NON È UN PAESE PER LUPI MANNARI
MONICA VISINTIN
Persone animali? Questo numero di Endoxa mostra come le contingenze storiche e il clima culturale abbiano portato ad interpretare questo sintagma marcando nell’aggettivo “animali” la denotazione più recente: quella cioè che si limita a vedere negli esseri viventi diversi dall’uomo un’ attività limitata alle funzioni neurovegetative in combinazione con un corredo di comportamenti, trasmessi per via genetica, espressione di istinti. In quest’accezione, il termine persona completa la definizione classica di “animale” come soggetto non solo capace di interagire in un contesto sociale, ma anche portatore di diritti riconoscibili e riconosciuti dalle individui umani.
Possiamo dire che questa percezione dell’alterità animale non è stata mai così forte nella storia dell’uomo. Nel determinarsi di questa circostanza concorrono diversi fattori: in primo luogo, il venir meno delle gerarchie e delle tassonomie di matrice teologica e antropocentrica che hanno investito anche il rapporto con gli animali, riconoscendo all’uomo nel passato un primato assoluto in base alla sua capacità di produrre cultura ed interazioni con l’ambiente rilevabili nel loro divenire storico (anche se nella storia dell’uomo una sensibilità più spiccata verso gli animali è sempre stato riconosciuto come un tratto di umanità se non addirittura di eccezionalità eroica, come potrebbero mostrare facilmente numerosi esempi tratti dal mito – Orfeo – o dall’agiografia – San Francesco nella vulgata dei Fioretti – o dalle tradizioni popolari); in secundis, la consapevolezza delle drammatiche conseguenze dello sviluppo urbano ed industriale che di questa produzione culturale sembrano rappresentare la manifestazione più ineluttabile ed estrema.
La speciale considerazione di cui gode l’animale nell’odierno immaginario collettivo affonda le sue origini in un grande senso di colpa di un’umanità consapevole di assistere alla sesta grande estinzione delle specie animali rilevata nella storia naturale, la prima di cui l’uomo è l’artefice: il rapporto 2017 contenuto in The IUCN Red List of Theatened Species™ ci fa vedere il pianeta terra come una coperta troppo stretta per i sette miliardi di uomini e le rimanenti 8.742.900 specie viventi che popolano tutte le sue nicchie ecologiche, perché di queste 1.736.238 sono a rischio e con esse la biodiversità che rappresenta il motore più potente di ogni interazione del vivente. Questa tragedia vede il suo protagonista costretto nel paradosso di riconoscersi inumano proprio nel momento in cui vede portato alle estreme conseguenze l’espressione del suo essere non-solo-animale e bestiale contro tutti gli animalia, a partire dall’uomo, nella sua incapacità di arrestare il suo fatale cammino nel cosiddetto progresso culturale.
Non bisogna sottovalutare però anche la portata del primo fattore, il declino delle gerarchie, sostenuto con un’efficacia che ormai si può definire implacabile dall’emulazione dei meccanismi che regolano il libero mercato. Lasciati liberi (o abbandonati) da dio, gli individui non accettano più l’imposizione dei rapporti di consorzio nei campi che vanno dall’amore all’amicizia, e si propongono come soggetti in diritto di scegliere un prossimo a misura delle proprie esigenze, che a loro volta sono suscettibili di cambiare nel tempo. Nel campo specifico della famiglia, questo fenomeno ha avuto la manifestazione più vistosa in quella che viene chiamata liberazione sessuale, con la conseguente ipotesi di dissociare il sesso dalla condivisione affettiva. A differenza di quel che si è portati a pensare, questo processo non è fra i più facili da governare: lo scenario contemporaneo ci mostra l’individuo in diritto di scelta illimitata come un novello Tantalo, che si autopunisce con la sua stessa ossessione, incapace di sfamare il suo bisogno d’amore e di amare in modelli di condivisione e convivenza che un tempo erano considerati accettabili o almeno normali. Mai come in questo momento della storia umana gli individui alla ricerca della convivenza perfetta hanno preferito individuare nei muta animalia i destinatari ideali di una capacità di amare altrimenti frustrata o spesso a rischio di essere delusa. Frasi come “Più conosco gli uomini, più amo gli animali” non si sono mai dette con maggiore convinzione (e falsa coscienza: perché questo non ha messo fine alla crudele pratica degli abbandoni e dei maltrattamenti degli animali); e sempre più spesso assistiamo alla ricerca ostinata di compagnie animali da esibire come amici meritevoli soprattutto nel campo che, nella dimensione dell’egocentrismo di massa, assume più spazio e importanza. La rinuncia all’interazione verbale e al diritto di critica è il fenomeno che trova il suo rispecchiamento scontato nella diffusione delle immagini animali nei social e nella comunicazione virtuale, dove non è proprio un caso che la presenza iconica di cagnolini coccoloni e gattini affettuosi occupi un posto di assoluto rilievo.
Si aggiunga l’avveramento della profezia di Andy Wharol riguardo all’ineluttabile ricerca di celebrità realizzabile nella società della ri-produzione industriale e del consumismo di massa: in questa prospettiva, non possiamo non leggere la famosa sentenza di Aldous Huxley To his dog, every man is Napoleon; hence the constant popularity of dogs come declinazione della fine del principio di autorità e, al contempo, dell’incoercibile ricerca ad una eroizzazione self-made nella comoda dimensione geopolitica della proprie quattro mura.
Ma riguardo al rapporto con gli animali, le cose non sono state sempre così. La forza fisica è stato il primo, ed a lungo, l’unico termine di confronto con gli animali nella lotta per la sopravvivenza e nel processo di modificazione ed interazione con l’ambiente che prende il nome di cultura. Forse non sarà forse così per sempre, soprattutto se riportiamo alla gerarchia uomo-animale le importanti riflessioni fatte sul destino delle funzioni di genere fatte da Umberto Veronesi già una decina d’anni fa, escludendo ovviamente la prospettiva ristretta delle relazioni sessuali. Nelle tradizioni religiose antiche gli eroi civilizzatori più antichi sono stati quelli che hanno addomesticato (= trasformato in propria domus, ovvero casa) la terra liberandola dagli animali selvatici più pericolosi o trasformando in propri servili alleati le specie meno refrattarie (quelli che sono diventati gli animali domestici). Senza spostarsi troppo lontano dai complessi mitici che abbiamo conosciuto meglio sui libri di scuola, basta considerare con attenzione il mito delle Dodici fatiche di Heracles per averne una facile conferma. Heracles era rappresentato come un atleta nudo abbigliato con una semplice pelle di leone (λεοντῆ), simbolo della prima vittoriosa fatica contro il leone di Nemea, ma anche talismano che gli assicurava la forza dell’animale che già allora era considerato simbolo di forza e di regalità: per sintetizzare l’impressione che doveva destare nei suoi futuri avversari ma anche nei cultori delle sue imprese, vestendo la pelle di leone Heracles aveva assunto l’aspetto molto simile a quello di un mostro: Essere che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale e come tale induce stupore e paura; è per lo più formato di membra e di parti eterogenee, appartenenti a generi e specie differenti, con aspetto deforme e dimensioni anormali, secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani. E in effetti, Heracles rappresenta per l’immaginario classico il sovradimensionamento mostruoso di tutto quello che già normalmente di debordante ed eccezionale si ascrive alla personalità dell’ eroe: mostruoso in forza fisica, potenza amatoria (e connessa fertilità, concretizzata nell’interminabile serie di discendenti spesso eponimi di regioni sperdute dell’ecumene, il mondo ridotto a casa – οἴκος – dell’umanità), vocazione alla crapula, inclinazione alla pazzia e la lista potrebbe andare avanti per molto; se è vero che monstrum deriva dal latino monere, ammonire, Heracles è un vero e proprio monito all’umanità bisognosa di essere messa in soggezione di fronte al conturbante spettacolo della potenza umana nel modificare la natura.
Creato forse come autoattribuzione e autoproiezione dei poteri dell’animale da sconfiggere più pericolosi e inquietanti, l’immagine mostruosa dell’eroe tende per lo più a sdoppiarsi in quella di un mostro a sé stante e nella figura dell’eroe, secondo i canoni di una convenzione che non possiamo che riconoscere come secondaria rispetto al sinolo di eroismo e mostruosità rappresentato da Heracles: questo accade soprattutto nel diffusissimo modello narrativo in cui un eroe (un principe, un cavaliere, un giovane di belle speranze) combatte per strappare alle grinfie di un mostro (un padre geloso, un tiranno, uno zio cattivo, un marito deforme) una bella di cui è destinato a diventare il promesso sposo. Certo non mancano i casi in cui la confusione dei ruoli è sfiorata anche a generazioni di distanza dall’assunzione in cielo di Heracles: come in quella storia, narrata da Pausania ed altri cercatori di curiosità antiquarie nell’antichità, in cui la ragazza è anonima (e questo non ci fa specie), l’eroe buono si chiama Euthymos perché è un bravo ragazzo (prima di entrare nel mito, Euthymos fa di professione il campione olimpico di pugilato ed il suo nome predice e predica un repertorio completo di virtù: oggi si banalizzerebbe la semantica di θυμὸς parlando di “testa e cuore”) e l’antagonista mostruoso è noto nientemeno con l’antroponimo tabuistico di Eroe. Per chi avesse dei dubbi che la storia metta in scena lo sdoppiamento della stessa icona, basti ricordare che in ricordo dell’impresa di Euthymos girava un proverbio a proposito di chi pensava di ricavare profitti da investimenti pericolosi: siccome prima di essere sconfitto da Euthymos, l’Eroe pretendeva dalla città di Temesa il sacrificio della più bella ragazza della città, il proverbio diceva che “per chi cerca cattivi guadagni arriverà l’Eroe”. Non mi prendo neanche il disturbo di andare a cercare nella bibliografia specialistica le spigolature degli archeologi che avranno trovato nella figura degli imprenditori sconsiderati un’allusione agli abitanti di Temesa o della vicina Locri Epizefiri, la città originaria di Euthymos: perché esistono di sicuro, perché avranno parlato malamente di me che su questa storiella ci ho intessuto un giovenile errore pubblicato con l’irragionevole contributo del C.N.R. e soprattutto perché sono sicura di avere ragione. Il mito non deve rendere conto di nulla e non cerca altra verità che quella di dare forma, per altro mai definita, alle idee in cui andiamo articolando la rappresentazione della nostra cultura. Per altro, a chiarire l’ambiguità della determinazione etica dell’Eroe, concorre anche il fatto che una delle fonti della storia ci dice che l’Eroe aveva avuto da vivo un nome che era anche un cognome: si chiamava Polites (ci ricordiamo che è un derivato di πόλις, città, vero?) ed era un compagno di Odisseo che, in una sosta a Temesa, aveva usato violenza con una fanciulla della città. Quante città hanno voglia di tenersi come eroe cittadino un avatar di un vampiro?
La storia del duello Euthymos e l’Eroe, di cui purtroppo abbiamo perso quella che doveva essere l’unica versione poetica degna di nota (a Euthymos è dedicato un frammentino sopravvissuto dal naufragio dell’opera del grande poeta Callimaco), è interessante anche per un dettaglio: pare che in un’antica pittura (παλαιὰ γραφή) l’Eroe apparisse vestito di una pelle di lupo. Si sarà trattato di un Heracles incattivito dalla perdita del suo sex appeal?
Forse non è indispensabile arrivare a questa conclusione anche se la troverei un’ipotesi divertente, ma più che altro per questioni che hanno a che fare con l’ orgoglio di appartenenza al mio genere: chiudendo gli occhi sul fatto che in ogni caso non si parla di una pelliccia ecologica, una si immagina più volentieri delle zampe di leone che penzolano sui pettorali di un fusto che una pelle di lupo sul torace impotente di uno stupratore. Non è da sottovalutare invece che la pelle del lupo fa da abbigliamento al fantasma, o all’icona, di un amante imperfetto: nel caso della storia raccontata da Pausania abbiamo a che fare con un tipo che, invece di aspettare le giuste nozze e magari approdare a quella comoda articolazione della vita sessuale cui, in età classica, sembrava aver diritto almeno qualsiasi ateniese di condizione libera a detta di Demostene, sfoga il suo desiderio sessuale su una fanciulla incolpevole in maniera violenta e vigliacca; altrove vediamo che le sembianze del lupo sono quelle che sembrano tradire meglio la paura di un fallimento nell’esplorazione dell’alterità femminile, specie se chi sogna di essere un lupo è un ragazzo non ancora iniziato pienamente alla vita sessuale.
Provate a vedere come riesce bene con un’icona tanto più carica di erotismo quanto più priva di determinazioni sessuali (un androgino) e magari razziali. Provate ad immaginare che la fantasia di un poeta moderno costruisca un mostro che prima di trasformarsi (o piuttosto di traverstirsi), anche se solo parzialmente, in animale, porti su un bomber da collegiale abbastanza agghiacciante un’iniziale che possiamo sciogliere in tanti modi: Monster, Macho Man o anche Michael, e che solo il pensiero di questo enigma (il mostro in parole!) ci butti addosso il piacere di provare una fifa blu.
Prima di venire agli esiti di questa fantasia, proviamo a tornare un passo indietro. Avevamo iniziato questo tour attorno al rapporto fra persone e animali prendendo le mosse dai giorni d’oggi, in cui il desiderio di pensare gli animali come persone è particolarmente vivo e riconosciuto. Poi abbiamo fatto un salto enorme nel tempo, tornando a vedere come andavano le cose ai tempi in cui, per paura che intralciassero il cammino della cultura e della civilizzazione, gli animali erano chiamati a far parte dell’immagine di persone nella creazione immaginifica dei mostri teriomorfi. Questi ultimi hanno conosciuto una fortuna impressionante nelle tradizioni narrative di tutto il cosmo, finché, sembra, non abbiamo provato ad immaginare che gli animali potessero impersonare emozioni, sentimenti e diritti degli individui umani. In uno dei suoi articoli per il quotidiano La Repubblica negli anni ’90 raccolti ne I barbari, Alessandro Baricco ricorda il sottile, disdegnoso spavento di Walter Benjamin per la crescente fortuna di Mickey Mouse negli anni ’30, quando forse ha preso forma quel modo di vedere gli animali che ha portato nei pet shop la delirante offerta delle torte di compleanno e i collarini tempestati di Swarovski per mute compagnie animali, spersonalizzati in un delirio di caratterizzazione antropica.
Questo significa che il teriomorfismo è una fantasia in disuso? Sembrerebbe di no, a giudicare dall’enorme successo di generi come l’horror e il fantasy, o dall’intramontabile fortuna della lotta con i mostri animali nei videogiochi e nei tatuaggi, tanto per limitarsi ad alcuni esempi e pure di corsa. Ma verrebbe voglia di andare a vedere quand’è stata – forse – l’ultima volta in cui il travestimento animale di un amante maschile è diventato un mito planetario.
Questa occasione vale anche la pena di collocarla nel tempo. Siamo alla fine di novembre del 1982 quando viene pubblicato quello che ancora oggi è l’album più venduto nella storia: si tratta di Thriller di Michael Jackson, un capolavoro assoluto della musica contemporanea che incoronerà il suo interprete come il re del pop e che, dopo una serie impressionante di riconoscimenti, 26 anni dopo la sua uscita viene incluso nella Biblioteca del Congresso Americano come Tesoro Nazionale. Siamo usciti dalla dimensione epicorica dei miti greci, ma come vedrete si tratta tutt’altro che di una provocazione. Anzi, chissà che non sia per gli austeri studiosi dei miti classici una buona occasione per sentirsi un po’ più a casa quando si parla di cultura mainstream, trovando la conferma che una buona conoscenza dei modelli antropologici delle culture classiche non diventa necessariamente un motivo per sentirsi emarginati quando si parla di musica per le masse. Anzi.
Vale anche la pena di individuare i destinatari principali di questo disco storico. Sono i figli dei baby boomers, la prima delle generazioni più illuse e tradite dai sogni di benessere del dopoguerra. Sono i tempi di quello che in Italia viene chiamato edonismo reganiano, gli anni che preparano l’umanità alla fine della guerra fredda e alla sentenza di fallimento della politica ideologica, la breve parentesi di un mondo che coltiva sogni di consumo illimitati e ormai sdoganati anche dalla generazione che ha concepito il sogno fugace della fantasia al potere. Fantasia che si sta lentamente traducendo nella realtà di una permanenza al potere, a livello politico ed ancor di più nel mondo del lavoro, della generazione che l’ha concepita sine die.
Ma per la generazione di Thriller si tratta di attraversare la terra di mezzo dell’iniziazione ad un mondo che ci si illude vicino a quello precedente. Ed ecco che quando le vendite dell’LP sono già alle stelle, senza altro bisogno se non di quello di consacrare il successo senza frontiere dell’ex cantante dei Jackson Five che spadroneggia le classifiche dopo il trionfo di Off The Wall, ecco che viene realizzato un videoclip che non ha nulla di promozionale e che perciò può azzardare di presentarsi in una forma inedita: quella della narrazione di cui la title track diventa la parte lirica cantata. L’esperimento è talmente riuscito che l’anno seguente si vede costretto ad imitarlo un vero pioniere della diffusione multimediale del rock, David Bowie, incappando in un imbarazzante scivolone nel kitsch con il video Jazzin’ for Blue Jean, uno dei momenti meno riusciti della straordinaria carriera del Duca Bianco all’inizio di una forte crisi creativa.
La storia la conoscete in molti: un’automobile che riporta a casa due ragazzi in fase di corteggiamento si ferma a notte fonda nella strada che percorre una tenebrosa foresta. Il ragazzo, l’alter ego di Jacko adolescente, si scusa con la ragazza facendo capire che non si è fermato per sedurla a tradimento perché è finita la benzina. “Che si fa ora?” chiede la ragazza, con un sorriso ammiccante: i due iniziano ad avventurarsi a piedi forse verso casa, forse in una terra che non conosce nessuno dei due. Non a caso quindi il ragazzo si confessa: lei gli piace, e spera che sia così anche per lei. La felicità della ragazza si esalta nel regalo di un anello di fidanzamento e non riesce a spegnersi subito neanche quando il suo nuovo partner gli dice che “lui non è come gli altri ragazzi”. L’ironia diventa fortissima quando la ragazza gli risponde che è proprio questo il motivo per cui lei lo ama perché, subito dopo, il ragazzo che porta una giacca da college con l’anagramma M inizia a trasformarsi in un lupo mannaro. La fanciulla esplode in un urlo inarrestabile di terrore, che sottolinea l’imponenza della spaventosa visione di Michael-lupo che ulula in piedi davanti a lei schiacciata in terra in attesa di sbranarla. È chiaro che la scena adombra un’aggressione sessuale umana: la ragazza giace in terra supina e la bestia che vuole aggredirla non tenta un accoppiamento more ferarum, che per altro vedrebbe la femmina consenziente.
Ma ecco che mentre infuria la mostruosità sonora delle urla della ragazza che si intreccia al verso del lupo, la telecamera si sposta sulla platea di un cinema: lì sta seduta una coppia di ragazzi che sono la replica esatta dei due protagonisti del film. Lui sorride, anche un po’ sguaiatamente, perché si identifica nel protagonista maschile del film, mentre lei si alza per lasciare la sala perché nella scena cui sta assistente non ci vede niente di divertente. Eppure si tratta di una giovane donna che ha superato la paura dei ragazzi-lupi perché la vediamo abbigliata e nell’atto di muoversi e parlare con i modi ammiccanti di chi sa come sedurre gli uomini. E infatti quando Jacko la rincorre fuori dal cinema tentando di prenderla in giro per la sua fuga, lei dice senza mezzi termini: I wasn’t that scared. Un modo per dire che lei non aveva paura; ma soprattutto che quella ad aver paura non era lei.
Poi inizia la leggenda: Michael canta e balla in maniera irripetibile la sua serenata alla bella che lo guarda con l’aria di chi si aspetta che il suo mostruoso cavaliere le faccia provare un killer, diller, chiller thriller here alright, nonostante l’invito venga da lui con la promessa di un abbraccio falsamente consolatorio (So let me squeeze you tight); ma tutta la canzone, come ha dimostrato in un bellissimo saggio lo storico dell’arte Kobena Mercer, è giocata su livelli di multiple parodie che vanno dal controcanto dei B-movies del genere horror a quello degli stessi generi praticati da Michael Jackson nella sua carriera (la disco – midnight hour e getting down evocano almeno Get down on the floor, canzone dello stesso MJ nell’album Off The Wall – e il funky – il funk evocato nel rap recitato da Vincent Price è il lezzo degli zombie che ballano con Jacko la celebre coreografia finale curata da Michael Peters). E anche se alla fine la ragazza viene portata fuori dalla casa in cui si è rifugiata (la sua, probabilmente) sotto l’assedio dei fantasmi delle sue ultime paure da post-adolescente ed è Jacko a dirle What’s the problem? C’mon, I’ll take you home, è chiaro che l’ex lupo mannaro ha finito, nella sua doppia recita, a fare il gioco della ragazzina che nel bosco gli ha chiesto So, what are we going to do now? Come sottolinea Mercer, l’illusione di fare il lupo con le ragazzine è finita, e non resta che riderci sopra come fa in sottofondo Vincent Price.
Nel video di Thriller, Michael Jackson è all’inizio e al tempo stesso all’apice di un percorso artistico in cui tutte le categorie estetiche, antropologiche e sociali stanno per essere cancellate nel corpo di un’icona senza tempo. E ci porta lontano dalla strada in cui il maschio può permettersi di diventare per gioco un mostro, in un mondo nuovo. Che non è un paese per lupi mannari, per loro sfortuna.
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