AMORE. VARIAZIONI SUL TEMA
MICHELE ILLICETO
Parlare dell’amore è costringerlo a stare nelle parole che non abbiamo. A starne fuori quando ne abusiamo. È difficile parlarne senza mai nominarlo per dargli una veste che forse non gli appartiene. Nominarlo è già violarlo. Meglio è sfiorarlo senza contaminarlo. Abitarlo senza mai possederlo. Lasciare che accada senza consumarlo. Farlo diventare linguaggio senza che smetta di essere silenzio. È difficile farlo senza disturbarlo. E ciò proprio a motivo del fatto che potrebbe risultare troppo facile farlo. Talmente facile che diventa difficile. In amore la facilità – o presunta tale – è più un ostacolo che un aiuto. Più un rischio che un vantaggio. Una via per inflazionarlo piuttosto che scioglierlo e liberarlo. In amore, come dice va Rilke dovremmo tornare al difficile: «La gente (con l’aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità e della facilità nella più facile china; […] che alcuna cosa sia difficile dev’essere una ragione di più per attuarla […] Anche amare è bene: ché l’amore è difficile» (R.M.Rilke, Lettere a un giovane poeta. Lettere a una giovane signora su Dio, Adelphi, p. 48).
È difficile parlare dell’amore senza rischiare di sporcarlo, di scoperchiarlo, di farlo venire allo scoperto, imponendogli di lasciare una volta per sempre le sue retrovie, lo spazio nudo in cui è nato senza che si faccia violenza ai suoi segreti, ai suoi ritardi, ai suoi lunghi silenzi. Al suo nascondimento. Si rischia di stanarlo e renderlo ostaggio dei nostri bisogni, che, come dice Bauman, oggi sono diventati capricci. Come anche dei nostri abusi. Delle nostre preferenze e anche delle nostre aspettative. Per questo ogni tanto ci abbandona e si ritira nei luoghi in cui bisogna continuare a cercarlo.
Parlarne oggi significa andarlo a riprendere da quel pantano di parole inflazionate in cui è caduto senza che nessuno se ne sia accorto. C’è troppo amore in giro: nelle parole, nelle visioni, nelle scene artificiali e artificiose del mondo virtuale, nei social network, nei negozi. C’è troppo amore in giro, per questo forse ce n’è poco. Poco nei corpi e sui volti, molto nelle parti anatomiche vivisezionate e smembrate che di esso vengono offerte per saziare la voracità visiva di chi è fuori dal proprio sguardo.
Oggi ci manca la mancanza come radice del desiderio (Cfr. Isabella Guanzini, Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, Ponte alle grazie, Milano 2017, p. 62). Ma purtroppo nella società liquida l’amore da desiderio si è trasformato in pura voglia. Come scrive Bauman avviene «come per lo shopping: oggi chi va per negozi non compra per soddisfare un desiderio […] ma semplicemente per togliersi una voglia […] Il desiderio ha bisogno di tempo per germogliare, crescere e maturare» (Z. Bauman, Amore liquido, trad. it., Bari-Roma, Laterza, 2003, p. 17).
All’amore invece piace nascondersi nel gesto semplice di una carezza, di un bacio, di un abbraccio fugace, di uno sguardo discreto, di una intimità che resiste ad ogni forma di visibilità e di ostentazione (cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 1995). L’amore non confonde l’esposizione con l’esibizione. Esige il raccoglimento dell’interiorità per attraversare tutto lo spazio dell’esteriorità.
Quando l’amore smette di essere cammino, fa presto a trasformarsi in una stazione di servizio. E la vocazione, come ha scritto il filosofo coreano di lingua tedesca, Byung-Chul Han, cede il posto alla prestazione (Byung-Chul Han, Eros in agonia, tr. it. di F. Buongiorno, Nottetempo Edizioni 2013), la sorpresa alla pianificazione, il miracolo al sensazionale.
È difficile parlare dell’amore soprattutto perché non si hanno le parole per dirlo. L’amore, come diceva Platone nel Simposio, è tentare di dire qualcosa per cui non ci sono le parole per dirlo: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio» (Platone, Simposio, 192, c-d). È un dire che non dice. E, proprio perché non dice, in fondo dice. L’amore disdice ciò che di esso si dice. Libera le parole rimaste mute e si libera dalle parole rimaste vuote.
Eppure, quando viene, l’amore vuole abitare il linguaggio. Vuole significare l’insignificante. Esprimere l’inesprimibile. Comunicare l’incomunicabile. Chiede parole per dire il silenzio che si porta dentro. È disposto ad abitare anche le parole malate che lo hanno distorto o travisato. Viene alle parole per ripulirle, per liberarle. Perché non è l’amore che cerca le parole, ma viceversa sono le parole a cercare l’amore, per bagnarsi del mistero che in esso tace, per tendere ad esso come al loro ultimo calore, al loro ultimo approdo. Sponda su cui morire nel sospiro degli amanti senza più segreti.
Tuttavia, la prima parola dell’amore è la parola che non c’è. Quella che nessuno può ascoltare. Parola sempre nuova che deve ancora venire. Che ancora deve nascere per sorprendere e inquietare chi non sa più ascoltare. Parola che, segreta, sta accovacciata dentro chi ancora non l’ha incontrata. Oppure l’ha evitata. Quella che non è ancora stata scritta in nessun vocabolario. Quella sgrammaticata che ci fa fare brutta figura. O che spunta all’improvviso senza alcun preavviso. Fuori dalle righe e fuori anche da tutte le rime.
Bisogna abitare la sua latitanza per scovarla nella sua lontananza, dove, assente, costruisce la propria casa. «Se ti seguissi, Orfeo, mi riporteresti alla solita vita, giornate che finiscono e ripartono, e alla fine ci lasciano invecchiati, di nuovo sull’orlo di lasciarci. L’amore è lontananza, si nutre di distanze impercorribili. Non ho bisogno di vivere con te. In questo buio dove non ti vedo e non ti ho, è perfetto amarti. Fare a meno di te è l’amore» (P. Mastrocola, L’amore prima di noi, Einaudi, Torino 2016, pp. 29-30).
L’amore è lontananza perchè sfida chi lo cerca non tanto a possedere ma ad attraversare tale distanza senza nulla prendere. Perché l’amore precede l’amore, le sue voglie e le sue buone intenzioni. Ti fa capire che quello che non ancora hai è molto di più rispetto a quello che pensi di provare. E se comincia come emozione non è per restare tale, ma per diventare sentimento fino ad elevarsi alla virtù. Perché lo scopo dell’amore non è il godimento illimitato di un desiderio delirante (Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010), ma la gioia di chi sa, per amore, anche rinunciare. E se il mio amore è di ostacolo, rinunciare anche allo stesso amato. Perché se amo lui/lei per me non amo affatto. L’amore, infatti. non si fonda sul bisogno che ho dell’altro, ma sul desiderio che in me l’altro suscita per lui.
Oggi le parole sono orfane. Possono tutto e nulla. Orfane di origine e di senso. Funzionano e basta, senza sapere da dove vengono. Orfane di silenzio e di quella lontananza che le permettono di andare via quando ne abusiamo e di tornare e venire quando più non le aspettiamo. L’amore si fa parola solo per chi non ha parole, per chi è abituato al silenzio delle cose, a stare nella propria povertà di cui l’amore in un certo qual modo è anche figlio. Per chi è caduto fuori dal registro delle cose certe. Per questo si fa poesia, timido sussurro. Perché attraverso ciò che dice vuole aprirsi un varco per additarci ciò che non si può dire.
Tuttavia le parole sono orfane non solo dell’amore, ma anche del dolore. Ed è questa la loro sofferenza. La loro lacerazione. Per questo sono vuote e sterili e non convincono nessuno. Non contagiano, ma annoiano. Spiegano ma non significano. Indicano ma non conducono. Mostrano ma non rivelano. Sono troppo piene per fare spazio al vuoto che l’amore dona a chi più non lo teme. Alla ferita che il dolore rivela. L’amore non può abitare parole inospitali. Esso sa che chi non è abituato al silenzio si disabitua anche alle parole. E quando l’amore viene per farsi linguaggio siamo impreparati a comprendere il suo alfabeto fatto di parole che non conosciamo.
Per queste ragioni chi vuole parlare dell’amore deve prestargli le parole che non ha. Deve acconsentire che sia l’amore a redimere le parole da cui è stato svuotato. Riabilitarle in quello spazio sacro che è il luogo dove amore e dolore di nuovo si incontrano senza farsi più del male. Senza più ignorarsi né prevaricare. Forse anche senza parlarsi, ma solo guardandosi. Senza evitarsi o neutralizzarsi, ma reciprocamente sostenendosi. Semplicemente attraversandosi. Perché l’amore comincia dove la parola manca. Dove l’indicibile mancanza disegna una ferita sulla cui soglia dolore e amore, come fratelli, stanno come figli di una stessa madre.
Chi, dividendo amore e dolore, pretende di amare senza mai soffrire, prima o poi si troverà a dover soffrire senza che sappia più amare. Che cos’è un amore senza dolore? Immaturità travestita di pura illusione. Incanto che diventa calcolo e previsione. E un dolore senza amore? Disillusione travestita di immaturità. Abbandono che non ha saputo farsi dono.
Ho paura di parlare dell’amore in un mondo in cui tutti ne parlano con parole ormai consumate. O che ne abusano senza conoscerlo. Che dicono di conoscerlo senza mai soffrirne abbastanza. Lo invocano senza cercarlo. Lo comprano per consumarlo, per poi abbandonarlo appena diventa un poco più esigente. O addirittura ingombrante. L’amore che all’inizio viene visto come un gioco poi diventa ben presto un peso di cui liberarsi. È come strattonato da ogni parte senza che mai nessuno stia davvero dalla sua parte. Specie quando perde, o, quando ti lascia a casa più nudo di quando lo hai trovato. O quando, indifeso, viene offeso ad ogni crocicchio di strada. L’amore ha molti amici che presto diventano suoi nemici. Molti cantori che si dileguano appena la musica cambia spartito. È sulle labbra di tutti, ma nel bacio di pochi. Sui corpi svetta mentre nei cuori langue.
L’amore, come voleva Platone, è povertà e ricchezza, figlio di Penìa e di Pòros. Perde ciò che non dà e riceve da ciò che offre. Si nutre della propria fame, mentre sazia senza mai riempire. La sua ricchezza è la sua mancanza. La consapevolezza cioè che deve ricominciare sempre di nuovo a dare ciò che non ha per potere ricevere di nuovo quel poco che ha. E se si sente arrivato e ricco per ciò che ha trovato, o anche per quanto ha saputo dare, ecco che ridiventa, proprio a causa di ciò, di nuovo povero. Diventa povero se bugiardamente si sente ricco, pretendendo di essere capace di dare un tutto che non possiede.
Il poco che ha non è una scusa per non darlo, perché già sa che è tutto ciò che ha da dare. Non quantifica né qualifica, non fa i conti in tasca, non misura. L’amore non conosce bilance. «L’amore non è baratto» (M. Marzano, L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore, Utet, 2014, p. 27). Perché l’amore quando è vero si spreca, esponendosi anche ala ingratitudine di chi ritarda a comprenderlo. E, nonostante tutto, continua a darsi sempre, perché sa che ciò che eccede la misura di chi lo contiene, servirà per riempire gli spazi rimasti vuoti da dinieghi inaspettati.
L’amore è celebrato, osannato, enfatizzato. Affascina e ammutolisce. Incanta e disincanta allo stesso tempo. Seduce e abbandona. Illude e delude. Suscita curiosità e presto anche noia se per cornice ha l’abitudine. L’amore ricatta, l’amore promette. L’amore consola, l’amore ferisce. L’amore guarisce. È capace di farti soffrire una vita intera in cambio di brevi attimi di gioia. Eppure sembra che ne valga la pena. Anche se poi sappiamo che deve andare via. Perché era lì per noi, ma non solo per noi. Chi non capisce questo lo perde prima di trovarlo. L’amore se lo tieni inaridisce, se lo dai arricchisce.
Eppure, nessuno è pronto alla sua venuta, alla sua visita inaspettata, e neanche alla sua partenza. Al distacco che esso chiede proprio nel mentre ci lega e ci fa affezionare. Chi non è pronto a riceverlo, difficilmente sarà pronto a darlo. Riceverlo è lasciarlo andare. Perché amare non è trattenere, fissare, ma lasciarsi solo attraversare. L’amore resta solo finchè lo ospiti come un vento che non puoi addomesticare. «L’amore viene, l’amore va. A suo tempo, mai al nostro. Chiede, per venire, tutto il cielo, tutta la terra, tutto il linguaggio. Non potrebbe resistere nella costrizione di un senso. Nemmeno saprebbe accontentarsi di una felicità. L’amore è libertà» (C. Bobin, Elogio del nulla, Servitium, 2002, pp. 41-42).
L’amore viene per farti lasciare tutto ciò che hai, perché vuole che tu cominci ad essere ciò che sei. Ciò che fino ad allora non sei mai stato, per paura o per orgoglio, per viltà o per indifferenza. L’amore quando viene rovescia mondi ordinati, capovolge situazioni programmate. Mette sottosopra gli schemi e gli stereotipi che ti tengono ingessato.
L’amore ti lascia solo con la tua solitudine. Perché tu possa prenderti per mano. Non per farti uscire, ma per farti rientrare. Perché in amore si esce rientrando laddove non siamo mai stati, per evitare di essere maschere innamorate di niente. Entrare in quella stanza nella quale non sei mai stato. E da dove, per paura di restare solo, hai sempre cercato di scappare. E se si esce rientrando, è anche vero che si rientra uscendo, perché il mondo che hai trovato l’amore ti chiede di donarlo. Solo chi sa stare da solo con se stesso è capace di stare con un altro e amarlo fino in fondo. Infatti, «L’amore consiste in questo: che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda» (Rainer Maria Rilke, Lettera a un giovane poeta, cit., p. 53).
L’amore è lottare con se stessi per elevarsi al di sopra dei propri bisogni. Per uscire fuori dal grembo in cui si è nati. Andare via di casa per nascere una seconda volta fuori dal proprio grembo. Per farsi grembo di ogni luogo che ne è rimasto senza. Lontani dal proprio cordone ombelicale. Per uscire fuori dalla tana del proprio io. Per restare senza più io ed essere così degni di diventare suoi discepoli. L’io è un maestro che desidera essere lasciato. Dismesso. Oltrepassato. L’amore è esodo.
L’amore è liberazione da tutto ciò che mi impedisce di essere per l’altro. Di essere me stesso. Me stesso oltre me stesso. Me stesso senza più me stesso. Me stesso per l’altro. Fin dentro l’altro. Laddove non potrei stare se lui non lo volesse. Perché amare è scoprire di non bastare a se stessi. «Vuoi sapere chi tu sei per me. E allora ecco: tu sei colei che mi impedisce di bastarmi […] Tu mi hai dato la cosa più preziosa di tutte: la mancanza!» (C. BOBIN, Più viva che mai, San Paolo, Roma 2010 p. 67).
Per questo l’amore concede sempre un pò di tempo perché uno possa imparare la sua arte. Chi lo riduce a pura tecnica invece non lo capisce. Lo dissipa e lo svilisce. Passerà oltre e rimarrà straniero. A volte lo si carica di ambiguità per avere la scusa di restare neutrali. Per poterlo usare da ogni lato. Per diventare suo tutore. Per farsi garante di un guscio rimasto vuoto. Eppure «prima di imparare ad amare bisogna imparare ad essere» (M. R. Bous, Imparare ad amare, Edizioni Qiqajon, 2008, p. 39).
Siamo tutti bravi a farne uso. A consumarlo. Tutti esperti a trattarlo come un amico abitudinario. Ridotti a semplici “collezionisti di esperienze” (Z. Bauman) siamo sempre pronti a raccontare le nostre ultime scappatelle, perché per noi ormai l’amore è solo un cumulo di opportunità, un ventaglio di possibilità in cui giocarci . Tutti i tratti ormai sembrano svelati, mentre l’amore è come un bambino che deve essere ancora accolto. L’amore non cerca tutori, né ingannatori. Non cerca esperti che collezionino trofei, né sapienti sazi di sapere, ma ignoranti che come diceva Pascal «cercano gemendo».
L’amore è una tentazione travestita di innocenza. Infatti, può darsi che abbia ragione Bataille il quale ha sostenuto che nell’erotismo «ciò che è sempre in gioco sia la possibilità di sostituire, all’isolamento dell’individuo, alla sua discontinuità, un sentimento di profonda continuità» (G. Bataille, L’erotismo, Mondadori, Milano 1969, p. 17). In questo senso l’eros è una via di fuga dal disordine implicito nell’ordine delle cose. Eppure in molti casi l’amore è una tentazione in attesa di diventare benedizione. O anche maledizione. Certo non è riparo. Sbaglia chi lo pensa. Si trova subito scoperto chi in esso si rifugia. L’amore è mare aperto e mai porto sicuro. È oceano tempestoso e mai terraferma. Arcipelago (di stelle) e mai soltanto isola felice. Più naufragio che salvataggio. Molto più abisso che superficie. Fondo senza fondo in cui ogni altezza capovolge chi, cadendo, vi è rimasto dentro. Eppure resta l’unica forma di elevazione. Cammino che ci fa fare esperienza di quella trascendenza (senza o con Dio?) quale cifra della nostra esistenza.
E se in Platone l’eros è trascendenza perché è mosso dalla passione, in Kierkegaard è trascendenza perché è risposta ad un appello, vocazione che si disegna sulle tracce dell’Invisibile. E così l’eros divenne ancor più ascetico (già lo era con la “scala erotica” di Platone) nel momento in cui divenne anche etico, liberandosi dal solo piano estetico. Non come “imperativo categorico o assunzione di una norma, ma come obbedienza a quel comandamento che da sempre si trova scritto sul volto dell’altro. Esso che fino ad ora ci ha sempre detto “Non uccidere” (cfr. E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Editrice La Scuola, Brescia 1986, p. 60), ora invece ci dice “Tu mi amerai”.
Eppure l’amore non ci salva. Ci eleva senza tuttavia salvarci, perché mentre ci lega al cielo ci tiene fissi alla terra. Alla fragilità della nostra carne. «Resta l’amore che ci solleva da tutto, senza salvarci da nulla» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit., p. 39).
L’amore è esposizione e non semplice trasporto. Non siamo solo esposti tramite esso, ma anche in esso e ad esso. Non solo non è riparo, ma da esso stesso non c’è riparo. Se l’amore non ripara da nulla, nulla ripara dall’amore. Nessuno è al riparo dall’amore e nessuno è al riparo nell’amore. Ed è questo il suo fascino. È rischio e non certezza, esodo e non radicamento. Altezza e non pianura. Profondità e non superficie. Pendio e non radura. Possibilità e non necessità. Libertà e non cieco fato. Non è uno stupido destino che si gioca tra fortuna e sfortuna. L’amore è sfida ed è cammino, pro-vocazione oltre che vocazione. Desiderio oltre che Legge. Mistero e non solo puro segno. Sostanza e non semplice sembianza. Narrazione e non farsa. Vita e non ideologia. Realtà e non pura scena.
Parlare dell’amore è parlare della vita fatta di eventi e di accadimenti. Dei nostri fallimenti e delle nostre lotte, delle nostre angosce e delle nostre gioie. È parlarsi dentro. Parlarsi accanto. Sopra, sotto, di lato e in ogni angolo. Non certo parlarsi addosso in un inutile soliloquio. Perchè l’amore è la parola che sta in mezzo a due estremi che fanno fatica a incontrarsi.
L’amore è ovunque e da nessuna parte. È lo sfondo di ogni evento. Il filo rosso attorno a cui di nascosto ogni storia – quella di ciascuno – cuce e tesse la propria tela. Punto mobile in cui ciascuno tenta di tenere uniti i mille frammenti della propria vita. La leva di ogni partenza e la meta di ogni viaggio. È cominciamento puro che non conosce mai davvero il fine verso cui tende. Verso cui corre.
L’amore è tutto per chi non ha niente. Per chi è capace di spogliarsi delle cose inutili. Per chi ha il cuore sgombro da tutte quelle cianfrusaglie con cui vorremmo sostituirlo, per riempire quel vuoto che, creato da lui medesimo, solo lui può colmare. E se diventa un surrogato, condanna ad un vuoto abissale, facendoci passare «dal deserto tragico al deserto apatico» (G. Lipovetskj, L’era del vuoto, Luni, Milano, 1995, p. 57).
L’amore è sospensione oltre che apprensione. Se l’amore è tutto per chi non ha niente, facilmente diventa niente per chi pensa di avere tutto. L’amore si pone tra il tutto e il niente. E pone anche te in questa eterna sospensione. In questo vuoto che non è facile riempire. Ed è proprio questo il suo problema: che mentre osanna il tutto, dimenticandosi del poco, può trasformare questo tutto in un nuovo niente. In amore il niente non è esorcizzato, ma solo accovacciato. Mentre il tutto è solo un lampo che dura il tempo di un incanto. Questo accade perché «l’altro non potrà comare il viuoto che ci potiamo dentro. Esattamente come noi non potremo mai colmare il suo. Il vuoto lo si può solo attraversare» (M. Marzano, L’amore è tutto, cit., p. 23)
L’amore è respirare in due, perché quando ami smetti di respirare solo per te. Ti fermi sulla porta della bocca chiusa di chi ami a mendicare parole che sono scritte nell’ultima stanza del suo castello interiore. Dovrai portarla lì per incontrarla davvero. Stare sulla soglia delle sue labbra per cominciare a celebrare il mistero della tua mancanza, della sua eccedenza, della sua e della tua trascendenza. Del suo traboccare in te. Per unire la terra e il cielo mentre l’amore si fa bacio che non consuma. Incanto carnale che nulla ancora posa del tuo corpo. Adorazione che fa del tuo respiro un divino anelito a respirare in due.
L’amore quando bussa non lo senti, e se lo senti non lo sai. E se qualcosa senti, l’amore è più di ciò che senti. L’amore non è ciò che provi, ma ciò che vivi. Per questo, quando lo scorgi non lo vedi. E se lo vedi non lo riconosci. Perché non è ciò che senti, né ciò che sai, ma ciò che ti manca. Non ciò che possiedi, ma ciò che non hai. Non ti apre gli occhi, ma te li fa socchiudere. E non per addormentarti, ma per portarti in un mondo che non conosci e di cui non sei il padrone.
Nella terra dell’amore si entra ad occhi chiusi. L’amore infatti non assopisce sguardi già spenti, ma li illumina con ciò che nasconde. Cerca sguardi persi per risollevarli. Salva la tua ombra fatta di niente, per raccoglierti e portarti dentro. Non al riparo delle tue notti, ma nel deserto di tutte quelle false luci che, pur avendolo promesso, non ti hanno né illuminato nè riscaldato.
L’amore non è ciò che vedi, ma ciò che si sottrae. È rapimento, e quando passa non lo puoi fissare perché non riesci mai a guardarlo in volto, ma sempre e solo di spalle, mentre è sempre tardi per dargli un nome. Una denominazione certa e rassicurante. E quando lo catturi è già da un’altra parte. È laddove tu non sei ancora stato. Laddove vorrebbe portarti a patto che glielo concederai. Per portarti lì dove tu temi di andare. Oltre ciò che non sei disposto a perdere. A cercare. A immaginare.
Non si fa riconoscere né fotografare per non smettere di sorprenderti. Di colpirti. Di incantarti. E forse anche di deluderti. Di lasciarti. Di ferirti. Per tale ragione, l’amore passa oltre se lo fermi. Se lo fissi o lo inchiodi nel cerchio chiuso delle tue sole emozioni. O se gli spezzi le ali per domarlo e tenerlo e bada nella stanza dei tuoi compromessi.
Egli passa oltre se non lo ospiti. E se lo lasci, ti aspetta, dilatando lo spazio della tua attesa. Il varco teso della mancanza. E se torna non lo fa senza prima averti spogliato. Egli ama la tua nudità e non i tuoi vestiti. Il tuo volto, non le tue maschere. Il tuo corpo, non i tuoi gingilli. La tua povertà e non la tua falsa ricchezza. Il tuo esilio e non le tue scorrerie.
E quando ciò accadrà, il suo ritorno avverrà sotto altra veste. Forse è già nei panni che tu hai smesso. Nei volti che hai scartato. Nelle lacrime che non hai asciugato. Nelle storie che hai cancellato e nei nomi che hai dimenticato. Nelle orme in cui sei caduto e nelle parole gridate e mai sussurrate.
Eppure se torna a te non lo fa senza di te. Vuole trovarti dopo che lo hai perso. Perché vuole portarti con sé e farlo per sempre. Vuole farti uscire dai tuoi lidi dorati. Dai tuoi preziosismi artificiali. Dai riflessi in cui ti sei crogiolato senza mai davvero incontrarti. Perché l’amore è anche amore per te. Non nella forma del narcisismo o dell’egotismo, ma in quella della cura di sé che ti fa scoprire amato da un Amore che ti ama prima che tu ami te. «Non sei capace di amare, se non ami te stesso. […] Se riuscirai ad amare te stesso, ti troverai già sulla strada dell’altruismo. Amare se stessi è un compito così difficile e sgradevole che, se riesci a fare una cosa del genere, potrai riuscire ad amare anche i rospi» (C. G. Jung, Seminari sullo Zarathustra di Nietzsche, tr. it. di A. Croce, 4 voll., Bollati Boringhieri, Torino, 2011-2013, vol I, p. 107).
L’amore torna sempre, perché ogni volta tu possa di nuovo ricominciare. Ad ogni passo si abbandona. Non grida per attirare, né batte i piedi per farsi ascoltare. Non fa rumore per attirare sguardi curiosi. Non agita le piazze per farsi ammirare. Non cerca il consenso e il plauso per farsi osannare. Non va in televisione a vendere soluzioni, ma forse preferisce le corde tese di una chitarra sgangherata. Non si esibisce per sedurre e accalappiare ammiratori occasionali. Non si finge debole per implorare una pietà che non merita né si mostra troppo forte e sicuro per essere idolatrato. Non ama i ricatti e non fa mai la vittima. Non ama essere al centro dell’attenzione. Non ama le falsi luci che tutto esibiscono, quanto piuttosto la penombra di chi continua ad esistere anche quando non è considerato.
L’amore è «elogio del poco, lode del debole» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit. p. 41). Resta abbandonato al fianco di chi gli passa accanto. Di chi non lo ha notato. Dentro chi ne ha cancellato i passi. Passando, si abbandona senza mai abbandonare. Senza andare mai via resta per via. Non lascia mai chi da esso è stato segnato. E se ciò accade è perché non può fare a meno dei luoghi che lo hanno negato. Preferisce essere dimenticato piuttosto che dimenticare. Cercare piuttosto che essere cercato.
Dagli tempo e avrà tempo. Dagli tutto lo spazio necessario e ti darà il mondo intero. Te lo darà in una goccia di sudore. Te lo darà senza averlo. Te lo darà solo se sei pronto a rinunciarvi. Non perché tu lo tenga, ma affinché lo lasci passare dalle tue mani per altre mani. Pronto a ridarlo. Pronto non a prenderlo, ma a perderlo. L’amore non ha un mondo da regalarti, ma solo un grande vuoto a cui affidarti, per restare a volte anche solo con te stesso e sollevare il mondo con il tuo dolore.
Per questo più che compimento, l’amore è attesa. «L’attesa è un fiore semplice. Germoglia sui bordi del tempo. È un fiore povero che guarisce tutti i mali. Il tempo dell’attesa è un tempo di liberazione. Essa opera in noi a nostra insaputa. Ci chiede soltanto di lasciarla fare […] la nostra attesa – di un amore, di una primavera, di un riposo – viene sempre soddisfatta di sorpresa. Come se quello che speravamo fosse sempre insperato. Come se la vera formula dell’attendere fosse questa: non prevedere niente, se non l’imprevedibile. Non aspettare niente, se non l’inatteso. Questo sapere mi viene da lontano. Sapere che non è un sapere, ma una fiducia, un mormorio, una canzone» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit., pp.33-34).
Io sono ciò che attendo: «”Sono innamorato? – Sì, poiché sto aspettando”. L’altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell’innamorato non è altro che: “io sono quello che aspetta”» (R. Barhes, Frammenti di un discorso amoroso, tr. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2014, p. 42).
L’amore non ha dimora. Abita fuori le città, oltre le mura erette dagli uomini che detengono il potere. Fuori dagli egoismi di chi ha consumato tutto. Anche la terra in cui lasciarlo venire. Abita con coloro che non sono amati da nessuno. Con chi non lo merita. Con chi lo ha perduto.
L’amore ama le periferie, il lezzo di chi ha ferite che non ancora sono guarite. Abita in una tenda che arriva fino al cielo a interrogare le stelle che da tempo non sono più nostre sorelle. Non c’è terra che gli possa dare una fissa dimora. Vuole fare di te un nomade, non un sedentario. Un pellegrino e non un turista. Un mendicante e non un giocatore. Un eremita, e non un pubblicitario. Un eretico e non un integrato. Un sovversivo e non un omologato.
Se sottile è il suo velo, denso è il calore con cui avvolge chi in esso inciampa. Mentre i cuori lo cercano, la ragione lo teme. E se i corpi lo bramano e lo celebrano, lo spirito estasiato lo contempla. E se il silenzio ne custodisce il segreto, le parole gli reggono il lembo, osando laddove, pur non potendolo dire, tentano di dirlo.
L’amore ama le parole che non lo tradiscono. Non quelle che lo dicono ma quelle che lo custodiscono. Ama le parole che nessuno ancora possiede. Per scendere nel cuore a costruirle. A forgiarle nel segreto della propria nascita. Dove la mancanza si fa radice.
Eppure ogni giorno si cala nelle nostre tre parole facendole sue, o nelle sue dandoci il permesso di farle nostre. Esse sono: φιλία, ἔρος, ἀγάπη. Sono come tre astri che illuminano il firmamento del linguaggio, dove un pensiero inquieto, un cuore agitato e un corpo ferito vivono in pace come tre fratelli inseparabili.
L’amore non sopporta gli articoli, né gli aggettivi. Figuriamoci gli avverbi e i verbi. Non ama essere coniugato nè definito. Né declinato. Vuole essere lasciato libero di stare fuori da ogni grammatica. Da ogni regola. Da ogni sillogismo. Fuori da ogni rito. Da ogni credenza. Da ogni ideologia e da ogni interpretazione. Fuori anche dalla religione.
Tuttavia ama le parole con cui si lascia dire senza mai esaurirsi in questo medesimo dire. E se qui lo diremo, lo faremo solo perché ci ha dato il permesso di farlo, con la promessa di non sporcarlo. Di non sciuparlo. Di non spaventarlo. Nelle nostre parole l’amore è solo un ospite. L’amore non è astratta universalità né sterile determinazione. Non una fredda verità né una calda emozione che emana un falso tepore. Non è vibrazione né sospiro, ma spossessamento e consegna.
L’amore cade nella carne di chi desidera non restare solo. Cade non per rimanervi ma per lasciare tracce di alterità che la portino oltre la propria chiusa ipseità. Per segnare ciò che attraversa e per attraversare ciò che segna senza nulla esautorare. E se tu ami, non lo fai per paura di restare solo, ma per imparare a stare da solo, sapendo che «L’amore non revoca la solitudine. La porta a compimento» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit., p. 41).
L’amore e la carne formano il primo incanto di un’estasi a cui non ci si abitua mai. Per questo non si stanca solo se sa rinnovare la propria fame. Se l’amore inebria i sensi è perché li trasfigura mentre li incanta. Li eleva mentre li accende. Li abbandona mentre li sazia. Libera i sensi liberandosi dai sensi. Ti emoziona per non spaventarti. Infatti, scapperesti se conoscessi da subito le sue richieste. Il dolore che si nasconde sotto il fuoco delle sue promesse. L’amore quando cade eleva ciò in cui cade. Lo invade e lo rompe. Lo fa a pezzi per ricomporlo in una nuova unità. Ciò che tocca con la sua ombra si fa mendicante di una luce nuova.
Disegna orizzonti al limite di ciò che sembra finire. Reinventa l’accaduto e immagina ciò che non ancora è stato. Dura oltre ogni consumo. Permane nel mutare delle stagioni, per cogliere il frutto di ciascuna senza scontentare nessuna.
L’amore non è una sequenza, ma un’interruzione. Quando viene ti sospende dal mondo, dagli altri e anche da te stesso. Ti lancia nel vuoto dove disegna un abisso che solo lui ha attraversato. Che solo lui conosce. Qui crocifigge ogni pieno forato dalla tua mancanza. Ogni inutile strascico del tuo io malato. Smaschera ogni facile gioco con cui lo si vuole comprare. Con cui lo si vuole accasare. Addomesticare.
L’amore più che padronanza dell’io è un suo cedimento (cfr. U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, 2004, pp. 151-155), più che un evento sul quale l’io agisce, è un qualcosa che l’io patisce. Noi, infatti, non scegliamo di innamorarci, ma ci troviamo ad esserlo. Tuttavia, se è vero che non decidiamo di innamorarci, eppur vero siamo chiamati a scegliere di amare, nel momento in cui dobbiamo passare dal semplice innamoramento all’amore vero e duraturo.
L’amore lo cominci a capire solo quando ti manca. Quando non è ancora arrivato. Quando lo aspetti nel mentre lo sprechi. Quando ti aspetta nel mentre non lo cerchi. Quando non lo meriti perché lo disprezzi. Quando lo eviti perché non ci credi. Quando lo sciupi senza aver mai provato il suo incanto. Quando hai provato a mangiarlo senza averlo mai una volta guardato. O quando, con la scusa di guardarlo, lo hai semplicemente spiato con la tua avida curiosità. Spiato per stanarlo e divorarlo.
Eppure lo cerchi perché non puoi farne a meno. L’amore è il tuo cercare, oreksis e filein insieme come voleva Platone. È il tuo lesinare. Il tuo mendicare che offende la sazietà dei benpensanti. L’amore è la tua povertà. La tua nudità. La tua esposizione. Il tuo rotolare. L’amore è anelito universale che raccoglie nella sua folle corsa chi non ha smesso di cercare dove e perché le cose sono nate.
L’amore ha molti volti. A volte è Sisifo come cifra dell’assurdo (Camus), per indicare la disperata lotta contro la dura Necessità del semplice bisogno; altre volte è Prometeo, che per amore di ciò che è umano sfida anche gli dei; spesso assume le sembianze di Dioniso per farsi pura ebbrezza che non sopporta alcuna misura. In passato è stato anche Edipo, imposizione e divieto, castrazione e rinuncia: Legge senza Desiderio. Oggi ha il volto di Narciso, cioè Desiderio senza Legge (Cfr. M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012). Ma contro Narciso già Spinoza aveva sentenziato che «L’amore è una letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna» (B. Spinoza, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2011, p. 1411).
Proprio per questa sua ambiguità, l’amore è anche un dubbio che scompagina ogni copertura. Quando ce l’hai sei troppo pieno e ebbro per accorgerti che c’è e che cosa davvero sia. Quando lo hai, sei talmente preso da quello che prendi che confondi la vertigine con la superficie, il mistero con ciò che lo traduce, il segreto con ciò che lo nasconde. L’apparizione con l’esibizione. La verità con l’evidenza. I significati con i puri fatti di husserliana memoria. Sei troppo preso da quello che esso ti fa sentire perché tu possa ascoltare il passo silenzioso della sua caduta. Il flebile richiamo del suo gemito inesprimibile. La novità assoluta del suo restarti accanto. Del suo scaldarti dentro.
Sei attratto da quello che ti fa provare e non ti accorgi che esso ti lascia proprio mentre tu lo prendi. Perché nella cattura è la sua perdita. Nel possesso il suo esilio. Ciò che di lui senti nasconde ciò che ti sta dando. Ma anche ciò che ti sta togliendo. Sei entrato in ciò che ti sta offrendo, mentre non ti accorgi che sta preparando la ritirata proprio nel massimo del suo manifestarsi. Del suo dilatarsi.
Eppure l’amore è spoliazione. È denudamento. Chi ama davvero, rialza sempre l’amato. Lo patisce senza subirlo. Cade con lui se lui è caduto. Non lo guarda dall’alto, dalle vette sicure delle sue alture, o dalla cima del suo orgoglio che sa di rifiuto. Ma dal basso del suo diniego, di un denudamento che sa di rinuncia. L’amore o è kenosi o non è amore. Spoliazione prima dell’estasi. Abissale discesa prima di essere vertiginosa ascesi. E la nudità non è prensione né esibizione, ma solo offerta ed esposizione. Patire l’altro e immedesimarsi con lui non è, come invece sostiene Galimberti, una forma di alienazione (U. Galimberti, Le cose dell’amore, cit. p. 119 e ssgg.), ma, al contrario la massima forma di donazione. Donarsi all’altro non è alienarsi, ma ritrovarsi in lui/lei, cioè in quella parte che mi manca e a cui io stesso manco.
In questo senso l’amore è anche follia. Lo dice Platone: «Quanto alla divina follia ne abbiamo distinto quattro forme, a ciascuna delle quali è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dioniso per la follia iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l’influsso di Afrodite e di Amore» (Platone, Fedro, 265 b). L’amore in quanto follia non rifiuta la ragione, ma semplicemente la supera e la sorprende. Non la nega, né la scarta, ma la scandalizza e la dilata, aprendola ad un di più che non le è dato comprendere. «Non si può pensare quando si è innamorati» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit., p. 27). Se il registro della ragione è il calcolo, quello dell’amore che si dà come follia è il desiderio dettato dalla mancanza. E sulla mancanza non si ha alcun tipo di potere. Per questo «Pazzo è colui che è puro di ogni potere» (R. Barhes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 204).
La follia dell’amore è disarmante: è rinuncia ad ogni forma di difesa, massima esposizione che mi porta ad amare l’altro fino alla sua sostituzione (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 71). Mi fa rinunciare anche al potere della conoscenza che ha bisogno di certezze: «La conoscenza non rende possibile l’amore, perché ne deriva» (cfr. J.L. Marion, Il fenomeno erotico, Cantagalli 2007, p. 112). In fondo io non amo ciò che conosco, ma conosco ciò che amo. Eppure «Vuoto è l’amore senza il pensiero, vuoto il pensiero senza l’amore»
(C.G. Jung, Libro rosso. Liber novus, tr. i.t a cura di G. Sorge-G. Schiavoni-M.A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 276).
L’amore ti fa ostaggio di chi non conosci. Perché conoscerlo è già dominarlo, possederlo. L’amore non è sapere, ma ignoranza. È perdersi in un altro con la promessa di ritrovarti in lui o in lei non più solo. Come dice Bobin, «l’amore non oscura ciò che ama. Non l’oscura perché non cerca di prenderlo. Lo tocca senza prenderlo» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit., p. 41).
Per tale ragione l’amore è sorpresa. È visitazione che sul volto di un altro viene disegnando la propria epifania. Che bussa alla tua porta con i piedi scalzi ridisegnando perimetri cancellati. Smonta ogni circonferenza costruita attorno ad un io che viene sbalzato via dal proprio centro. È lasciarsi limitare da un infinito che mi fa uscire dal mio guscio: «Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno» (R.M. Rilke).
L’amore passa per un altro che ti rende altro. Da una fessura lasciata incustodita dal tuo egoismo. L’altro viene quando il tuo io smette di sorvegliare i confini eretti dalla paura che tutto il resto non sia come te. Quando smette di giudicare, di punire e di escludere chiunque ritieni non sia all’altezza della tua bellezza. L’amore è Eco che vuole guarire Narciso dalla malattia dello specchio. Lo tira fuori dalla prigionia della sua bellezza diventata atrofica perché caduta nel magico riflesso di uno stagno. E invece «Già la bellezza crea una distanza: un velo su di noi. Sembra un’irradiazione di luce temperata dalla carne» (Luce Irigaray, Essere due, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p.17).
E così cominci ad amare solo quando sei pronto a perdere. A non trattenere nulla. Neanche l’amore che sta nascendo a tua insaputa. L’amore resta se lo restituisci. Se lo dai per primo. Se lo dai quando ancora fa fatica a rimanere. Quando ancora non c’è come realtà disponibile. Se lo fai nascere proprio là dove non era creduto. Laddove era stato perduto. Perché l’amore è dentro di te. Prima di te. Prima del tuo io. Nell’altro che viene a te portando il mondo intero con sè. Perché amare è scoprire che sei la metà di un intero che è stato infranto, diviso, “secato” (da qui sexus, sesso).
L’amore comincia dove è cominciata la tua separazione, la tua divisione, dove è stato tracciato l’anelito alla ricomposizione. E dove tutto questo inizia non lo sai e dove finisce mai lo vedrai. L’amore non ha scadenze. Esso è libero dal tempo. Anzi chiede al tempo di lasciarlo fuori dai suoi giochi, di affrancarlo perchè possa ricominciare in ogni attimo. Il tempo non ha potere sull’amore. Chi pone un limite di tempo all’amore non lo vedrà mai cominciare. Lo vedrà finire prima che cominci a sorprendere. L’amore è una domanda di eternità che fa implodere il tempo ad ogni istante.
L’amore è l’Inizio. E l’Inizio è una perdita. È consegna. Non abbandono ma appello. In esso tutto, nascendo, cade. Ac-cade. Anche tu, in esso, nascendo, sei già caduto. Ma l’amore è un Inizio dimenticato. E come tale deve ri-accadere. Per questo cerca luoghi in cui essere ospitato. Pensi di essere tu ad aspettarlo, quando invece è lui ad aspettare te. Per riaccadere nell’amore che darai. Nel frattempo resta al buio nel sottobosco dei tuoi grovigli. Nella fornace ardente dei tuoi istinti e delle tue pulsioni che aspettano solo di essere coniugate con le ragioni del tutto cuore, con l’esultanza del tuo corpo e con la misura del tuo intelletto. Tocca a te mettere insieme questi tre ingredienti per non perdere il gusto di niente.
L’amore non si incontra, ma vi si inciampa. Si nasconde quando tutti lo cercano e si rivela quando tutti lo dimenticano. È un gemito che si nasconde in un fremito senza seguito. Indecifrabile, si mostra ambiguo per non lasciarsi da subito definire. Sgrammaticato e scomposto ruba le parole e crocifigge i pensieri.
Quando l’amore viene non è mai per restare. Se resta muore. E tu con lui. Se lo trattieni lo soffochi. Gli togli quel respiro che lo rende soffio libero che ovunque va per piantare la sua fragile tenda. Esso viene per riaccendere in te la ferita del tuo esilio. La fatica del tuo cammino. L’anelito che ti rende vivo.
È come Socrate, atopos (Byung-Chul Han, Eros in agonia, cit., p. 6). Da straniero esso ama restare forestiero. Ama stare sulla soglia per non lasciare fuori il cielo. Viene alla sera quando tutto declina. Quando tutto rientra nel silenzio della propria nascita. Quando tutto il tempo cade raccolto ai piedi di un fuoco che intorno brucia tutto ciò che non è essenziale.
Resta forestiero. Per non essere solo tuo, ma di tutti senza essere di nessuno. Per averci tutti e perché ognuno sia ciascuno. Nessuno senza nessuno. Tutti in ognuno e ognuno in ognuno. In ciascuno, senza l’eccesso della propria individualità e in tutti senza il pericolo della anonima totalità.
L’amore ha i colori dello straniero che chiede ospitalità. Esso chiede ciò che dà. Unisce ciò che ha diviso. Ciò che ha separato. Muore prima di vivere. Muore per non far morire. Perché la gioia che ti darà sia la riserva a cui attingere quanto è necessario per affrontare un dolore inaspettato. Quel «dolore necessario a unire il pari e l’impari» (Cfr. E. Levinas. Dal sacro al santo, Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova, Roma1985, p. 128).
Muore lui al posto tuo. Muore in te per farti nascere in lui. Ti insegnerà ad amare se ti insegnerà a morire. Per questo ti lascia andare, affinché anche tu possa lasciare andare. Possa tu morire a te stesso per essere veramente te stesso. Preparati. E se non sei pronto, non tardare a cominciare. Perché non è mai troppo tardi per cominciare ad amare.
L’amore ci dice che siamo più che semplici “macchine desideranti”, come invece volevano Deleuze e Guattari. Si tiene fuori da tutti i calcoli e i compromessi. Lontano da ogni riuscita e presa sicura. Teme la pienezza di chi lo confonde con il semplice godimento. O la certezza di chi pensando di meritarlo ne dispone come vuole. Di chi ne diventa padrone. Rifugge anche la rettitudine di chi lo riduce a sola legge. Di chi, avendone troppo, non capisce il dolore ci colui che invece ne ha troppo poco o forse nulla.
Perché l’amore è anche in chi non c’è l’ha. O perché non lo hai mai avuto o perché l’ha perduto. In chi finge di poterne fare a meno, mentre a sua insaputa da esso è trattenuto, pronto a farsi intercettare. A lasciarsi cadere dal suo cielo. L’amore abita la propria negazione, perché anche chi in esso non crede possa un giorno inciamparvi e rimanere impigliato.
In amore il fallimento è un miracolo che ci salva dalla abitudine. Un tornante che ci fa ritrovare, dopo averlo perduto, ciò che era caduto fuori dalla nostra vista. Un’opportunità per lasciar cadere nel segreto ciò che abbiamo consumato in un eccesso di visibilità. Come dice Yannaràs, una “difettosa risposta alla mia sete” (C. Yannaràs, Variazioni sul cantico dei cantici, Servitium, 1997, p. 11). Un’occasione per far rinascere l’altro a quella sua forma che gli abbiamo rubato. Il fallimento è la prova che l’amore ci manca. Ci manca sempre. Ci mancherà per sempre. Perché esso ci sta davanti e ci precede sempre. E quando pensiamo di averlo non è mai troppo. Mai troppo per non perderlo.
Per questo «amare è un’augusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro, è una grande immodesta istanza che gli vien posta, qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa» (R. M. Rilke, Lettera a un giovane poeta, cit., p. 49).
In amore sappiamo ciò che vogliamo ma non ciò che possiamo. Il volere è smisurato, ma il potere è limitato. E se c’è fedeltà essa non è “masochismo della perseveranza” (C. Yannaràs. Variazioni sul cantico dei cantici, cit., p. 17), ma solo il coraggio di continuare a volere anche quando non possiamo. Se l’amore è anche creazione, allora «la fedeltà è il frutto di una creatività continua» (M. R. Bous, Imparare ad amare, cit., p. 61).
L’amore non è fusione, ma comunione. La fusione chiede tempi brevi, la comunione tempi lunghi: per questo solo essa resiste per l’eternità. E questo è vero perché «L’amore non si esaurisce nell’incontro, ma si compie nella durata» (A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza Editore, Vicenza 2013, p. 39). E la durata è l’estasi del tempo.
Proprio in questo sta il miracolo dell’’amore: nel trasformare l’estetico nell’estatico. La sensazione da pura percezione in celebrazione e adorazione. E se c’è estasi essa non è ritorno, o ritrovamento. Ebbra pacificazione che mette al riparo da qualsiasi opposizione dialettica. Ma esilio. Fuori dalla parola e fuori da ogni sguardo. Eccedenza che non consuma. Che non sazia. Non è fusione ma comunione. Apre i corpi fino a dissolverli. A trasfigurarli in un eros celeste che smaterializza tutto l’armamentario anatomico. Trasforma la pura genitalità in sessualità. Unione che non appiattisce, ma che si nutre di differenza. Unità della carne che tiene nella distanza i vicini non più lontani. Come dice Levinas «l’eros è relazione con l’alterità, con il mistero, cioè con l’avvenire» (E. Levinas, Etica e infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 85). È approssimazione che esige e supera la stessa prossimità.
Amare è lasciar venire ma anche lasciare andare. E ciò avviene attraverso la liturgia dei tre baci. Il primo bacio è quello dove chiediamo di entrare nell’altro nella terra sacra dell’altro e ci togliamo i sandali per entrare nudi senza alcuna forma di potere. È il bacio dove chiediamo ospitalità per poterla a nostra dare all’altro che ci accoglie. Mendichiamo il suo “sì”. Il secondo bacio è quello della passione dove l’altro viene celebrato in tutta la sua dignità fatta di bellezza e di mistero. Il terzo bacio è quello del ritiro, per dare all’altro il permesso di andare via come un proprietà che non mi appartiene. Gli do il permesso di ritirarsi nello spazio della sua nudità, per diventare di nuovo inaccessibile. Andare via perché possa di nuovo tornare, non per puro obbligo di piacere ma per sola scelta di amare. È il bacio dove costruisco la mia e la sua fame che ci mette in attesa del domani.
L’amore rende stranieri in casa propria. Figuriamoci in casa altrui. Dis-appropria e presto anche es-propria. Perché chi viene non porti disturbo, ma solo vento che spazza via ogni residuo lasciato dal proprio io. L’amore esige un’intimità ospitale, dove ogni io si fa “proprio” solo nel mentre si es-propria. Si fa dono per non morire nel proprio dato. L’amore mi libera dal dato della pura necessità. Mi fa passare dal “dato” al “dono”. Per questo è assunzione, sfida. Scommessa e anche croce. Espiazione e non pura gratificazione.
Alla fine si può dire che amare è non solo donarsi all’altro ma è anche donare l’altro. Darlo a se stesso. Restituirlo dopo averlo accompagnato per un breve tratto perché possa continuare in quel viaggio che ciascuno è chiamato a compiere per arrivare laddove si nasconde il più proprio se stesso. E lì trovare anche me come parte di sé. Così fa anche lui per me. Per trovarsi ciascuno in ciascuno e in ognuno trovare tutti gli altri. Tutte le alterità in una poliedrica ipseità. Per realizzare non tanto una identità-idem ma una identità-ipse (Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, trad. it. D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 1993, p. 204 e ssgg.).
Per questo l’’amore è come un pane che se lo dividi solo con la persona che ami, sarà amaro. Ma se in esso lascerai cadere le lacrime di chi non è stato amato da nessuno, sarà un pane dolce, che alla sera nutrirà la tua intimità di un Amore senza nome che a te viene da lontano.
E allora, se vuoi amare «Illumina ciò che ami senza toccarne l’ombra» (C. Bobin, Elogio del nulla, cit., p. 19).
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