LA COMPLEMENTARIETÀ VERBALE TRA PERSUASIONE E SVELAMENTO
MATTEO MASELLI

Nel III libro della Monarchia uno scettico Dante riflette sui vincolanti rapporti di forza tra il Pontefice e l’Imperatore. Al sospetto per le tesi dei difensori della Curia romana, che rivendicavano con autorità la supremazia del potere spirituale, Dante seguita a dimostrarne la palese infondatezza non ritrovandone esplicita conferma nelle Sacre Scritture. La legittimità delle prerogative temporali e territoriali della Chiesa erano infatti il lascito giuridico della benevolenza di Costantino, imperatore di sangue illirico, ratificato nel documento che porterà il suo nome. Poco più di cinquemila parole conferiranno a Papa Silvestro I il controllo legale dei domini dell’Impero romano d’Occidente.
Per secoli gli storici della Chiesa brandiranno la Constitutum Constantini come mezzo di tutela e conferma apodittica del dominio ecclesiastico nei confronti di continue rivendicazioni laiche. Solo con l’Umanesimo si svelerà la colossale mistificazione dei contatti intercorsi tra Costantino e Silvestro. Fu Lorenzo Valla, ricorrendo ad un’accurata analisi filologica della lingua adoperata per redigere il testo, a dimostrarne nel 1440 la falsità. La nascita della moderna filologia, che delle parole farà privilegiati oggetti d’indagine, è sancita col crisma della rivelazione, attributo costitutivo dell’uso antico e moderno delle parole che si completa affiancato al potere della convalida.
Per l’autorevolezza dei partecipanti e le globali conseguenze provocate, il dato storico appena citato è particolarmente indicativo per mostrare due fondamentali effetti che il ricorso alla parola – indistintamente orale o scritta – concede al soggetto adoperante la verbalità. Mi riferisco a quelle azioni prodotte dal linguaggio accennate con eccessiva fugacità negli studi formalisti primonovecenteschi che hanno reso altisonanti i nomi di Šklovski, Tynjanov, Propp, Jakobson: il conferimento e lo smascheramento d’idee, comportamenti, nozioni conseguite con l’uso autorevole della parola.
È raffinando alcuni aspetti delle ricerche di Roman Jakobson, al quale più di tutti si deve lo studio sulla distinzione tra il linguaggio pratico e il linguaggio letterario, che potranno rintracciarsi le due conseguenze sopradette e spendibili con equilibrata combinazione di significato-significante.
Nella definizione strutturale del processo linguistico, Jakobson individua sei fattori partecipanti all’evento verbale: avvalendosi di un codice (1), un mittente (2) istituisce un contatto (3) con un destinatario (4) inviandogli un messaggio (5) che si propaga nel contesto (6) che separa i due interlocutori. Ad ogni fattore è legata una funzione che si alterna prevaricando vicendevolmente sulle altre. Quando a predominare è la funzione relativa al messaggio si ha ciò che Jakobson definisce «funzione poetica». Fin da Jurij Lotman, naturale e maggiore erede di Jakobson, la funzione poetica è stata studiata principalmente come contributo della formazione dell’opera ritenuta «d’arte». Logico e vantaggioso ai fini del discorso che si sta portando avanti è invece puntualizzare la precondizione che anticipa l’universalità dell’opera impostata sulla dimensione poetica, dato affatto scontato ma ritenuto come tale dalla critica novecentesca. Si tratta di quella forma di persuasione – che Jakobson intese per lo più come propaganda – che influenza il credo e l’agire e che si ritrova tutt’oggi espressa in sembianze moderne eppure strettamente imparentate con quelle vetuste maneggiate dagli affabulatori della Donazione di Costantino. Inoltre, come vincolata a princìpi di complementarietà, se osservata da angolature insospettate, la persuasione mostra il volto antinomico del vero e fa della parola anche strumento di svelamento del falso.
La filologia si è più volte proposta come strumento di disoccultamento dell’inganno «parolistico». Rispetto al tempo in cui Valla agiva da precursore, l’indagine testuale ha qualificato in vario modo il suo intervento non limitandosi al riesumare il mendace nascosto con cura, ma spingendosi a palesare anche le conseguenze del non detto involontario. Il primo a teorizzare la nuova qualifica filologica fu Leo Spitzer, che sul potere ambivalente delle parole fonderà la critica stilistica. Meditando sul sentimentalismo umano, Spitzer intravede un ponte tra l’emotività e il linguaggio. Ogni emozione vissuta comporta una deviazione dalla norma nell’atto dell’utilizzo attivo del linguaggio originando ciò che Spitzer definisce «spie linguistiche». È dalle spie che il critico deve partire per innescare un vorticoso procedere a ritroso fino a toccare i profondi e ben eclissati «centri emotivi» dell’autore. Un procedimento che fa delle parole valevoli chiavi della psiche dell’uomo, faro dell’oscuro silenzio interiore trasfigurato dalla benefica censura in contenuto attenuato della realtà. È un’operazione non semplice e che necessita di costanti verifiche per dimostrare che la spia rintracciata non sia un isolato capriccio artistico. Chi ha cercato di limitare i rischi della ricerca stilcritica è stato Gianfranco Contini, che servendosi della «critica delle varianti» ha indicato lo studio delle correzioni documentate come unico canale certo per poter individuare le parole che aprono all’inconscio umano. La sapienza di Contini nel maneggiare con cura parole dal peso non indifferente si registra anche – oltre nel noto caso d’attribuzione del Fiore dantesco – in un’altra operazione isolata che lo studio filologico novecentesco ha consentito: la ricostruzione esatta della volontà testuale di un autore mediante un’attiva collaborazione con lo stesso. È il caso dell’edizione critica delle poesie di Montale realizzata da Contini in collaborazione con Rosanna Bettarini dialogando personalmente con l’autore genovese.
Esempi di operazioni che allo svelamento affiancano convincimenti verbali, più che alla filologia sono consoni all’attività creativa nella quale la parola è ritenuta tassello edificatore di situazioni diversificate e riproduttore di mondi imprevisti. È narrando che può sventrarsi il reale e mostrarne lo scheletro linguistico. Se nota era l’abitudine mentale di Joyce di ripetere assiduamente lunghi periodi scritti per collaudare la musicalità dei legami tra le parole – equilibrate vette sonore sono in Dedalus (1916) -, in Italia una simile analisi chirurgica del linguaggio tormenterà fino alla nevrosi Carlo Emilio Gadda che il suono sacrificava alla funzionalità delle frasi. Solo la scrittura che contribuiva alla comprensione del reale era degna di essere prodotta.
Nel fondamentale trattato filosofico Meditazione milanese (1928) Gadda considera la scrittura come mezzo di conoscenza che deve interpretare in modo originale la realtà distruggendone i prevedibili luoghi comuni. Il descrittivismo finale non può che essere complesso perché il mondo riprodotto è entità reticolare, ammasso d’intrecci che non ammettono una soluzione rappresentativa univoca. Nella Meditazione milanese Gadda parlerà di un «garbuglio o gomitolo di rapporti logici attuali» riferendosi al caotico groviglio semantico del reale.
In un articolo pubblicato sulle pagine del Corriere della Sera il 16 ottobre del 1984 intitolato «I gomitoli di Jorge Luis», Italo Calvino riadatta le potenti modalità fotografiche del dinamismo fenomenico che Gadda ricongiunge al gomitolo alla vertiginosa e babelica scrittura dell’argentino Jorge Luis Borges. L’abilità di Calvino di tratteggiare con pennellate riassuntive la brillantezza titanica di Borges deriva da un allenamento costante di osservazione e analisi del reale ereditato dal diretto coinvolgimento di Calvino nello studio delle correnti critiche strutturaliste e semiotiche del secondo Novecento.
L’interesse saussuriano per l’arbitrarietà del segno è ben visibile a partire dal racconto Un segno nello spazio contenuto ne Le cosmicomiche (1965). Qui Calvino, affrontando il rapporto tra nome e oggetto nominato, indaga la natura dei segni che riempiono l’universo comprendendo come la realtà sia scomponibile in codici subordinati al linguaggio. Pertanto, la costante ri-definibilità dei segni che saturano il reale ne fanno un’essenza priva di univoco significato. Sono gli anni in cui Calvino sperimenta la scrittura combinatoria appresa da Queneau e aderisce entusiasta ai principi dello strutturalismo di Cvetan Todorov e Roland Barthes.
Todorov considerava il testo un immenso amalgama di presupposti che avrebbero potuto generare diversificate e infinite forme documentarie, esiti d’imprevedibili e incalcolabili combinazioni. Barthes, al contrario, cercherà di correggere tale impostazione confutando la chiusa autonomia del testo. La forza persuasiva di Barthes è giocata sull’equivocità delle parole, tratto implicito che si imparerà ad apprezzare e temere con la decostruzione post-strutturalista di Jaques Derrida: il testo è sempre aperto al lettore che gli si accosta perché sempre diverso è il lettore e le motivazioni della lettura. Se lo strutturalismo smontava il testo per osservarne i meccanismi di funzionamento, il post-strutturalismo di Derrida arpionava le parole per smembrare il testo al fine di mostrarne il non funzionamento e svelarne il possibilismo interpretativo.
Calvino considera l’azione sulla parola il banco di prova per la verifica sperimentale delle teorie combinatorie, strutturaliste e post-strutturaliste. I testi pubblicati dal 1968 in poi – anno di rivoluzioni anche letterarie – sono riusciti esperimenti di un Calvino virtuoso paroliere: Le città invisibili (1972), Il castello dei destini incrociati (1973), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) aderiscono tutti al vano tentativo di esaurire, su uno sfondo metaletterario, inesauribili calcoli di orditure linguistiche.
Ed è forse questo il fascino maggiore della parola. Oltre la persuasione, oltre la confutazione c’è la duttile fecondità dell’espressione che accoglie desideri insondati, che si adegua alle intenzioni del contatto e dello sfogo e che rende l’uomo meno solo nel bisogno timido o furioso di articolare la voce del suo essere.
Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA Dante Endoxa maggio 2018 maselli