THE LOSER TAKES IT ALL

FRANCO FERRANT
Confesso: mi piacciono gli ABBA. Quando mi capita di fare un’affermazione del genere di solito gli amici mi guardano con divertito compatimento.
E degli ABBA la canzone che sopra tutte amo è The Winner Takes It All, un po’ per l’incredibile intensità di Agneta e un po’ perché, come avevano ben capito i trovatori, calati in una realtà più dura e autentica della nostra, l’unico amore degno di essere cantato è l’amore infelice.
E, per arrivare al punto, la strofa di questa canzone che mi colpisce sempre come un colpo di frusta è:
The gods may throw a dice
Their minds as cold as ice
And someone way down here
Loses someone dear
L’istantanea di queste divinità gelide e, tutto sommato, inconsapevoli, con il bussolotto in mano, pronti a far deragliare vite, è alquanto disturbante.
Ognuno di noi ha sperimentato più volte il caso.
Se ripenso agli snodi cruciali della mia vita, nel male come nel bene, non c’è punto in cui il caso non abbia giocato un ruolo decisivo. La cosa singolare è che quegli eventi casuali il più delle volte avevano un tasso di probabilità ridottissimo.
La singola improbabile occorrenza, per quanto straniante, sarebbe di per sé poco significativa, se non fosse per la tendenza a concatenarsi di eventi tutti altamente improbabili, il cui prodotto dà un esito di probabilità tendente a zero.
Ma un amico mi spiega “se il caso è il caso ogni evento torna vergine indipendente da tutti quelli precedenti e staccato da tutti quelli futuri”. Sulla roulette il numero cinque potrebbe uscire senza scandalo un milione di volte consecutive dal momento che le leggi del caso non lo proibiscono.
Pur tuttavia la mia sensazione, proprio per la singolarità delle coincidenze intersecate, è sempre stata quella di essere un omino con un diamante verde in cima alla testa, manovrato da un giocatore di SIMS capriccioso e strafottente. Naturalmente questa sensazione potrebbe essere, in fondo, solo un meccanismo psicologico di difesa: in fin dei conti è più accettabile pensare di essere nelle mani di un burattinaio, per quanto zuzzurellone, che nel caos di occorrenze insensate, del tutto scoordinate tra loro.
D’altra parte è ovvio che qualcosa ci sfugge. Quella relazione lineare unidirezionale causa-effetto che funziona così bene nella nostra realtà quotidiana non regge ad un’indagine più accurata.
Pur rimanendo ancora nelle certezze della fisica classica le concatenazioni causa effetto hanno oggi perso gran parte del loro potere di ansiolitici epistemologici. Non forniscono più quelle comode stampelle di solido calcolo previsionale che ci danno l’illusione confortante di riuscire a controllare le nostre vite e il nostro ambiente. La teoria del caos, pur restando deterministica, con la sensibilità esponenziale dell’effetto farfalla, sbriciola qualsiasi velleità di prognosi accurata.
In direzione inversa, la appagante convinzione di poter retrocedere da effetto a causa e poi alla causa della causa della causa della causa, lungo la piramide, fino alla causa prima incausata, quella rassicurante favola filosofica che ha garantito millenni di sonni tranquilli non funziona più, dato che il percorso di ritorno non è una strada maestra ma un groviglio di ramificazioni.
Se poi, insoddisfatti della dimensione meschina del nostro quotidiano, facciamo, da profani curiosi, ad un nostro amico ricercatore qualche ingenua domanda sui massimi (o minimi sistemi), improvvisamente tutto si deforma. Ad uno sguardo più penetrante la realtà comincia a prendere un aspetto bizzarro. Si esce dal binario del certo e consequenziale e si entra nel dominio dell’indeterminato e del probabile, nel regno dei dadi, per così dire. Il tutto coerentemente e chiaramente (per chi lo conosce) spiegato in un linguaggio matematico che non lascia adito a dubbi.
Il problema nasce quando qualcuno tenta di tradurre in parole o immagini questo cristallino modello matematico.
A volte i fisici della nostra generazione escono dalla loro zona di conforto, fatta di leggiadre equazioni, in genere empiricamente validate (anche se per lo più nello spazio protetto di un laboratorio), per incontrare il mondo della strada.
Così, un po’ per filantropia nei confronti dell’uomo comune, e un po’ perché colgono il potenziale di gratificazione economica dei diritti d’autore, intrinseco in un libro illustrato, un video, un film, tentano di tradurre quel loro sistema formale, ostico ai più, in un’immagine plausibile della realtà.
Se hanno un background culturale modesto accadrà qualcosa di favoloso: il risultato sara un ammaliante salto nel paese delle meraviglie, una favoletta perfetta per un film hollywoodiano ad alto budget, campione d’incassi.
Fin qui è divertente; il vero problema nasce quando si allargano un po’ troppo, mirando ad un paradigma onnicomprensivo, semplificato, sostitutivo di ogni altra attività speculativa.
Siccome l’esito è ingenuo e fanciullesco persino a confronto della più banale argomentazione filosofica, la pretesa di bypassare le “vacue” indagini sui fondamenti è destinata ad uno scacco umiliante.
Oggi la filosofia, aggredita dalla supponenza tecnico-scientifica, è in ritirata e si è arroccata nel fortino dell’etica, rinunciando completamente alla gnoseologia. Ma anche esorcizzando definitivamente la metafisica è evidente che la ricerca scientifica, per quanto brillante, non può solipsisticamente autofondarsi, dato che un’abilità di questo genere è prerogativa esclusiva del barone di Münchhausen, che si libra in aria tirandosi su per la collottola.
Quando invece questi esploratori del cosmo abbiano alle spalle una formazione culturale appropriata ed un’elasticità mentale pari al loro genio settoriale, la faccenda si fa interessante.
I fisici della prima generazione della meccanica quantistica, quelli seri, che vantavano la tradizionale preparazione interdisciplinare di prim’ordine e non si erano ancora disseccati in uno specialismo riduttivo da tecnocrati, accettavano il fatto che in quello che stavano osservando si nascondesse un paradosso. E che evidentemente qualcosa di fondamentale sfuggisse loro.
“Se credete di aver capito la teoria dei quanti vuol dire che non l’avete capita” diceva Feynman.
Non credo sia casuale (sic!) che Pauli abbia intrecciato una fitta corrispondenza proprio con Jung, che in quegli stessi anni tentava di definire la sincronicità e di studiarne i risvolti psicologici.
O che lo stesso Pauli abbia dato goliardicamente nome a quel particolare bizzarro effetto per cui, in sua presenza, la strumentazione di laboratorio cominciava a sclerare, senza che si potesse trovare al fenomeno la minima spiegazione oggettiva. O che Bohr abbia scelto come stemma per l’onorificenza nobiliare conferitagli dalla corona danese il simbolo del Tao e della compenetrazione Yin-Yang. O che Heisenberg e Schrödinger siano giunti alla medesima conclusione, pur con sfumature diverse, che la spiegazione dei fenomeni vitali richieda una fisica completamente diversa da quella fin qui usata (teoria dei quanti compresa).
È veramente strano come il tentativo di tradurre il sistema coerente di equazioni dalla meccanica quantistica in un’immagine concreta e comunemente comprensibile della realtà porti, nei tentativi più riusciti ed intelligenti, ad una raffigurazione così simile a quella delle formule del Tao te ching o dell’Abhidamma o all’espressione enigmatica dei presocratici, aletheia contro doxa, il logos lucido degli svegli contro l’intorpidimento mentale dei dormienti, il potere magico della tetraktis, etc., tutti universi di discorso dell’era pretecnologica, risalenti a due millenni e mezzo fa.
Fritjof Capra scrive che da un certo punto in poi e in modo irreversibile non è più riuscito a vedere il mondo intorno a lui con gli occhi di prima: “all’improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica… vidi scendere dallo spazio esterno cascate di energia, nelle quali si creavano e si distruggevano particelle con ritmi pulsanti… ne percepii il ritmo e ne ‘sentii’ la musica: e in quel momento seppi che questa era la danza di Śiva.”
E nel mare dell’essere, nell’oceano delle probabilità, le coincidenze cominciano a giocare un ruolo cruciale.
Come se ci fosse un’interdipendenza che non riusciamo a vedere perché guardiamo le cose nella maniera sbagliata.
Il mistero dell’entanglement quantistico compromette anche la nozione comune di luogo dopo che la relatività ha compromesso definitivamente quella di tempo.
Forse è questa interdipendenza che tentavano di sondare gli officianti taoisti. Quando manipolavano i loro steli di millefoglie per consultare l’I Ching non compivano un gesto liturgico ma miravano a cogliere il senso di una coincidenza, la forma di un istante.
Operazione forse velleitaria ma di sicuro non semplice superstizione.
La conclusione paradossale a cui può giungere un osservatore non specialista è che il caso non è casuale, vale a dire che c’è una rete sotterranea (mi rendo conto dell’inadeguatezza del termine, lo si prenda in senso metaforico) alle radici della realtà, che si sottrae non solo all’osservazione ma alla comprensione tout court.
Se poi trasferiamo questo senso di smarrimento dal mondo delle cose a quello della vita l’inquietudine diventa eccitazione.
Alla definizione della nostra minuscola dimensione umana e del nostro irrisorio destino concorrono linee di energia ctonia di cui siamo solo vagamente consapevoli.
Non credo che necessariamente si debba ricorrere al creazionismo o al dio di Einstein, che non gioca a dadi, o alla nozione ellenica di fato ineluttabile, ma riconoscere l’interdipendenza e la solidarietà degli eventi ci fa sentire meno superflui.
È come se tutto congiurasse a farti fare una certa cosa, a creare una certa situazione, a spingere gli eventi in una certa direzione. E tu stesso, anche senza esserne completamente consapevole, fai parte di questa congiura. Non si tratta solo dell’inconscio freudiano, così limitato in fondo, così episodico e personale, la nostra piccola storia problematica di pulsioni rimosse, come se fossimo davvero solo un desiderio originale censurato, spostato e travestito.
Penso al bombardamento cosmico che ci attraversa continuamente, mentre continuiamo a coltivare l’illusione che la nostra pelle sia davvero un confine tra Noi e il Resto.
Penso al DNA nella sua complessità solo in parte decifrata dai presuntuosi neo-contadini nanotecnologici che nel DNA instaurano innesti, potano rami, bonificano foglie, avendo solo minimamente coscienza di ciò che stanno facendo.
Penso a tutte quelle percezioni che avvengono al di là dei cinque sensi canonici, che un certo dogmatismo postula come unica porta tra noi e la cosa in sé.
Un dogmatismo che però non distoglie i centri di potere a superfinanziare, per ragioni strategiche, intere aree di ricerca destinate a studiare metodicamente queste “fanfaronate”.
Credo che ogni discorso sul caso implichi inevitabilmente il discorso sulla necessità.
I due concetti sono stati costantemente collegati, in particolare da una certa biologia deterministica, che però ha lasciato irrisolta la contraddizione di fondo. I fenomeni sono o necessari o casuali: non possono essere entrambe le cose.
L’aporia si evidenzia abbastanza chiaramente in genetica, almeno nelle teorie dominanti in questo momento storico.
La replicazione del DNA nella riproduzione è necessaria. Le variazioni sono del tutto casuali. Se una variazione si rivela favorevole la sua replicazione diventa a sua volta necessaria. Il tutto governato da una selezione competitiva che a prima vista sembra ovvia ma che collassa in un finalismo senza un fine, e che in questi ultimi tempi qualcuno ha addirittura spostato dagli individui al singolo gene. Questo avido egoista che ha come suo unico obiettivo quello di replicarsi, con una direzione ben definita, ma, naturalmente, senza uno scopo ultimo o un senso preciso.
Un concetto ben singolare di evoluzione.
Fino a qualche anno fa se, a un congresso di biologia, a qualche giovane stagista sprovveduto fosse scappata di bocca un’allusione di sguincio a Lamarck, il poveretto sarebbe stato oggetto di lazzi e risate. Oggi nemmeno i darwinisti più fanatici sono pronti ad immolarsi in difesa della tesi dell’assoluta casualità delle varianti genetiche che si riveleranno favorevoli e forse il cammino dell’epigenetica prepara un tempo in cui qualcuno descriverà un Lamarck più vicino alla verità di Darwin.
Il quadro abbozza un’influenza reciproca tra i viventi e l’ambiente e in generale tra l’animato e l’inanimato che non postula gerarchie.
“Se non c’è nessun senso ci risparmiamo un mondo di fastidi, perché non abbiamo nessun bisogno di trovarcene uno.” dice il re di cuori ad Alice ed io sono d’accordo con lui. Ma almeno coerentemente risparmiamoci le pippe su questa idolatria laica dei fenomeni necessari e casuali. L’ipotesi più suggestiva è che non siano né l’uno né l’altro.
Nel piccolo dell’esistenza umana la necessità biologica di replicazione si configura come istinto sessuale: a seconda delle contingenze (casuali) opera con maggior o minor successo.
In quest’ottica l’individuo conta poco. Conta solo la funzione, attivata dall’astuzia della natura.
Forse per questo i latini sentenziavano “Omne animal post coitum triste”. È come la sensazione subliminale di superfluità, assolto il compito, del soggetto rimasto indietro, occultato dalla programmazione, che anticipa il senso della propria morte. E forse qualcosa di analogo si attiva anche nella depressione post partum.
È la disillusione di solitudini che non si sono potute colmare. Co-ire non è quasi mai un vero superamento del proprio recinto; la sensazione è quella di essere fregati dal burattinaio.
Ma l’animale uomo un passo in più l’ha fatto. Nel suo percorso ha liberato il sesso dalla sua condizione di necessità fisiologica, non più confinabile alla pura e semplice funzione riproduttiva e, dall’altro lato, ha ipotizzato l’astinenza non come repressione ma come scelta.
Nel momento in cui il sesso non è condizionamento ma scelta indipendente, può liberare tutto il suo potenziale energetico e diventare varco privilegiato, insieme collegamento con l’oltre sé e possibilità di vibrazione all’unisono con l’altro da sè.
L’orgasmo non mi ha mai reso triste e men che meno appagato. La tensione è sempre verso l’al di là, verso la natura inesausta del desiderio, con le sue forme molteplici e cangianti, anche quelle ormai lontane dalla programmazione biologica, quella che un fraintendimento monomaniaco ha una volta definito sublimazione.
È una sensazione magnifica di full immersion e l’avventura di avvolgersi senza preconcetti e irrigidimenti nella rete a cui apparteniamo, che ci forma e a cui diamo forma, consci che il regno del caso è non solo il regno delle probabilità ma anche quello delle possibilità
Se è vero che gran parte di quello che ti determina avviene in tua assenza, o almeno sotto la soglia di un tuo effettivo controllo, è anche vero che non puoi spostare un granello di sabbia sulla spiaggia senza modificare in toto la forma dell’universo.
Ne deriva che la responsabilità che ricade su ognuno di noi, nella sua insignificanza di cane di paglia, è enorme. Ogni nostra mossa può risultare decisiva, e non solo per noi.
Il che fa di ogni esistenza marginale un uomo del destino e spiega il fascino che l’azzardo, puro o combinato con la sopravvalutazione di sé, continua ad avere anche nella comoda e ovattata esistenza borghese del primo mondo.
Nelle società aristocratiche e nelle elite militari il gioco d’azzardo era la continuazione in tempo di pace di quella precarietà assoluta tipica del campo di battaglia, quando ancora non era impossibile, come oggi, trovare un re nelle prime file del suo schieramento. Un sentimento, così lontano dall’aplomb piccolo borghese “deferential, glad to be of use, politic, cautious and meticolous” di Prufrock e di tutti noi, che l’aristocrazia europea si è portata dietro anche nella sua decadenza e che è sopravvissuto sui tavoli da gioco dei salotti rococò. Rimanevo affascinato da ragazzo quando, immerso in un romanzo russo, vedevo davanti a me qualcuno mettere sul piatto di una mano di carte o di un solo colpo di dadi tutto il suo patrimonio, il suo onore, la sia vita. Oggi uno spirito analogo si ritrova nei climbers estremi, nel wingsuit, nelle passeggiate sul filo teso su un qualche orrido dolomitico
Ma ormai ridotto per lo più a esibizionismo, senza quell’alone romantico che ormai sopravvive soltanto nelle varianti più zuccherose. Come ad esempio guardare Serendipity in atmosfera natalizia, accanto all’albero.
Consci più che mai, però, che la vita è un gioco truccato. E che il banco vince sempre.
Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA MUSICA Senza categoria endoxa gennaio 2019 FILOSOFIA franco ferrant MUSICA pop