IL PRIMO NOMENCLATORE

PEE GEE DANIEL

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La sensazione fu quella di un vertiginoso risucchio, nel momento in cui venni strappato via a quell’inesistenza entro cui fino ad allora ero giaciuto.

Il nulla che diviene qualcosa. Il nulla che si fa me.

Fu un dolore lancinante a segnare questo passaggio, come se per nascere alla vita avessi dovuto prima morire dalla non-vita in cui versavo, in cui non ero.

Fu il mio stesso urlo a destarmi per la prima volta nell’essere, in ciò che è dato. Una specie di straziante, cavernoso vagito mi consegnò a questo mondo sul quale, scosso da quel verso primordiale liberato dalla mia stessa bocca, dischiusi un paio di occhi vergini, ancora vuoti di ogni immagine, nell’infantile attesa di venire presto colmati dai movimenti e dalle presenze che componevano l’ambiente sterminato in cui mi vedevo immerso: le bestie, quelle che nuotano le acque pescose, quelle che fendono l’aria trasparente, quelle che circolano per le terre emerse, e poi la natura immota, i corpi infissi nella volta celeste che tutto sovrasta.

Il mio sguardo scivolava gonfio di una primigenia meraviglia su quella festa di forme e suoni che mi circondava, annichilendomi, nelle sue infinite complicazioni, ben più di quel nulla incosciente cui fino a poco prima appartenevo.

Io, un nonnulla disperso e atterrito dentro quella superba vastità.

Un tuono crepitante di elettricità allora mi sgomentò, interrompendo improvviso la mia contemplazione silente.

«Tu sei l’uomo!» udii articolare da una voce immensa che riempiva i cieli e riecheggiava contro la terra. Mi guardai attorno cercandone l’origine, che mi rimaneva imperscrutabile: nulla si era aggiunto allo scenario precedente, anzi ora sgombro, semmai, delle molte creature spaurite che, al rimbombo di quelle parole sorte da nessun luogo in particolare, avevano cercato un frettoloso riparo tra i pertugi e i varchi che la natura offriva.

«Tu sei l’uomo!» sentii dunque ripetere. Lanciai un’ultima occhiata verso le valli ora disabitate e compresi che si rivolgeva a me. Tacqui. Attesi, coricato nell’erba fresca, che la voce continuasse. Non la dovetti pregare: «Io sono colui che tutto questo ha creato, impastandolo dal nulla che era prima. Io sono il Verbo. Mi è bastato nominare uno a uno enti inanimati ed esseri viventi per chiamarli all’esistenza. Ciò che ho stabilito mi ha compiaciuto e nutrivo la necessità che altri occhi  rimirassero il mio lavoro, giacché un’opera resta debole e infondata se non ne può godere altri che il suo artefice. Non mi aiutavano, in questo, gli occhi dei bruti, che in quel che fissano scovano l’utile, non già il superfluo. Mi serviva un giudizio capace di cogliere la futile bellezza che anima le cose. È attraverso di essa che si misura la differenza che passa tra ciò che è ben fatto e ciò che è grandioso. Perciò ho insufflato in te la vita, uomo, unica bestia tra le bestie congegnata per intravvedere la grazia o il furore che presiedono alla semplice materia. E ho potuto percepire che anche nel tuo cuore ciò che hai veduto ha infuso uno stato di fragrante appagamento. Ma ciò non è sufficiente. Non a questo si limita il tuo compito…» Io continuavo a prestare docile attenzione a quelle parole, mentre già i primi animali, quelli meno timidi, appurato il falso pericolo, cominciavano a spingere il muso fuori dalle tane, aguzzando le orecchie, quasi che a loro pure fosse concesso di intendere quel fragoroso messaggio, «Ora che tutto è compiuto il linguaggio rudimentale che io parlo non ha più scopo. Pretendo da te che sia tu a conferire un nome a tutto ciò che è, individuo per individuo, specie per specie, trovando la parola più adeguata per ogni singolo elemento in cui ti capiterà di imbatterti, la parola giusta, ponderata, che soppesi la conciliabilità del suono con la precisione descrittiva. Questo per tutti i giorni che io manderò in terra e che ti sarà dato godere. Tale incombenza è il fio che tu paghi per il privilegio di partecipare alla vita, che io mi sono benignato di conferirti. Questo è il costo del biglietto, che tu così salderai, per partecipare al grande spettacolo…»

Detto questo si azzittì. E da allora non lo si sentii mai più fiatare di tra gli spazi sconfinati concessi ai viventi. Quella declamazione imperiosa si era però trasferita dagli echi rotolanti per i campi e contro le cordigliere dei monti dappoco innalzati alla criptica recinzione che racchiudeva il mio animo, trasformata in uno stimolo categorico che mi premeva assolvere.

Volli esercitare il mio incarico sin da subito, dopo che il Verbo si era spento, allorché una forma di vita tozza e grufolante, vedendomi steso a terra, prese a fiutarmi col suo naso roseo e schiacciato, forse per saggiare il mio stato di saluto e annusare se nel caso risultassi commestibile. «Tu ti chiamerai porco!» esclamai d’un tratto rivolto a esso, rialzandomi frattanto sulle gambe per non rischiare d’essere addentato.

Quel mio movimento inconsulto lo spaventò. Si allontanò di qualche passo sulle sue piccole zampe grassocce. Poi si fermò a fissarmi da poco distante coi suoi piccoli occhi tondi, come se stesse ripensando a quanto gli avevo appena comunicato. Non si dispiacque di quell’appellativo, almeno così mi parve. Grugnì in segno di ringraziamento, prima di sparire nella macchia poco più in là.

Forse dopo aver notato il privilegio di cui aveva appena goduto il porco, altre fiere e anfibi e rettili e uccelli e pesci, animali ricoperti di peli o squame o penne e piume, mi si fecero dattorno, chi sguazzando tra le acque terse del corso d’acqua che mi lambiva i piedi, chi salterellando, chi a balzelloni, chi strisciando o trottando, chi atterrando dopo una serie di voli concentrici sopra la mia testa, e tutti i loro sguardi convergevano su di me, fermo lì, in mezzo a loro, come nel tentativo di avanzare la medesima, tacita richiesta.

«Tu d’ora in avanti sarai volpe, tu antilope, tu cavedano e tu lucertola» cominciai dunque a elencare, puntando l’indice verso ognuno di loro, quando mi preparavo ad appellarli e farli perciò esistere compiutamente, «Tu dal manto corrusco e striato sarai tigre, tu che ti rotoli nell’umore della molle terra d’ora in poi sarai conosciuto come verme e tu, scuro come un blocco di pece da cui spunti un beccuccio giallo e garrulo, sei il merlo…»

E proseguii così per giorni e mesi con ogni vivente, scricciolo o mastodonte che fosse.

Esauriti quelli, passai a nominare le piante e gli alberi, i frutti che mi si offrivano spontanei dai rami e quelli che si annunciavano dal suolo, i fiori che coloravano i prati con la bella stagione, i funghi e le bacche che abbondavano quando il tempo era più rigido.

Quindi toccò alla brecciolina, al sasso, alla pietra, alla montagna. La fonte che si fa torrente e poi ruscello e ancora fiume, sinché non si mischia coi mari e i mari con gli oceani. I cieli, gli astri, i venti che si tendono tra due cime, le nubi che si gonfiano come rospi in amore, la pioggia sottile e la grandine, la calura e la brezza.

Chiamai giorno il giorno, notte la notte. E aggiunsi un nome anche per ognuno dei lenti passaggi tra i due momenti, perché nulla mancasse di un termine tramite cui riferirvisi.

Avevo quindi iniziato con il tentativo di trovare un nome per tutti i sentimenti che ci albergano in cuore: impresa ancor più ardua che provare a fermare il leggiadro volo di una farfalla con due dita. Partii dagli elementi contrastanti del piacere e del dolore che avvincono il corpo e da quelli procedetti lungo la loro progressiva intensità, che conduce al resto delle passioni e degli affetti che dominano l’uomo e la scimmia, la pulce d’acqua e la megattera.

In un’alba inondata di una luce sfolgorante mi risvegliai trovandomi fianco a fianco con una creatura il cui aspetto rassomigliava al mio e, allo stesso tempo, gli si contrapponeva. La chiamai donna. Tranne quando lei diventava femmina, io maschio. Dall’alleanza dei nostri corpi nacque prima un figlio, poi un secondo. La felicità che ne trassi spiccava talmente tanto sopra ogni altra emozione provata sino ad allora che per quella, per quanto mi fossi sforzato, non riuscii a recuperare la parola adatta. Lo stesso valse, molto più tardi, quando uno dei due mi venne a mancare per mano dell’altro: tale ne fu lo strazio che non potei dargli un nome, che non mi è possibile nemmeno tuttora indugiare a parlarne.

Ne vennero altri e nuove generazioni dopo di loro. Per ciascuno scelsi un nome diverso da quelli altrui, ma presi tutti insieme continuarono a chiamarsi uomini, come il melo resta melo né più né meno di quel seme di mela da che è rampollato.

Per mancanza di immaginazione, forse, lo confesso, riassunsi sotto il vocabolo “amore” sia il laccio che lega l’uomo alla donna che il mastice che costringe il genitore alla propria prole, benché il primo possa sciogliersi con la facilità della neve sotto una pioggia calda e battente, mentre il secondo, nella sua granitica tenuta, sfidi i secoli.

I miei eredi ereditarono il mio compito. Perseverarono nel rintracciare nuovi nomi per nuove cose. Già nell’età più precoce, vedevo i fanciulli – io che fanciullo non ero mai stato – emulare spontaneamente chi li cresceva farfugliando suoni inventati al momento per indicare l’oggetto e la persona. Così capii che tutte le parole che escogitiamo non servono a far esistere ciò che da esse viene designato, ma a permettere semmai che noi, che le pronunciamo, esistiamo pienamente, nella nostra umana funzione di ordinatori di una precostituita creazione.

Neppure mi fermò il procedere degli anni. Diedi nome alla vecchiaia, io che fui vecchio prima di tutti, e ai morbi e ai malanni che essa mi arrecò, affinché, conoscendoli attraverso il linguaggio, in futuro imparassero anche a lenirli..

Diedi nome a quel letto su cui mi adagiarono per consumare i miei ultimi rantoli e lo chiamai capezzale.

L’ultima parola che congegnai, a porre fine a un elenco che mi aveva accompagnato tutta la vita, fu per definire quanto stava per toccarmi, ed era la morte. Ma darle nome fu forse un errore, giacché la morte propriamente non è, intendendo con essa la cessazione, appunto, dell’esistenza, il ritorno al nulla, laddove, all’instancabile opificio delle parole si sostituisce la quiete inanime del silenzio.

 

Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA MITO Senza categoria

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