NARCISISMO: MITO, REALTÀ CLINICA E STORICO-SOCIALE
VOLFANGO LUSETTI
Il mito di Narciso, come quello di Ermafrodito, è conosciuto soprattutto come favola letteraria latina, per la precisione di Ovidio, rinvenibile nelle sue Metamorfosi (III, 339-509). Tuttavia non solo il greco Pausania (Periegesi della Grecia, IX, 31, 7-8), vissuto 150 anni dopo Ovidio, ma anche Partenio, pure lui greco ma antecedente di 50 anni a Ovidio, in uno dei papiri di Ossirinco a lui attribuito, e ancora il greco Conone, il latino Igino, e persino il greco classico Nonno di Panopoli, hanno parlato di Narciso, della sua tragica vicenda e dei molti innamorati da lui respinti. Sulla scia delle fonti antiche, la storia di Narciso può anche venire collegata al mondo dionisiaco; la relazione fra Narciso e Dioniso, ad esempio, è documentata nelle Dionysiaca di Nonno di Panopoli e nelle Eikones di Filostrato, dove un dipinto con un giovane che si innamora di se stesso orna le pareti di una stanza di Dioniso, insieme allo smembramento di Penteo e all’ubriacatura di Sileno, e insomma ad altre metafore d’un processo conoscitivo che avviene, tragicamente come nel mito di Narciso, attraverso la perdita dell’identità corporea. Perciò non è esatto affermare, come spesso si fa, che il personaggio di Narciso è una tarda invenzione latina risalente a Ovidio. Narciso appartiene a pieno diritto e prioritariamente alla mitologia greca, di cui possiede tutto lo spessore storico: uno spessore che va ben oltre quello della “favola” e che affonda le proprie radici assai in profondità.
Narciso era nato, come moltissimi altri personaggi mitologici, dalla violenza: per la precisione, da uno stupro del dio del fiume Cefiso sulla ninfa Liriope: Cefiso l’aveva avvolta nelle proprie acque e posseduta. Narciso perciò, tanto apparentemente impenetrabile quanto in realtà timoroso della sessualità e delle invasioni predatorie che essa portava con sé, viveva in maniera auto-referenziale e apparentemente soddisfatto di se stesso, della propria forza e della propria bellezza; ma soprattutto era dedito alla caccia, nella quale era particolarmente versato, come del resto ogni predatore. Una variante del mito, infatti, lo vuole figlio di Amirinto, abile cacciatore anche lui e fedele compagno di Artemide: un ulteriore indizio, questo, sia dell’origine predatoria di Narciso che del suo sistematico ritrarsi dalla sessualità. L’indovino Tiresia aveva predetto a sua madre Liriope che Narciso sarebbe potuto vivere fino a tarda età, ma a condizione che non avesse mai conosciuto se stesso: quindi, implicitamente, che non si fosse mai riflesso negli altri tramite l’amore, con il quale, prima ancora di auto-riconoscersi, sarebbe stato invaso dall’altro e strappato alla sua condizione di auto-sufficienza eroto-fobica e paranoide. Si innamorò di lui la ninfa Eco, la quale a seguito di una maledizione di Era (gelosa di lei perché interpostasi nelle mene amorose di suo marito Zeus), poteva parlare solo per seconda e ripetere le frasi degli altri, quasi rivomitandole via. Narciso allora, di fronte a lei che ripeteva ad oltranza le sue frasi, sviluppò forse un’ideazione persecutoria di riferimento, tipica di paranoici e psicopatici: credette che la ninfa, accompagnandolo e quasi perseguitandolo, nel suo ripetere in particolare le sue ultime parole, lo prendesse in giro e gli rimandasse di proposito un’immagine negativa di se stesso. Allora la respinse gridando: “morirò prima che tu giaccia con me!”. Narciso aveva in realtà intuito, come è ovvio, in questa nuova forma di auto-rispecchiamento per via linguistica che si aggiungeva a quello sessuale (e che rendeva quest’ultimo ancora più invasivo), il presentarsi del mortale pericolo che gli era stato predetto da Tiresia. Eco comunque, dopo che Narciso la ebbe respinta, pianse così a lungo che si disseccò, e di lei rimasero solo le parole, le quali ripetevano all’infinito, come in un’invocazione, il nome di Narciso. Successivamente anche un giovane di nome “Aminia” si innamorò di Narciso, ma questi gli inviò una spada affinché si suicidasse, a significare che solo la morte avrebbe alleviato quel suo desiderio senza speranza. Aminia dunque si uccise, proprio con quella spada, davanti alla casa di Narciso, invocando la vendetta degli dei. Artemide allora (ma secondo altri Nemesi, la dea della vendetta), udita l’invocazione prima di Eco e poi di Aminia morenti, per vendicare il disprezzo con cui Narciso trattava l’amore sia etero che omosessuale, anzi usandolo per generare sofferenza e per negare ogni forma di dipendenza, fece sì che cadesse lui stesso in un amore e in una dipendenza senza speranza, che mai e poi mai avrebbe potuto soddisfare: lo fece innamorare della sua stessa immagine. Questo amore, però, proprio perché non soddisfacibile in quanto derivante da un’inesauribile auto-percezione di insufficienza interiore e di bisogno di completamento, si radicò in lui così a fondo da privarlo di ogni difesa, facendolo alla fine morire proprio come predetto da Tiresia: infatti, secondo una versione del mito, una volta vista la propria immagine riflessa nell’acqua e innamoratosene, tentò di abbracciarla e annegò nel fiume, mentre dall’acqua nasceva il fiore del narciso (si veda anche, a questo proposito, il ruolo seduttivo che ha questo fiore nel mito sacrificale di Persefone). Secondo un’altra versione, Narciso, una volta capito che si trattava solo di un’immagine, si lasciò morire. Secondo un’ulteriore versione, poi, egli si trafisse con una spada, proprio come aveva fatto Aminia. In tutte queste versioni, comunque, Narciso finì vittima, oltre che dell’amore, di quella predazione che l’amore sempre e inevitabilmente porta in sé, in quanto invasione da parte dell’altro e mescolamento più o meno forzoso con lui. Ma soprattutto, finì vittima di quell’auto-riconoscimento che l’amore rende necessario: ogni bisogno di identificazione con l’altro presuppone infatti una percezione preliminare del proprio essere imperfetti e bisognosi di completamento, oltre che della propria natura fondamentalmente predatoria. Narciso dunque, proprio come gli era avvenuto di fare verso suoi spasimanti, sviluppò un’ideazione persecutoria e un comportamento psicopatico verso il suo oggetto d’amore, che questa volta era il proprio Sé: un’ideazione e un comportamento che sfociarono puntualmente, date le premesse, in auto-nocumento e odio. Egli dunque, dopo aver fatto morire in vari modi questi suoi innamorati, coerentemente uccise anche se stesso, ovvero l’oggetto del proprio “amore”, ma insieme la fonte primaria, forse la più pericolosa, della sua diffidenza.
Proviamo ora ad accostare il mito di Narciso a quello di un personaggio mitologico a lui perfettamente complementare: quello di Ermafrodito. Qui si tratta di un racconto davvero antichissimo, tanto da aver dato luogo ad un culto del personaggio, attestato in Atene già nel V secolo a. C., anche se poi è stato tramandato nella latinità da Ovidio, nelle Metamorfosi (4.285 e ss). Ermafrodito, figlio di Ermes e di Afrodite, era chiamato anche Atlantiade o Atlantio, in quanto bisnipote di Atlante. Giovane di straordinaria bellezza per aver ereditato sia la prestanza del padre che l’avvenenza della madre, suscitò l’amore della ninfa della fonte di Salmacide: questa tentò invano di conquistarlo, finché un giorno, essendo il giovane nudo e in procinto di bagnarsi nelle acque della sorgente, ella lo abbracciò, pregando gli dei di poter rimanere unita a lui per sempre; gli dei esaudirono il suo desiderio, e i due si fusero in un corpo solo che unì in sé le caratteristiche di entrambi. Del carattere di Ermafrodito, a parte le altre evidenti somiglianze a Narciso (lo specchio d’acqua in cui si svolge la parte terminale della vicenda, la straordinaria bellezza del protagonista, la punizione divina per il rifiuto dell’amore), ciò che lo apparenta a lui e alla tipologia psicopatica è il suo non lasciarsi conquistare dalla sessualità e dalla donna: un tratto che però lo porta, a differenza di Narciso (e con un esito finale opposto al ripudio del sesso), a essere letteralmente invaso e destrutturato dalla sessualità, quindi ad arrendervisi fino ad ospitarla in sé persino nel suo duplice risvolto di genere. Il mito di Ermafrodito ci illustra dunque, singolarmente, proprio il più probabile oggetto delle paure di Narciso, e anche i pericoli di destrutturazione cui quest’ultimo sarebbe probabilmente andato incontro qualora avesse ceduto alla “sessualità degli altri”. Lo psicopatico sessuale, insomma, o muore come Narciso, o si nasconde e fa l’amore, sostanzialmente, con se stesso, come fanno gli psicopatici sessuali e i perversi affetti da compulsioni predatorie, o infine, si arrende più o meno passivamente all’invasione della sessualità venendone radicalmente destrutturato, come fa Ermafrodito.
Tornando ora a Narciso, si può dire che mentre quest’ultimo personaggio ci spiega fenomenologicamente le psicopatie sessuali e quelle a sfondo criminale, Ermafrodito ce ne spiega la psico-dinamica più profonda e l’autentica ragione.
Il mito di Narciso, in sostanza, ci dice che dietro l’innamoramento c’è sempre una percezione persecutoria. In primo luogo, una percezione persecutoria dell’altro in quanto arbitro del proprio desiderio; poi dell’altro in quanto arbitro del completamento delle proprie mancanze, limitatezze e fragilità; poi dell’altro in quanto potenziale veicolo di destrutturazione delle proprie difese; poi dell’altro in quanto potenziale veicolo di predazione; infine, dell’altro in quanto veicolo della percezione di un’immagine di se stesso visto come predatore, e dunque percepito come vera fonte persecutoria della propria stessa preoccupazione e sofferenza.
Narciso simboleggia dunque, in forma ambivalente, essenzialmente due cose.
Da un lato simboleggia un predatore che viene disarmato dall’eros. Un eros che però, nel suo “pacificarlo” e ammorbidirne le difese, lo espone alla predazione altrui e alla sua propria, fino a condurlo, talora, alla più completa e psicotica destrutturazione della personalità, come avviene ad Ermafrodito, talaltra a una morte sacrificale: si veda ad esempio, a quest’ultimo proposito, quanti psicopatici di tipo delinquenziale vengono sacrificati, tramite la seduzione della retorica patriottica, al rito della guerra.
Ma allo stesso tempo, Narciso simboleggia un predatore che si serve a sua volta dell’eros (la sua bellezza) e del suo potere di neutralizzare le difese altrui, per implementare le proprie attitudini predatorie, facendole divenire non solo più efficaci, ma capaci di trarre godimento da questa efficacia: difese che dunque in Narciso divengono sadiche e improntate alla necessità di far soffrire gli altri, o anche se stessi, fino alla morte, per trarne godimento (si veda la sorte crudele che egli riserva, tra il timoroso e il compiaciuto, ad Eco e ad Aminio, e alla fine anche a se stesso).
Dunque, in questo mito, ciò che oggi chiamiamo “narcisismo” viene presentato come una condizione preliminare non solo alla psicopatia intesa in senso generale, ma ad una sorta di sua storica “biforcazione” antropologica. Nel narcisismo abbiamo infatti una condizione predatoria di base, quasi animalesca e tendenzialmente a-sessuata (per lo meno nel senso della sessualità umana perenne), in cui l’intervento dell’eros può sortire due effetti completamente opposti: da un lato quello di disarmare in tutto o in parte la predazione, trasformandone addirittura il soggetto in capro espiatorio sacrificale e facendolo morire; dall’altro, quello di incrementare per via sessuale le attitudini predatorie del soggetto medesimo e farle divenire sadiche, ossia capaci di servirsi dell’eros per auto-implementarsi proprio in quanto predatorie, dunque per generare sofferenza e morte negli altri, e goderne.
Insomma il mito ci parla, oltre che della neutralizzazione della predazione spesso prodotta dalla sessualità (come avviene ad esempio nei miti di Eros e Afrodite), dello svilupparsi, a partire dalla sessualità stessa, di una predazione ancora più potente e invasiva, proprio perché dalla sessualità innescata, potenziata e trasportata, esattamente come avviene in moltissime forme di psicopatia sessuale.
Narciso rappresenta, in definitiva, un’attitudine predatoria originaria, imperniata sulla caccia e pre-umana, come tale antecedente a quella socializzazione della predazione che dalla sessualità perenne dell’uomo fu probabilmente innescata, quindi ancora difficilmente “domabile”, o tanto meno civilizzabile.
La sessualità intesa come rapporto con l’altro, di conseguenza, a Narciso è totalmente inaccessibile: egli già in prima istanza la percepisce come pericolosa vettrice di invasione e destrutturazione. Come si è visto nel mito sopra narrato, Narciso vive il sesso, anche il proprio, come persecutorio, come subdolo strumento per sedurlo ed invaderlo, destrutturare la sua attitudine predatoria e renderlo aggredibile: perciò, di base, egli è uno psicopatico paranoico.
Però talora del sesso egli fruisce, pur facendo ciò solo per ribaltare la passività da esso indotta in attività, e incrementare il proprio piacere predatorio a spese degli altri, fino a farlo giungere alla psicopatia sessuale.
In questa seconda eventualità, Narciso non teme più la sessualità, poiché diviene lui stesso colui che per mezzo della sessualità depreda gli altri e gode sadicamente della loro sofferenza. Proprio da ciò deriva la sua attitudine ad ammirare, in se stesso e nel culto della propria “bellezza”, armi efficaci di offesa sessuale-predatoria verso gli altri.
Ma tutto questo non basta ancora: il narcisista non si limita a scrutare ogni partner sessuale come potenzialmente minaccioso e persecutorio, o in alternativa come possibile oggetto di godimento sadico, e se stesso come oggetto di ammirazione e strumento di auto-difesa: egli, anziché limitarsi ad amarsi ed auto-ammirarsi, come comunemente si crede, scruta se stesso anche come possibile fonte di minaccia, proprio perché è d’indole predatoria, e nel percepirsi come tale per mezzo della sessualità, si teme profondamente.
Quando poi questa fatale percezione, o auto-rispecchiamento e presa di coscienza, in Narciso hanno davvero luogo, provocano una micidiale reazione depressiva. Questa reazione, naturalmente, gli proviene dalla predazione che è in lui, la quale, una volta percepita (o come usa dire, “affiorata alla coscienza”), lo spinge al suicidio e all’auto-distruzione, ossia a rivolgere la predazione medesima su di sé: ciò sia allo scopo di neutralizzarla attraverso un’auto-punizione, sia, allo stesso tempo, allo scopo incoercibile di agirla e sfogarla in qualche modo, proprio come fanno i depressi.
Occorre infatti tener presente che per lo psicopatico “narcisista”, oltre all’Eros, esiste un’altra minaccia mortale e ancor più insidiosa: si tratta del linguaggio, nonché di quella coscienza che al linguaggio è collegata. Ciò in quanto la parola, specie quella di una donna (Eco), per ammansire un predatore deve anzitutto invaderlo, proprio come fa la sessualità: ossia, sommare alla forza invasiva e destrutturante dell’Eros quella del Logos.
Eco, in poche parole, per domare per via linguistica il predatore, attraverso il contenitore linguistico deve somministrargli predazione, esattamente come si fa quando ci si serve, allo stesso scopo, della sessualità e del suo piacere.
In Eco, poi, si tratta di una parola tutt’affatto particolare: questa parola, a seguito della maledizione di Era che la aveva condannata a subire in eterno l’invasione maschile ripetendo all’infinito la propria colpa (la gelosia di Era verso Eco derivava dal suo essere gelosa del proprio marito Zeus), può essere pronunciata solo di rimessa e in forma spastico-ripetitiva.
La ninfa, in sostanza, era condannata da una moglie gelosa a ri-espellere in eterno per via linguistica, ossia a rivomitare via, ma pur sempre assaggiandola di nuovo, quell’invasione predatoria “proibita” che le era stata somministrata da Zeus, il marito della gelosissima Era. Eco, dunque, dapprima tenta di alleggerirsi di questa invasione, sessuale e predatoria al contempo, contrassegnandola con il nome di un altro maschio, l’amato e “tutto suo” Narciso: poi però è costretta ad allontanarla di nuovo a causa della sua natura comunque predatoria, e lo fa grazie al carattere metaforico e “leggero” della parola.
Tuttavia, nel ri-espellere l’invasione sessuale per via verbale e simbolico-mimetica e nell’indirizzarla verso chi la ha ancora una volta invasa, ovvero verso Narciso, la ninfa induce in quest’ultimo, a causa della sua totale incapacità di ricezione, di elaborazione e di veicolazione, non già un ulteriore rivolgimento dell’invasione su qualcun altro (come già Eco verso lo stesso Narciso) ma un’auto-invasione: ossia un’auto-dissociazione e un’auto-osservazione colpevolizzanti che di linguistico hanno ben poco, e che di per sé sono assai vicine sia ai vissuti depressivi che alla coscienza.
Eco, insomma, in quanto donna è strutturalmente attrezzata a contenere e ad elaborare l’elemento invasivo maschile nonché a rifletterlo sul maschio medesimo, riuscendo in qualche modo a “ripulirsene”.
Il primitivo maschio Narciso invece, tormentato dalla propria stessa predazione ma incapace di elaborarla, a meno che non uccida colei/colui che glie la ha trasmessa per via sessuale o per altra via, non può far altro che riflettere l’elemento invasivo che Eco gli rimanda, inalterato e tossico così com’è, su se stesso.
Egli dunque lo fa innamorandosi della propria immagine: un’immagine che giustamente, per altri versi, teme, per cui nel rivolgere la propria attenzione “amorosa” su se stesso, Narciso prende in realtà a scrutarsi incessantemente e con somma diffidenza.
In altre parole, mentre la ninfa, come molte mogli, si fa portavoce e “altoparlante” dell’invasione maschile che l’ha occupata, il che le consente di convogliarla via e rispedirla al mittente alleggerendo se stessa, Narciso, quando viene a sua volta invaso, oltre a uccidere, di fatto, Eco, non sa fare altro che osservare con sgomento la propria stessa predazione, ritrasmessagli da Eco, e trattenerla al proprio interno, all’apparenza compiaciuto di essa ma in realtà ossessionato dalla sua incapacità di padroneggiarla, anzi quasi ipnotizzato da essa.
La parola femminile ossessivamente ripetuta alle orecchie di Narciso diviene allora, più ancora che un’eco, una sorta di “chiodo” persecutorio, ovvero un embrione inestirpabile di auto-coscienza: la parola di Eco, però, gli rimanda un’immagine ancora totalmente estranea, invasiva e inquietante di se stesso quale soggetto predatorio che deve essere a tutti i costi “neutralizzato” (e questo è il punto di vista femminile che Narciso introietta), e al contempo un’immagine di soggetto dipendente dall’altro, ormai disarmato e che non può più essere “risanato”, perché invaso e destrutturato nei suoi più profondi meccanismi istintuali (e questo è il punto di vista più genuino dello stesso Narciso).
La dipendenza e i vissuti depressivi veicolati dal pensiero simbolico e dal linguaggio, dunque, sono il secondo nemico, dopo la sessualità perenne, di quel maschio primitivo e predatorio che è il “narcisista”.
La dipendenza dall’altro da sé, peraltro, lo induce ad infuriarsi anche più di quanto non faccia la sessualità, poiché lo intrappola in un rapporto ancora più seduttivo, invasivo e colpevolizzante: un rapporto verbale e comunicativo ad alto tasso di invasività, che in virtù della sua astrazione ancor più lo disarma della sua attitudine predatoria, e in cambio lo mette in relazione sempre più estesa con altri esseri umani anch’essi potenzialmente predatori, esponendolo così alle loro minacce.
E’ per tali ragioni che lo psicopatico narcisista non tollera che nessuno gli rimandi la sua immagine, né visiva né acustica. Egli non tollera un’auto-coscienza auto-colpevolizzante che tenderebbe a bloccarlo, disarmando la sua attitudine predatoria ancor più della sessualità: ciò sia che tale immagine transiti attraverso il sesso, sia, a maggior ragione, che lo faccia attraverso il linguaggio e la formidabile dipendenza e fascinazione che da quest’ultimo è indotta.
Un lontano residuo di questi timori narcisistici primari si ritrova, come accennato, anche nelle più comuni dinamiche di coppia: uomini che vessano le donne con la loro gelosia “territoriale” e/o con un esplicito odio predatorio rivolto alla loro seduttività, “falsità” ed invasività verbale; donne che si lamentano del loro uomo, rimproverato d’essere violento o viceversa assente, ma che hanno bisogno di avere a che fare proprio con queste sue caratteristiche predatorie per poterle meglio controllare e padroneggiare, “per via amorosa” oppure verbale; o ancora, donne moleste e prevaricanti su un “lui” che spesso, malgrado la sua attitudine predatoria e pericolosità, appare stranamente svuotato, remissivo e silenzioso, di fronte al talora frenetico attivismo, ancora una volta sessuale e/o verbale (e di natura difensiva) della donna.
Queste donne, però, come si è detto, il più delle volte fungono da semplici porta-voci, altoparlanti e contenitrici di una problematica predatoria maschile che le ha completamente invase e occupate: esse, lamentandosi del loro uomo e tentando di neutralizzarlo e di controllarlo per via sessuale e/o verbale, o anche vessandolo in vari altri modi, da un lato “fanno da eco” all’invasione predatoria che hanno subito da parte sua, la replicano e la ripropongono; dall’altro però se ne dissociano e riescono ad espellerla, e lo fanno trasformandola in un oggetto linguistico, metaforico e in parte escretorio, proprio come la parola spastica e ripetitiva, quasi il vomitamento, di Eco.
Da notare, a proposito del nesso fra il mito di Narciso e il linguaggio, come proprio in questo mito, che narra di un personaggio come Narciso il quale meno d’ogni altro all’apparenza è sedotto dalla parola femminile e dalla sessualità, la parola compaia per la prima volta nell’ambito del mito greco, a parte forse il mito di Cassandra. Ma essa lo fa in forma persecutoria e dissociata, e per di più incarnandosi in un personaggio femminile, Eco, che proprio come Cassandra, è a sua volta invaso dal maschio.
Quello linguistico, in conclusione, è uno strumento di pacificazione anti-predatoria che con il tempo acquisisce a sua volta, più ancora della sessualità, caratteristiche di veicolazione della predazione medesima, quindi nettamente persecutorie: ciò non solo in ragione delle sue possibili implicazioni allucinatorie, ma semplicemente perché comporta, più che ogni altra forma di rapporto inter-umano (e più della stessa sessualità), l’auto-rispecchiamento e l’auto-coscienza, quindi una annichilente presa di coscienza della propria stessa attitudine predatoria, come appunto avviene a Narciso.
Ora, questa coscienza depressiva e auto-colpevolizzante del proprio sé predatorio, indotta dal sesso femminile ma alla fine, a quanto pare, pienamente realizzata solo da quello maschile, non è per nulla sopportabile dal narcisista Narciso, in quanto come già detto potrebbe disastrosamente inceppare la sua aggressività e disarmarlo. Allora paradossalmente, proprio per salvaguardare questa sua aggressività, egli la rivolge su se stesso e si uccide.
Insomma, il senso di colpa depressivo sembra nascere come rivolgimento dell’aggressività su di sé al fine di preservarla, prima ancora che di inibirla (si veda a tale proposito l’etero-aggressività talora feroce dei depressi). Ma questa operazione di auto-rivolgimento dell’aggressività su se stessi può essere effettuata solo auto-dissociandosi preliminarmente da essa sul piano cognitivo, ossia guardandosi dall’esterno come un oggetto estraneo, quindi ponendosi dal punto di vista degli altri, come fanno appunto i depressi, e più in generale, come fa la coscienza morale.
E Narciso infatti compie questa operazione di auto-osservazione, solo apparentemente compiaciuta, ponendosi in realtà dal punto di vista di Eco e di Aminio, anche se è spinto a farlo, nel finale della narrazione, da Artemide e/o Nemesi.
Ancora, nel suo ossessivo scrutarsi e rispecchiarsi, all’apparenza con ammirazione ma in realtà con sospetto, Narciso assomiglia paradossalmente ai dismorfo-fobici, che come è noto temono una propria fantasmatica imperfezione: egli, come già accennato, diffida profondamente di se stesso, e la fascinazione su lui esercitata dalla sua immagine deriva proprio da questa componente persecutoria insita nel suo sé.
Egli dunque all’apparenza “si ama” e si ammira, ma in realtà è costretto a osservarsi in continuazione e con sospetto, quasi schiavo di se stesso, perché sa che la fonte dei suoi problemi è proprio in lui, sia in quanto attitudine predatoria che in ragione del suo essere un soggetto sommamente vulnerabile alla predazione stessa.
E’ per questo che Narciso è ossessionato dall’esigenza di rassicurarsi, guardandosi e ammirandosi di continuo, della sua integrità e intangibilità, della sua forza e bellezza.
Narciso in definitiva rappresenta, allo stesso tempo, uno passo essenziale verso la presa di coscienza dell’attitudine predatoria umana (quindi verso un’acquisizione depressiva dell’auto-coscienza riflettente e dei collegati sensi di colpa), e un vicolo cieco evolutivo, per la precisione di tipo perverso: proprio perché introduce nell’uomo un primo barlume di auto-coscienza, egli vi introduce anche il dolore e il senso del limite ad essa collegato, che però blocca in lui questa auto-coscienza ad uno stadio precedente l’acquisizione del linguaggio: quello del piacere perverso e di una sessualizzazione allo stesso tempo spastica e fobica nei confronti della predazione.
E poiché Narciso blocca l’evoluzione umana verso la trasformazione linguistica della predazione (un’evoluzione che, come suggerito dal personaggio di Eco, fu forse promossa dal sesso femminile), egli su un certo piano, quello più evidente e meno misconosciuto, non può fare altro che estinguersi, almeno metaforicamente: infatti muore proprio sulla soglia dell’auto-coscienza, significativamente punito dalla vergine e anti-maschile Artemide, che ben conosceva il maschio predatorio e che abitualmente, come ci dice il suo mito, lo “cacciava”.
Tuttavia la tipologia psicopatica e primitiva di Narciso, come comprovato dal personaggio stesso di Eco, rappresenta anche, agli occhi del sesso femminile, una fonte di fascinazione, non solo di avversione e timore, che garantisce a Narciso la sopravvivenza: la femmina più passiva e ricettiva, ancora oggi, spesso se ne innamora perdutamente, al fine di domare o padroneggiare in lui quella stessa predazione maschile che tende ad invaderla.
In questo senso, Narciso è tutt’altro che estinto, anzi è vivo e vegeto: e lo è anzitutto nella donna.
Difatti, sulla scia di Eco, vediamo tuttora una serie infinita di ammiratrici, salvatrici e assistenti sociali che spesso assediano dei feroci predatori, incarcerati per terribili delitti.
Ma Narciso rifiuta ogni possibile forma di auto-coscienza e di rispecchiamento verbale e/o mentale nell’altro, specie se questo “altro” è una donna: ciò in quanto l’auto-coscienza della predazione comporta per lui, come abbiamo visto, la morte. Anche l’auto-coscienza infatti, come l’eros, è assai destrutturante ed inibente su quegli istinti aggressivi e predatori cui lo psicopatico non è in grado rinunciare, in quanto rappresentano per lui l’unica difesa possibile.
La vulnerabilità all’auto-coscienza, poi, è ciò che spiega l’avversione degli psicopatici di matrice narcisista, oltre che per le donne e per il sesso, per le ambiguità sessuali di ogni tipo: omosessualità, travestitismo, transessualismo.
Proprio l’ambiguità sessuale, infatti, nel suo sommare alla destrutturazione indotta dalla sessualità quella indotta dalla coscienza, incrementa la possibilità che nello psicopatico insorga un devastante barlume di auto-coscienza circa la propria identità e la propria stessa integrità di genere.
Ma l’ambiguità sessuale, soprattutto, implementa una caratteristica che è insita nell’eros in sé, almeno nella sua forma di sessualità umana perenne: il nascondere in sé, molto meglio della sessualità degli animali, ogni possibile “inganno” e “tradimento”, quindi l’introdursi dei rivali maschili nel proprio territorio. Questo evento è reso ancor più nefasto dall’ammorbidimento (provocato sia dalla coscienza, sia da ogni forma di sessualità, in particolare la sessualità umana perenne) delle proprie caratteristiche predatorie. Perciò lo psicopatico narcisista, sia sul piano sessuale che su quello dell’ideazione paranoidea, è molto pericoloso (come del resto lo sono tutti quei disturbi psichici di tipo paranoico che dal narcisismo derivano, quando si complicano con tematiche sessuali): egli odia la prostituzione poiché essa implica un tradimento istituzionalizzato; odia il transessualismo, poiché è il massimo dell’ambiguità sessuale; odia il travestitismo, perché possiede un’ambiguità minore ma sempre intollerabile; odia l’omosessualità perché, pur possedendo un’ambiguità ancora minore, è più impegnativa e ricca di “trappole” predatorie nell’ambito dei rapporti inter-personali. Insomma, lo psicopatico odia tutto ciò che rappresenta ai suoi occhi un subdolo mascheramento sia della sessualità che del linguaggio, con il loro potere invasivo e disarmante: un mascheramento tale da implementare le caratteristiche di invasività di entrambi. L’invasività del linguaggio risiede, come abbiamo visto, nel suo indurre, tramite il rispecchiamento, una presa di coscienza dei propri limiti, mentre quella della sessualità (della sessualità umana, che per definizione ha superato l’estro), sta nel suo carattere perenne, che la rende occulta e capace di aggirare, per via erotica e di “piacere”, le difese di tipo predatorio.
La tipologia del narcisista, che poi assomiglia moltissimo a quella dello psicopatico (di tipo sessuale e non), nel suo deperire senza estinguersi, è stata essenzialmente sostituita dalla delinquenza “normale” e non propriamente psicopatica.
Ma un residuo ancora più genuino del Narciso delle origini resterà per gran tempo nascosto, nelle pieghe più riposte della nostra società, in quei pedofili e psicopatici sessuali che di Narciso stesso sono gli eredi diretti.
La “morte di Narciso”, quindi, non sarà mai totale, anche perché la sessualità perversa che egli rappresenta (forse più di ogni altro eroe mitologico), non potrà mai essere completamente trascesa, superata e/o eliminata dalla nostra specie: ciò, in particolare, essendo essa un formidabile strumento di implementazione “piacevole” della predazione.
Di più: Narciso potrà rinascere, e lo fa già oggi sotto i nostri occhi, nelle forme più evidenti di auto-compiacimento difensivo a sfondo più o meno erotizzato e/o di sospettosità paranoica che attualmente proliferano, in specie nelle nostre società “aperte” e prive di codici culturali difensivi nei confronti delle invasioni predatorie e/o sessuali.
In un magnifico film del 1966, 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrik, si vagheggiava, come anche nella maggioranza dei romanzi di fantascienza di quel periodo e di quelli precedenti (con le geniali eccezioni, forse, di George Orwell e di Aldous Huxley), un futuro prossimo in cui l’ingegno umano, sul piano della tecnologia e degli investimenti economici, si sarebbe proiettato sul mondo materiale, e comunque all’esterno dell’uomo, tramite astronavi interplanetarie, stazioni lunari orbitanti, basi su Marte, e così via. La stessa previsione fu fatta, un po’ da tutti, sempre in quell’epoca (1969), al momento del memorabile sbarco dell’uomo sulla Luna.
A distanza di mezzo secolo possiamo dire che l’arte, per una volta, non è stata visionaria, e che il futuro si è rivelato di tutt’altro tenore: la tecnologia si è sempre più polarizzata sulla comunicazione fra gli uomini, quindi sui computer come strumenti di Internet, sui telefoni cellulari, sugli smart-phone, ecc. ecc.
Insomma, ci si è concentrati su tutto ciò che riguarda i rapporti inter-umani, quindi sulla comunicazione e sulla competizione anche cruenta fra gli uomini, su giochi di ruolo e di combattimento anche estremi e crudeli, ecc. Tutto ciò, poi, con una sempre più inquietante osmosi fra il virtuale e il reale.
In definitiva, l’interesse dell’uomo per la realtà a lui esterna e non umana si è rivelato, almeno per l’individuo medio e sul piano del mercato (che forse è l’indice più affidabile dei veri gusti e predilezioni della nostra specie presa nel suo insieme), abbastanza scarso. Sempre più alto, invece, è apparso l’interesse, in larga parte competitivo ed auto-centrato, sospettoso e predatorio, erotizzato e perverso – narcisistico, potremmo dire -, verso se stessi e gli altri esseri umani, fino ad una vera e propria preoccupazione persecutoria nei loro riguardi: un autentico scrutare gli altri e se stessi di continuo, con apprensione e sospetto, che va singolarmente di pari passo con il crescente interesse erotico. Si vedano le manifestazioni che stanno emergendo, in forma evidentemente paranoica, sui social network.
Perciò possiamo dire che si è rivelato del tutto vano il tentativo che culture come quelle orientali e religioni come il buddismo hanno effettuato di spingere l’uomo, con l’isolamento e la meditazione, ad occuparsi più della propria interiorità (e di quella realtà extra-umana che in realtà ben poco gli interessa) che non degli altri uomini: hanno finito esse stesse, sovente, per coltivare arti marziali e cruente, etero e auto-lesive o addirittura suicidarie, o forme di erotismo estremo, rivelandosi una volta di più concentrate sugli altri e sul rapporto con essi – enti la cui persecuzione avevano solo negato -, e dimostrando con ciò di non essere in grado di andare molto oltre quelle culture del rapporto inter-personale, le occidentali, cui si contrapponevano e verso le quali implicitamente polemizzavano.
Una frazione assai cospicua di Narciso, in conclusione, è ancora fra noi, viva e vegeta più che mai.
Ma essa, pur inducendoci ad auto-scrutarci ossessivamente su Internet e sui social network, è come sempre incapace di farci visualizzare, tramite quell’auto-coscienza e quel linguaggio simbolico cui non è per nulla accessibile, la cospicua frazione del nostro Sé che è irriducibilmente predatoria, e allo stesso tempo fragile in quanto permeabile all’eros: una frazione che proprio non riusciamo a sopportare.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA PSICANALISI Endoxa marzo 2018 FILOSOFIA PSICOLOGIA storia