RICOMINCIARE DA UN LANCIO: IL RUOLO DEL CASO TRA NIETZSCHE E IL RAZIONALISMO

0706df783c98944ff41d0e560279b5c4RICCARDO DAL FERRO

A caso, come le reazioni indistinte di una folla impazzita. A caso, come i vagiti di un neonato. A caso, come i nostri tentativi di evitare il caso.

Ma la casualità è forse uno degli elementi più eccentrici del mondo, eccentrico proprio perché se avesse un centro non sarebbe più casuale. Persino quest’ultima frase è un tentativo di scongiurare la casualità. Osservando il dipanarsi stocastico dell’orizzonte degli eventi è facile cadere nella contraddizione di considerare il caso come la regola del mondo, ma esso non può essere una regola poiché il caso è ontologicamente irregolare, sorprendente, imprevedibile. E quando vediamo regolarità nel caso, quando scorgiamo un ordine nel disordine, in quel momento siamo preda dell’angoscia che ci pervade quando il mondo presenta il conto del suo essere incontrollabile.

Potremmo descrivere l’intera esistenza umana e la storia della nostra cultura come il tentativo di eliminare dal nostro scacchiere mentale l’elemento del caso. Cosa contraddistingue meglio la mente umana dell’inesausto tentativo di dare ordine, trovare (o meglio attribuire; o meglio ancora: imporre) significato alle cose? È comprovato dalle scienze cognitive il fatto che la nostra mente si rasserena quando di fronte a sé trova elementi ordinati, non guidati da una casualità ma da uno schema, mentre siamo turbati quando veniamo posti di fronte ad una molteplicità priva di ordine o significato, sentendoci istintivamente spinti a rimettere ordine a quel caos.

Nietzsche aveva intuito perfettamente la questione quando scrisse: “Io amo colui che si vergogna quando il dado cade in modo favorevole a lui, e si chiede: ‘Sono forse un baro?’ giacché egli vuole andare a fondo.” La cosa fondamentale, nel lancio dei dadi, non è il risultato ma il gesto del lancio: chi punta l’attenzione sul risultato finale è facile alla manipolazione e all’inganno poiché perde il significato reale del gioco. Il nostro sguardo perde velocemente cognizione della mano che scuote i dadi, ma indugia lungamente sul risultato finale, qualunque esso sia. Lo sguardo viene presto distolto dal tintinnare sordo dei dadi nel palmo, ed anzi, spesso i giocatori incalzano il tiratore: “Sbrigati! Dai! Veloce, non perdere tempo!”, non solo per l’ansia di ottenere il finale di quella cerimonia, ma anche e soprattutto perché è nel gesto del mescolamento e del lancio che perdiamo realmente il controllo del mondo. Se c’è un dionisiaco, nel gioco dei dadi, esso sta non nel risultato finale, cristallizzazione apollinea e grafica di un processo anarchico, ma nel movimento che nasconde agli occhi degli osservatori l’evento della casualità, e nel gesto del lancio, quando ancora tutto è indeterminabile, celato, insignificante.

È un vero e proprio horror vacui quello che domina la nostra mente quando non sappiamo dare un significato ad un evento, quando ci diviene evidente che il caso domina i fenomeni che osserviamo e, dominandoli, li sottrae alla nostra possibilità di comprendere, pianificare e prevedere. L’oltraggio che il caso ci offre sta tutto lì: contraddice la necessità di prevedere quello che avverrà, costringendo ad affacciarci alla finestra dell’indeciso. Indeciso come il dadi che vengono mescolati, come il lancio non ancora terminato, come il transito da uno stato all’altro, come il momento di buio nel quale ancora le forme non sono sufficientemente distinte da poter dare loro un nome. Il caso è l’indeciso e l’indecidibile, e perciò stesso il non prevedibile, il non programmabile, il vivo e il magmatico.

La tragedia del razionalismo contemporaneo sta tutta lì, nell’accorgersi che il presupposto di considerare il caso come l’eccezione, considerare il mescolamento e il lancio dei dadi come il preludio del traguardo finale, ovvero il risultato che ha forma, che ha significato, che ha stabilità, è semplicemente una favola che ci siamo raccontati. Ma questa favola, come ogni favola che si rispetti, ha avuto conseguenze più che concrete sul mondo.

Essa si è tradotta nella geopolitica, con l’attività perpetrata dagli Stati Uniti, rappresentanti perfetti di un razionalismo apollineo che desidera preservare la forma, analizzare il risultato del tiro, quasi dimenticandosi del tintinnare e del lancio. Gli Stati Uniti d’America, nel loro ruolo di “ranger” del mondo, come se la loro azione potesse annullare il caso del lancio e preservare sempre lo stesso risultato, hanno vestito i panni dell’alchimista che, mescolando insieme migliaia di elementi diversi (ma dimenticando di annotare quali e in quale misura), pretende di ottenere l’oro in ogni procedimento, negando l’evidenza di aver ottenuto soltanto poltiglia.

Si è tradotta nell’etica, dove ci siamo convinti di poter valutare le conseguenze delle azioni come se fossero atti deliberati, quando nella realtà dei fatti, osservando il processo del lancio di dadi, dovremmo ammettere che ogni nostra azione è intrinsecamente legata alla complessità che la circonda, e su quella complessità abbiamo ben poca presa, per non dire quasi nessuna comprensione.

Ci siamo insomma convinti di poter dimenticare il processo stocastico, convincendoci che l’unica cosa che conta davvero, nel lancio dei dadi, sia l’ordine delle facce che essi mostreranno una volta calmato il dimenarsi e il rotolarsi. Questa è la tragedia del nostro tempo, la tragedia del controllo illusorio, il dramma di una visione miope della complessità, che si dimentica come il risultato finale sia di fatto soltanto un piccolo momento in cui un barlume di significato (prodotto dalla nostra cognizione e ovviamente non strutturato nell’evento reale) può darci un flebile conforto su ciò che sta prima e dopo, sopra e sotto, dentro e fuori a quei processi stocastici che sono il lancio dei dadi e lo svolgimento della storia universale.

Esisterà sempre uno scarto irriducibile tra l’evento del mondo e la nostra capacità di comprenderlo, di dargli un significato, semplicemente perché ciò che noi cerchiamo, nel lancio dei dadi, è qualcosa che non “è” il lancio dei dadi, ma solo una piccola e confortevole parte. E quando ci accorgiamo che quella parte è insignificante, in quel momento dobbiamo ammettere di dover cambiare direzione, nel tentativo di non soccombere.

La vera riscoperta di Nietzsche che attende questo secolo potrebbe aprire le strade ad un nuovo approccio, etico, scientifico e filosofico, sulla comprensione del mondo inteso come dominio del caso e non dell’ordine. Quella è, forse, la strada per una civiltà meno intrisa di horror vacui, meno impregnata del terrore di perdere un controllo che non ha mai avuto. Ma questo cambiamento deve partire dall’individuo.

Forse, la strada giusta è iniziare a lanciare i dadi, puntando l’attenzione sulle cose giuste e fottendosene del risultato.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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