IL NARCISO DI WITTGENSTEIN
PIER MARRONE
Innamorarsi senza poter soddisfare la propria passione è decisamente frustrante, ma è una nemesi talvolta necessaria e un correttivo al nostro senso di potenza, che distorce la nostra relazione con il mondo. In questa frustrazione si è ancora in contatto, sebbene distorto, con il mondo. Il legame è distorto perché la passione ci impedisce di modulare il giusto – e sano – rapporto tra la distanza che dobbiamo avere nel nostro rapporto con gli altri (che hanno pur diritto a non averci sempre intimamente vicini) e l’empatia speciale che talvolta proviamo per qualcuno dei nostri simili, che eleggiamo a nostro interlocutore privilegiato per qualche ragione di solito oscura anche a noi stessi. Alla fine questa stessa frustrazione – se non ha esiti apertamente patologici – deve dirigerci verso la realtà, perché prima o poi la realtà sempre ci piomba addosso.
Questioni diversamente complesse sorgono quando la passione che nutriamo è nei confronti di noi stessi. Ovviamente un certo amore di sé è necessario per essere in equilibrio con tutti coloro che ci circondano e con molti di quelli che sono convinti di valere più di noi. Con altri semplicemente non entriamo in relazione. Ma ognuno di noi è talvolta preda di questa esaltazione nei confronti di se stessi che chiamiamo narcisismo.
Sarebbe più corretto dire, tuttavia, che questa passione autoindotta non è l’attrazione verso la nostra interiorità, che ci rimane in gran parte inaccessibile, bensì per il suo riflesso visibile, che noi vorremmo che anche gli altri guardassero nella medesima maniera colma di amore per noi stessi, che stiamo provando nei nostri momenti narcisistici.
Una passione smodata per il proprio sé è il destino narrato dal mito greco di Narciso. Figlio della ninfa Liriope, fecondata dal dio del fiume Cefiso, che la stupra con la sua corrente liquida, oggetto del primo oracolo del veggente Tiresia, che profetizza che vivrà a lungo, purché non conosca mai se stesso, nel momento in cui la sua bellezza straordinaria fiorisce si lascia una scia di innumerevoli spasimanti – donne e uomini va detto per dovere di cronaca – colpiti dalla stessa malattia dell’attrazione incontrollata.
Una delle vittime della sua divina bellezza è la ninfa Eco, chiacchierona eccessiva, punita da Zeus per aver consentito alle Ninfe delle montagne, sue amanti, di fuggire, servendosi della malia di un’incessante parola. La punizione che le infligge Zeus è di non poter più usare la propria voce se non per ripetere le parole dette dagli altri. La punizione è raffinata, non c’è che dire. I Greci conoscevano la devastante potenza psicagogica della parola e questa arma impropria – nata forse dalla lallazione a sua volta forse strumento ipnotico che seda l’aggressività – diverrà in seguito, quando il mythos si separerà dal logos e inizierà quell’attività razionale che va sotto il nome di filosofia, una tecnica insegnabile, la retorica, e il segno di una virtù e di un’eccellenza nelle dispute molto frequenti in assemblee e cause legali – rendere più forte il discorso più debole come dicevano i Sofisti –.
Incantatrice sonora, Eco soggiace all’incantesimo dell’immagine, quando incontra Narciso. Lo insegue nelle foreste. Non può parlargli naturalmente, ma lui si accorge di essere inseguito. Chiede ad alta voce chi lo insegua, ma ottiene in risposta solo l’eco della propria domanda, fino a che non ingiunge alla misteriosa presenza di raggiungerlo. Eco si precipita per abbracciarlo, ma viene respinta. Nel caso di Eco la punizione è la condanna a fallire nell’intento comunicativo del linguaggio che viene privato della sua dimensione intersoggettiva. Ma questo fallimento è particolarmente aderente al carattere autocentrato di Narciso, che come ogni vero narcisista desidera ascoltare unicamente la propria voce e quindi crede di non avere l’autentico bisogno di entrare in relazione con gli altri, che sono invece concettualizzati come uno specchio di sé.
David Hume scriveva che “the minds of men are mirrors to one another” in una frase nella quale ogni termine ha una pregnanza di enorme spessore. Le menti sono certamente specchi, ma questi specchi non rimandano l’immagine di chi vi sta davanti, quanto, attraverso una nostra immagine, l’intero modello della mente umana e di quanto ci rende umani. Pensare che al di là dello specchio ci sia qualcosa è la soluzione giusta per uscire fuori di sé. L’introspezione, guardare dentro di sé è un esercizio funzionale a comprendere che non si è soli, che non si è onnipotenti, che si è privi del diritto naturale all’ammirazione e all’amore degli altri, che possono avere altri interessi, altri amori, altre pulsioni che noi soddisfiamo solo in parte e solo in qualche momento della nostra esistenza.
Si conosce la punizione di Narciso per la sua indisponibilità verso gli altri, una indisponibilità alla relazione e alla comunicazione simboleggiata dal rifiuto dell’intimità, la quale viene rifiutata non perché l’intimità sessuale sia di per sé sintomo di profondità (infatti, ci può benissimo essere una intimità segnata dalla superficialità e dallo spirito del gioco). Narciso regala una spada ad Aminia, uno dei suoi innamorati più tenaci, ma continua a rifiutarlo. Aminia non regge questo ennesimo rifiuto e si uccide infilzandosi con questa stessa spada sulla soglia della dimora di Narciso. Per questo ultimo rifiuto Narciso è condannato a innamorarsi della propria immagine che vede specchiata la prima volta quando si accosta a una fonte cristallina che parrebbe non essere stata mai utilizzata da nessuno, uomo o animale che sia (un mancato utilizzo che simboleggia piuttosto chiaramente la mancanza di relazioni con il mondo).
Alla fine, poiché è condannato a non poter abbracciare la propria immagine, che continuamente si sottrae nello specchio d’acqua, Narciso si uccide, dal suo sangue nasce il fiore, le cui ghirlande servivano anche a placare le Erinni, divinità che dispensano punizioni (ma che possono essere anche benevole, come ci ricorda Jonathan Littell nel suo straordinario romanzo Le Benevole). Dal fiore, del resto, si estrae un olio che è una sostanza psicotropa che allevia la tensione nervosa.
La narrazione mitica è complessa e straordinaria perché fornisce la netta impressione, nelle sue molteplici diramazioni, di contenere già tutto quanto sul narcisismo si può dire: la negazione della relazione con gli altri e con il mondo, intesi come complessi di entità, che esistono in una loro profonda autonomia da me; la superficiale osservazione di se stessi, che non riesce a penetrare realmente la propria interiorità; il fallimento come destino del narcisista, che prima o poi dalla realtà viene costretto a venire a patti con l’immagine idealizzata che aveva di sé; l’idea che questa immagine idealizzata si nutre di una prevaricazione nei confronti degli altri, che non vengono mai né ascoltati né accolti nel loro bisogno di amore, relazione, amicizia. Per il narcisista il mondo esiste in sua funzione e gli altri non hanno una reale sussistenza, se non perché riflettono le sue aspirazioni, le sostengono, continuamente le nutrono.
Naturalmente, tutti noi siamo anche in parte centrati su noi stessi, ma occorre dire che una considerazione adeguata di noi stessi ci è semplicemente necessaria per mettere gli altri in prospettiva e non collocarli su un piedestallo. Mettere gli altri in prospettiva e non assolutizzare né noi stessi né loro è una delle funzioni assolte dalle regole di etichetta. Seguire delle regole di etichetta che si ritiene siano volontariamente accettate dagli altri segnala una volontà di condividere uno spazio comune di rispetto e di non interferenza con il buon gusto che si accredita a un’altra persona. Naturalmente, l’etichetta è la parente prossima del conformismo, ma io sono propenso a ritenere il conformismo una perversione delle regole sociali che vanno sotto il nome di etichetta e che effettivamente sono una piccola etica. Non mi metto le dita nel naso quando sono in pubblico non tanto per questioni igieniche, quanto per mostrare che il mio corpo è in qualche modo condiviso anche da altri nella pubblicità di uno spazio che non è privato perché semplicemente non è esclusivamente mio.
Se mi comporto diversamente che cosa intendo precisamente segnalare? Mi ricordo che quando ero uno studente all’università frequentavo le lezioni di un professore di filosofia piuttosto celebre nei nostri ambienti. Dotato dell’obesità e dell’agilità di una balena spiaggiata, con gli occhiali prossimi nella somiglianza a un fondo di bottiglia, si presentava a lezione con maglioni e pantaloni chino con evidenti macchie delle quali forse non si accorgeva – stento a credere che volesse esibire creazioni in stile Pollock – i denti dotati della regolarità di un fiordo norvegese chiazzati dalla nicotina, della quale era vorace consumatore e abbelliti da vaste formazioni di tartaro.
Era bravissimo a fare lezione, sino a che, negli anni successivi, non credette di poter capitalizzare la propria relativa fama con discorsi generici e inseguendo mode intellettuali in stanchi discorsi sempre identici a se stessi. Circondato, quando era bravo, dalla generale considerazione degli studenti, quale bisogno mai aveva di esibire una trasandatezza che virava verso la sporcizia? Me lo sono chiesto spesso e la risposta che mi sono dato era che si trattava di una forma di narcisismo anche questa, per quanto esteticamente sgradevole. Quanto quel professore faceva era imporre la propria presenza, nonostante la propria sgradevolezza, in virtù di indubbie capacità intellettuali. Era una sorta di patetico guanto di sfida lanciato alla natura che lo aveva penalizzato nel corpo sgraziato e nelle fattezze che facilmente si immaginava sarebbero rapidamente virate verso l’informe del grasso corporeo a stento trattenuto dall’epidermide deformata. Ma la considerazione che otteneva presso i suoi studenti era accresciuta da questa mise en scène con la quale allestiva la sua vita pubblica? Io ne dubitavo e i commenti crudeli delle studentesse me lo confermavano. La verità è che era stimato nonostante questa sua narcisistica debolezza, che con il passare degli anni diventò semplicemente detestabile, prima ancora di essere ridicola, perché si imponeva con la sua indesiderata presenza in uno spazio pubblico – l’aula universitaria, lo studio del docente – nel quale molti erano costretti a stare, se volevano apprendere proprio quella materia, se volevano ascoltare proprio quel professore.
Forse è il destino del professore universitario essere soggetto a una certa dose di narcisismo ridicolo. Forse questo è inevitabile per chi – la maggior parte di noi che insegniamo all’università – è distante dalla vita comune, almeno relativamente a una professione che assomiglia, pur con i suoi pochi privilegi residui, di più a un hobby pagato dallo Stato che a un lavoro vero. Essere pagati per coltivare quella che per una parte importante della propria vita è stata una passione è una condizione della quale ringraziare gli dei ogni mattina. Però le capacità individuali sono sempre legate al caso che inevitabilmente le accompagna e, quindi, ognuno si trova nel posto dove sta per un miscuglio, incomprensibile nel suo preciso dosaggio, di doti personali, caso, fortuna, circostanze ambientali, incontri personali, letture fortuite. Fosse cambiato un solo fattore in questo delicato e unico mix e le cose sarebbero andate diversamente. Tuttavia, molti professori universitari sembrano ragionare in una direzione completamente opposta. Ritengono di essere dove sono per diritto naturale, sdottoreggiano su qualsiasi argomento. Una volta sentii dire in uno dei nostri consessi, che purtroppo più di qualche volta virano verso il grottesco che, per definizione, il professore universitario può parlare di ogni cosa. Chissà dove aveva preso questa definizione il coraggioso collega. In quella circostanza mi ritrovai a pensare che il silenzio è una virtù sottovalutata.
Ora, è vero che ognuno può parlare di qualsiasi cosa, ma altra cosa è capire se mai potrà trovare un pubblico adeguato ad ascoltare le inevitabili enormi quantità di sciocchezza che finirebbe per dire. Anche la pazienza di un santo ha i suoi limiti. Avrei voluto dire a quel collega in pieno delirio di stupidità: keep calm and back to reality. Avrei voluto, ma non l’ho fatto. Pensai che nulla sarebbe cambiato, non tanto rispetto a lui, quanto rispetto alla realtà, che lo investiva e lo ridicolizzava senza che lui avesse gli strumenti per comprenderlo.
Noi siamo chiamati nella nostra funzione professionale a una attività di scrittura per documentare le nostre ricerche. Leggevo gli esiti di un’indagine sulla diffusione dei paper scientifici, dalla quale risultava che in media i nostri scritti sono letti da circa 10 (dieci: sic!) persone. Dal momento che questa è una media, è ovvio che gli scritti dei personaggi molto noti in ognuno dei numerosi campi accademici saranno letti da molte persone, forse da moltissime, perché almeno alcuni di questi potranno propagarsi – anche se questo accade raramente – tra il pubblico colto e non solo tra gli studiosi di quel determinato settore (perciò che questo accade occorre però avere delle ottime capacità di divulgazione, che pochi possiedono). La maggior parte degli altri scritti saranno letti da un paio di persone, moltissimi da nessuno all’infuori dei referee che li hanno accettati nelle riviste specialistiche. Quindi, io mi chiedo, come fai ad avere una così alta considerazione di te, se quasi nessuno ti conosce e sa che cosa fai? È evidente che la fama, anche in circoli ristretti, non è sinonimo di valore dell’attività che viene svolta né è un indice sempre particolarmente significativo dell’eccellenza (una parola che questi sconosciuti colleghi hanno sulle labbra sempre, ad ogni respiro e probabilmente fino all’ultimo respiro) di chi la svolge. La gran parte delle ricerche che facciamo ha un’utilità dubbia, nel senso che non si sa bene quale sia. Allora perché finanziarla e pagare stipendi non disprezzabili ai professori universitari? Be’, perché non si sa mai, ovvero non si sa quali cause producono quali effetti nella ricerca scientifica (se lo sapessimo, allora vorrebbe dire che conosciamo già il futuro). Insomma, da cosa nasce cosa, ma non si conosce precisamente né la cosa di partenza né la cosa di arrivo. Sappiamo però certamente che la gran parte delle nostre ricerche è ininfluente, ma, di nuovo, non sappiamo quale parte. Capite, però, che è del tutto improbabile che le ricerche innovative, utili, di rottura coinvolgano la maggior parte dei professori. Per questo penso che il livello di elevata autoconsiderazione di se stessi è del tutto abnorme nel mio ambiente.
Ma che cosa precisamente ci impressiona negativamente in ogni autoconsiderazione senza basi apparentemente solide? Io credo si tratti di questo: il narcisista ci fornisce l’impressione che, se potesse, farebbe coincidere i confini del mondo con la sua stessa esperienza. In certo modo, accade effettivamente questo per lui. Il limite della sua esperienza è il limite del suo mondo. È una posizione che non è sconosciuta in filosofia, e che è stata resa celebre da Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus (1921), opera esoterica, brevissima, dal sapore sapienziale frutto di una personalità fuori dal comune, che avrà una grande influenza sulla filosofia successiva. Questa posizione si chiama solipsismo ed è quella teoria secondo la quale l’unico soggetto esistente nel mondo è l’io del filosofo che sta parlando. Vi ricorda qualcosa? Ecco cosa ne scrive Wittgenstein. “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Nel mio linguaggio sensato si rispecchia la forma logica di come io apprendo il mondo. Conoscere le combinazioni sensate dei nomi è lo stesso che sapere che cosa nel mondo può accadere. Ma sapere che cosa nel mondo può accadere è reso possibile per Wittgenstein dal nostro unico accesso alla conoscenza, che avviene tramite il linguaggio e la sua forma logica, che infatti rispecchiano come il mondo si presenta per noi. Noi non possiamo conoscere il limite del linguaggio, perché questo equivarrebbe a sapere che cosa sta oltre quel limite.
Il mondo è raffigurato dal mio linguaggio. Questa affermazione ricorda fortemente l’incipit de Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. “Il mondo è una mia rappresentazione” scriveva Schopenhauer, dichiarando questa affermazione una verità intuitivamente così limpida, quando almeno giungiamo alla riflessione, da dover essere sottoscritta da chiunque, il che forse è alquanto esagerato. Anche per Wittgenstein si tratta di una affermazione obbligata, almeno quando la si è corretta nel senso che richiede la considerazione che è il linguaggio a permettere quell’esperienza sensata che chiamiamo mondo, in definitiva l’unica esperienza sensata che possiamo avere, perché è l’unica che è esprimibile con coerenza logica nel medium linguistico. Esistono certamente altre esperienze, quella estetica, quella religiosa, quella etica, ma non si tratta di esperienze che hanno a che fare con il mondo come insieme dell’esperienza sensata che io posso farvi, sebbene in un altro senso si tratti delle esperienze più importanti che ognuno di noi fa.
Cerchiamo di capire cosa potrebbe ancora celarsi nell’idea di Wittgenstein che io non posso dire i limiti del linguaggio logico che racchiude la mia esperienza sensata del mondo. Io faccio esperienza del mondo, ma dove è situato questo soggetto che dice ‘io’? “Io sono il mio mondo” scrive Wittgenstein, ma subito dopo sorprendentemente aggiunge: “Il soggetto che pensa, immagina non v’è”. è un’affermazione che lascia disorientati, perché se io sono il mio mondo, sembrerebbe che debba fare parte della mia esperienza del mondo anche il soggetto che io stesso sono. Però per Wittgenstein “Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo”. Uno potrebbe obiettare che il soggetto è per il mondo quanto l’occhio è per il campo visivo. È un’analogia ingannevole. Il campo visivo racchiude la mia esperienza visiva, ma questo campo non racchiude l’occhio. Non puoi vedere il tuo occhio nel tuo campo visivo. Anzi, insiste Wittgenstein “nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.” Allo stesso modo, il soggetto dell’esperienza non fa parte dell’esperienza. “Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso”.
L’io di cui parla la filosofia non è perciò un fenomeno psicologico che può essere indagato con opportuni strumenti – ad esempio, l’introspezione – bensì il limite del mondo e non una sua parte. Narciso si specchia in una fonte limpida che gli rimanda la sua immagine, ma lui non è parte di quella immagine, ne è la condizione. Infatti non riesce ad afferrare il proprio io. Quello che Wittgenstein delinea in questa sorprendente concezione è un solipsismo senza soggetto all’interno del quale siamo costretti a dire che “il mondo è il mio mondo”, ma di noi stessi non riusciamo mai a fare un’esperienza sensata, ossia non abbiamo conoscenza di noi. E tanto meno abbiamo conoscenza degli altri, perché ci è impossibile uscire da questa sorta di bolla conoscitiva. Quando noi non esisteremo più, più che dire che siamo scomparsi sarebbe corretto dire che il mondo si è dissolto.
Quindi? Possiamo credere realmente che il mondo sia solo per me? Possiamo credere sul serio che il limite dell’esperienza che io ho del mondo sia disegnato dal linguaggio logico e solo da quello? E soprattutto: è credibile pensare che questo linguaggio parlato da un io senza alcuna soggettività della quale fare esperienza non emerga invece evolutivamente, in relazione costante con i significati degli altri parlanti, che io so esistere perché ne faccio reale esperienza. Intendo dire: potrebbe anche essere che i parlanti che mi circondano, gli studenti che vedo a lezione, i genitori dai quali vado a cena, l’amante con la quale faccio sesso siano degli zombi senza mente o dei robot eccezionalmente sofisticati, ma la mia esperienza del mondo non sorge sulla base dell’assenza di altre menti.
Secondo alcuni, non esiste una dimostrazione dell’esistenza delle altre menti. Anche se così fosse, io continuerei a chiedermi se davvero ne abbiamo bisogno. Non siamo piuttosto in presenza di qualcosa di analogo a quanto Aristotele diceva del principio di non contraddizione (il quale afferma che è impossibile predicare di qualcosa A e non-A nel medesimo tempo. Una lavagna non può essere nello stesso tempo nera e insieme non-nera)? Questo principio non può essere dimostrato nella sua logica, ma è il presupposto di ogni dimostrazione. Se ne può dare una difesa dialettica, mostrando come chi lo nega in realtà lo sta affermando. Per Aristotele, in realtà, è sufficiente che chi lo nega inizi a parlare. Comunicando sta dando dei significati alle sue parole, e non opera nel presupposto che le sue parole significhino e non significhino nello stesso tempo. E perché è costretto ad operare in assenza di questo presupposto nichilistico? Non è perché il significato ha senso solo in una dimensione intersoggettiva? Quando noi comunichiamo non stiamo forse comunicando con gli altri, non operiamo nella presupposizione che abbiamo un mondo di significati che è condiviso con gli altri? E perché è condiviso attraverso il linguaggio, se non per il fatto che questa condivisione emerge con più potenza nel linguaggio verbale che non in altre forme di comunicazione?
Wittgenstein abbandonerà successivamente queste posizioni sorprendenti e che sembrano il prodotto di una mente autistica chiusa completamente su se stessa. Un linguaggio privato è una contraddizione in termini finirà per sostenere in un’altra fase del suo pensiero, come ognuno di noi ha sempre saputo. Un’esperienza solitaria non ha per noi senso, un linguaggio privato diserta attivamente la sua funzione comunicativa ed è impossibile. Il solipsismo anche in questa versione estrema di Wittgenstein è la negazione impossibile della nostra esperienza che sorge con gli altri. Il progressivo diradarsi delle nostre menti quando invecchiamo non potrebbe forse essere descritto come un diradarsi delle nostre esperienze? Quando la mente si racchiude su di sé non è un impoverimento? Ognuno di noi non avrebbe difficoltà a dare una risposta positiva.
Il narcisista si trova in una posizione analoga a chi nega il principio di non contraddizione, a pensarci bene. Nega che gli altri abbiano importanza, ma ha uno smodato bisogno di essere ammirato dagli altri. Proclama nel suo comportamento che è lui ad essere il centro focale di ogni esperienza, ma ha necessità che noi acconsentiamo a questa sua finzione. È l’assunzione di un narcotico, risvegliati dal quale la realtà ci viene di nuovo, prepotentemente e inevitabilmente, incontro. Wittgenstein scriveva che “Il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice”, ma noi dobbiamo dire invece che questa proposizione non può affatto funzionare per il narcisista. Il mondo del narcisista è anche il mondo di chi crede o finge di farlo alla sua finzione. Il limite del mondo del narcisista dovrebbe essere il silenzio assordante di una sola voce che parla, ma a lui come a chiunque non può essere indifferente che qualcuno ascolti, ossia come anche si dice, che ci dia la parola.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA STORIA DELLE IDEE Endoxa marzo 2018 FILOSOFIA linguaggio wittgenstein