso di Kafka, La metamorfosi, scritto nel 1912 e pubblicato nel 1915. In questo caso, la forza metamorfica dell’arte come tale si esprime anche nel tema della vicenda, che viene di solito consegnata al genere dell’assurdo o del fantastico o che, senza fare troppa fatica, viene definita semplicemente kafkiana. Ma Kafka è un grande artista e non saprebbe che farsene dell’aggettivo kafkiano. Non è dunque un caso che sia un altro grande artista, Nabokov, a darci la chiave di accesso all’appartamento della famiglia Samsa, dove Gregor, rappresentante di commercio, si sveglia una mattina trasformato in insetto (un insetto grande all’incirca come un cane di medie proporzioni, quindi non una cimice o un coleottero qualsiasi). Nabokov, appunto, parlando del racconto kafkiano nelle sue lezioni universitarie tenute durante il suo esilio finale negli Stati Uniti, sottolineava l’importanza di cogliere il mondo di questa storia come un mondo coerente, non come un insieme di normalità e assurdità bensì come un amalgama in cui l’assurdo della vita ordinaria, meschina e disumana, si misura con la tragicamente assurda eccezione, Gregor, che da coleottero non perde affatto la sua umanità (emotiva e intellettuale) e cede soltanto nel corpo e progressivamente nella sensorialità a una condizione non umana (comunque mai bestiale). Il contrasto tra Gregor e i suoi familiari, le domestiche, il procuratore dell’ufficio in cui lavora, i pigionanti che la famiglia a un certo punto prende in casa per far quadrare il bilancio domestico, questo contrasto risulta tanto più potente quanto più l’assurdità si stratifica e si ritrova in forme diverse nell’intera organizzazione di vita e nei comportamenti di tutti i personaggi, permeando ogni cosa in maniera unitaria. In questo sistema di vita è Gregor, in realtà, l’ultimo uomo rimasto in circolazione.
Per mostrare questa situazione Kafka ha dovuto “reinventare il mondo”, tutto il mondo della famiglia Samsa, come afferma Nabokov. Le chiavi, le porte, i pavimenti, le pareti, le finestre del loro appartamento, per non dire delle azioni più scontate che si compiono al suo interno, come il dormire, il mangiare, il pulire, il parlare, l’ascoltare, il litigare diventano qualcosa di completamente inedito in presenzza del coleottero umano Gregor. Con prosa asciutta e fluente, senza alcun effetto retorico, Kafka riempie di nuovi significati gli oggetti più consueti della vita; interviene a livello atomico, non solo sulla superficie delle cose, come è ancora Nabokov a suggerirci. Dunque, non crea nulla dal nulla se non metaforicamente, come a indicare la radicalità del suo intervento, ma rimodella, plasma “un uomo dormiente e armeggia impaziente con la sua costola”. Nel caso de La metamorfosi, questo è particolarmente vero.
D’altra parte, guardando le cose dal punto di vista della filosofia, ci convinciamo a definire le favole e i romanzi delle creazioni e non dei semplici resoconti sulla base di un requisito molto semplice: in fondo, basta che la vicenda narrata non rinvii a eventi reali ma si costruisca passo passo a partire da se stessa, come un castello di carte. Le storie delle fiabe e dei romanzi, anche di quelli che vengono definiti “realisti”, sono fatte così: stanno in piedi sulla base di un criterio di coerenza ma non rinviano a stati di cose al loro esterno, non possono essere usate in senso referenziale, anche quando mescolano realtà e finzione. Sono racconti in senso assoluto, nel senso letterale dell’aggettivo assoluto. E questo costituirsi come mondi separati non dipende, a ben vedere, dalla qualità della creazione, dalla sua capacità di transustanziare il mondo esistente ma è, di per sé, un carattere strutturale delle storie di finzione, belle o brutte che siano, profonde o superficiali, dozzinali o sorprendenti. La metamorfosi di cui sopra è un attributo estetico dell’opera d’arte ma qui si sta parlando di un requisito preliminare, dell’aspetto strutturale della finzione letteraria come tale. In questo senso, le storie di finzione non sono né vere né false, se la verità consiste nel verificare l’esistenza reale di ciò di cui si sta parlando e nell’accertare la corrispondenza col modo in cui se ne parla.
Le storie, tuttavia, ci parlano e ci trasformano, proprio perché trasformano metamorficamente il mondo di cui esse parlano: tutto questo non si verifica senza rigenerare lo sguardo e animare il contenuto in ballo, come dicevamo. Ci trasformano perché accettiamo che questo sguardo e questa vitalità ci mostrino qualcosa di più vero, di meno scontato, qualcosa di essenziale, che solitamente ci sfugge. Da un regime di neutralità rispetto al mondo reale, da una sospensione della verità, come corrispondenza a qualcosa di esterno, si passa a un’intimità profonda e insondabile con la nostra esistenza, con quella degli altri, con il mondo. Com’è possibile? Tutto questo non può dipendere da un’identificazione con un io tanto fittizio quanto fittizia è la storia narrata, da un fenomeno transitorio di proiezione psicologica, che non lascia conseguenze nella nostra vita: spesso, le esperienze legate all’arte sono più importanti di molti eventi reali, realissimi, che ci riguardano quotidianamente. Sono cariche elettriche, sono concentrati di energia, sono esperienze più significative di altre, e non solo in senso puramente quantitativo: sono squarci in cui riaffluisce il sangue alle membra, respiri in cui si ricomincia a sentire l’aria che fluisce dentro di noi. Sono vere come le parole giuste dette al momento giusto.
Come la mostra di Salgado, che abbiamo appena finito di vedere.
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