ESCLUSIONE E INCLUSIONE ALLA LUCE DEL PARADIGMA RIPARATIVO

Comunita-1_600x_39464ce77002fa32fcb4063e5281c05bGIOVANNI GRANDI

Esclusione e inclusione: opposizione e asimmetria

Esclusione e inclusione sono indubbiamente due processi di segno opposto ma non vanno pensati come due possibilità speculari a cui ogni comunità può guardare a partire da una ipotetica posizione di equilibrio: si tratta infatti di movimenti correlati e più precisamente caratterizzati dal fatto di essere il primo, l’inclusione, una risposta di tipo morale al secondo, l’esclusione. Questa correlazione è uno dei tanti riflessi del rapporto tra il positivo e il negativo o – qui più precisamente – tra il bene e il male, messo a fuoco dalla tradizione del pensiero occidentale: un rapporto che non va concepito come quello tra due “volumi”, tra due “pieni” speculari, ma come quello tra il pieno e il vuoto, tra la completezza e la mancanza.

Questa asimmetria, riconosciuta in vario modo dalla speculazione teorica, rispecchia del resto un tratto dell’esperienza comune facilmente ravvisabile: per quanto rimanga senz’altro vero che il pensiero filosofico sorga dalla meraviglia e quindi in un certo senso dalla considerazione del bene e del bello, è facile osservare che viceversa la riflessività ordinaria si attivi piuttosto a contatto con il male e con la privazione, quando – si direbbe colloquialmente – “qualcosa va storto”. Il bene lo diamo per scontato, lo percepiamo come il “pieno” che semplicemente dovrebbe esserci e anche per questo genera minore riflessività. Viceversa, il male stride, lo avvertiamo come un “fuori posto” e anche per questo attiva più rapidamente il pensiero e la ricerca di mosse o strategie per rimediare e “rimettere le cose a posto”.

A partire dall’esclusione

Perché sorga una riflessione sull’inclusione e, successivamente, l’elaborazione di qualche strategia per realizzarla, occorre dunque passare attraverso l’esperienza dell’esclusione e della protesta da parte di alcuni per essere stati (o per rimanere ancora) privati di qualcosa che percepiscono come dovuto. In questo senso l’esclusione è una delle forme del male, che si presenta anzitutto come un vissuto di privazione, e che – dove matura una più precisa consapevolezza – sfocia in una corrispondente richiesta di restituzione e di riparazione del torto rivolta alla comunità.

L’esclusione rientra così tra le esperienze di ingiustizia e – sempre come vissuto soggettivo – intercetta quel particolare asse della giustizia che nel quadro della riflessione morale più classica veniva qualificata come “distributiva”, riguardando cioè quel flusso di “beni” che la comunità restituisce al singolo attingendo al paniere comune. Sentirsi esclusi è percepire (e/o constatare) che qualcosa che ci sarebbe dovuto in quanto membri di una comunità non ci viene attribuito: in questo senso anche una ingiustizia magari di poco conto subìta sul piano delle risorse materiali porta sempre con sé un’eco più profonda di tipo sociale e relazionale, “risuona”, potremmo dire, come un segnale di mancato riconoscimento di uguaglianza, di appartenenza a pieno titolo, di dignità.

La comunità tra esclusione e inclusione

Esclusione e inclusione possono dunque essere pensate nella loro correlazione solo in riferimento a una comunità, che andrebbe individuata concretamente di volta in volta: si può in effetti richiedere inclusione solo alla comunità da cui ci si percepisce esclusi.

Potremmo anche osservare che inclusione ed esclusione non si direbbero essere processi immediatamente riferibili alle relazioni private, non intercettano – sempre per ricorrere ai concetti più classici – la dimensione “commutativa” della giustizia: per essere esclusi da qualcosa occorre insomma avere come interlocutori “altri” che costituiscano un gruppo depositario di qualche “bene comune”. Il mancato rispetto degli accordi di un contratto di lavoro è ad esempio una forma di ingiustizia, ma non già una forma di esclusione. Se le parti non trovano una via privata di composizione possono naturalmente coinvolgere la comunità di cui fanno parte, ma dovremmo osservare che quest’ultima entra allora in gioco come garante non dello specifico accordo lavorativo, ma di principi più generali, come quello del rispetto dei patti o del giusto compenso o della sicurezza dei lavoratori: questi potrebbero essere alcuni volti del “bene comune” che la comunità tutela a favore dei suoi membri. I vissuti di esclusione che non di rado accompagnano le stesse vertenze lavorative non riguardano infatti lo specifico delle ingiustizie contestate tra le parti, ma il fatto che gli uni o gli altri percepiscano che la comunità non abbia dato ascolto alla protesta di ingiustizia: il rimprovero di “assenza dello Stato” – sempre per ricorrere al lessico ordinario – segnala una ferita più profonda del sofferto legato ai fatti specifici, una ferita che è appunto il percepirsi come esclusi da quelle attenzioni che dovrebbero essere rivolte a tutti i membri di una comunità che si raccoglie attorno a un bene comune.

Inclusione e Riconoscimento

Essere inclusi o re-inclusi – cioè vedere esplicitata o riaffermata la propria piena appartenenza alla comunità – è sempre in radice una questione di riconoscimento da parte della comunità della dignità di chi si è sentito ed è stato (le due cose non necessariamente coincidono) vittima di qualche forma di ingiustizia, o direttamente lungo l’asse della giustizia distributiva o in modo derivato, a partire da torti occorsi nelle relazioni private poi portati all’attenzione della comunità.

Se questo tracciato di massima ha una sua consistenza, la domanda che possiamo farci è quale tipo di paradigma di giustizia sia in grado di mantenere sempre in vista la questione del riconoscimento della dignità delle vittime: detto altrimenti, quale modello di giustizia riesce a intercettare i vissuti profondi di esclusione mettendo in atto processi di inclusione o reinclusione nella comunità?

Questo tipo di dibattito è tutt’altro che accademico, se pensiamo che gli ordinamenti internazionali stanno progressivamente sviluppando un’attenzione per le vittime di ingiustizia sconosciuta ai tradizionali sistemi penali, per lo più concentrati sugli autori di reato. A livello europeo costituisce una pietra miliare la direttiva 2012/29/UE “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, che ha contribuito significativamente a innescare un processo di ripensamenti nel campo della giustizia penale, sollevando appunto interrogativi sui modelli a disposizione.

Un modello particolarmente interessante, che rappresenta più estesamente un paradigma culturale nella presa in carico di fatti e vissuti di ingiustizia, è quello della Restorative Justice o Giustizia Riparativa. Si tratta di un approccio che intercetta in modo radicale proprio la questione esclusione-inclusione e che merita di essere preso in considerazione sotto questa angolatura.

La Restorative Justice

La Restorative Justice ha raccolto e sta raccogliendo crescente consenso nel dibattito internazionale solo in tempi recenti: da parte delle Nazioni Unite è disponibile un testo introduttivo di riferimento appena dal 2006, l’Handbook on Restorative Justice Programmes. Per quanto l’approccio “riparativo” ai fatti di ingiustizia sia presente e praticato fin dall’antichità in molte culture, gli studi contemporanei si sono in effetti sviluppati a partire dagli anni Settanta del Novecento, trovando quindi un punto di riferimento nelle ricapitolazioni teoriche di Howard Zehr, il primo ad aver esplicitamente proposto nel 1985 di individuare un “restorative paradigm” in alternativa ad un “retributive paradigm” quanto alle modalità del fare giustizia o, come appunto usa scrivere lo stesso Zehr ricorrendo al lessico ordinario, nel “mettere le cose a posto” (put things right).

Nella sintesi di Howard Zehr l’approccio “retributivo” ai fatti di ingiustizia si condensa in tre interrogativi caratterizzanti: quali sono le leggi infrante, chi è il colpevole dell’infrazione, qual è la sanzione da comminare al colpevole. Il senso della retribuzione qui è chiaro e rispecchia uno dei significati tradizionali della “pena”, che nella prospettiva ricapitolata da Grozio nel De iure belli ac pacis si definisce come “malum passionis quod infligitur ob malum actionis”: a chi ha fatto del male viene inflitto del male, a chi ha privato qualcuno di qualcosa viene inflitta una privazione, che eminentemente diventa la privazione della libertà. Il problema principale di questa prospettiva è il cosiddetto reocentrismo: tutta l’attenzione si concentra sul responsabile, mentre la vittima esce di scena e la comunità partecipa di fatto solo nominalmente al fare giustizia: nessuna relazione comunitaria reale viene attivata, in campo rimangono l’autore di reato e lo Stato, che dispone i modi e i tempi dell’esecuzione penale.

Questo approccio rimane anzitutto prigioniero del negativo: la risposta alla privazione è infatti una nuova privazione. Nella vita delle vittime le cose non “vanno a posto” per il semplice fatto che ad un certo punto, per mano dello Stato, qualcosa “va male” anche nella vita degli offensori: questa equivalenza è falsa dal punto di vista antropologico e il male a nessun titolo riesce a dare la soddisfazione attesa. Il perché questo bilanciamento non avvenga si intende più chiaramente proprio considerando la coppia esclusione-inclusione.

Chi è vittima di ingiustizia nel senso considerato sopra, cioè chi avverte di essere stato privato di qualcosa che è del rango del bene comune e non solo dei beni privati, patisce un vissuto di esclusione: avverte che è venuta meno l’attenzione della comunità, si sente vulnerato, insicuro, marginalizzato, colpito nella propria dignità. Questo genere di vissuti non possono venir risanati dal fatto che i responsabili siano, a loro volta, precipitati nella dinamica dell’esclusione dalla comunità, cioè avviati lungo un percorso in cui i tratti caratterizzanti saranno privazione e marginalizzazione. Il raddoppio dell’esclusione non genera alcuna inclusione, non ripara cioè quel che è andato infranto per la vittima in termini di attenzione da parte della comunità, di riaffermazione della dignità, di riscatto dalla posizione di passività di chi ha subìto un torto.

Howard Zehr suggerisce che un approccio diverso possa essere tentato modificando le domande-guida, ovvero, di fronte ai vissuti di ingiustizia, chiedendosi: chi è stato colpito? Quali sono i suoi bisogni? Quali impegni sorgono e per chi? Questo tracciato sposta l’attenzione sulla vittima con alcuni accenti particolari.

Anzitutto occorre riconoscere tutto lo spettro dei bisogni di chi è stato colpito: Zehr sottolinea le vittime hanno bisogno di veder riconosciuta la loro sofferenza e che quel che è accaduto non sarebbe dovuto succedere. Come dire: anche nel caso in cui tra noi ci fossero divergenze, in questa comunità a cui apparteniamo e che ci riconosce, certi gesti e comportamenti non sono ammessi, neppure come via di risoluzione delle controversie perché ledono la dignità delle persone. Questi riconoscimenti – ed è la domanda su quali siano gli impegni sorti dai fatti di ingiustizia – devono arrivare a chi è stato colpito in primis da parte di chi ha offeso: i percorsi di giustizia riparativa vedono in questo uno snodo di primaria importanza. Chi ha violato la dignità di un altro è come se trattenesse quella dignità prigioniera presso di sé, e spetta a lui liberarla restituendola. Su questa restituzione morale si innestano anche gli altri gesti di restituzione possibili (non tutto, evidentemente, si può ripristinare sicut ante), che impegnano chi ha compiuto il male e la comunità tutta in percorsi che realizzino del bene in favore di chi ha subito il torto. Nella prospettiva riparativa ci sono cioè degli impegni – obligations nel lessico originale – che hanno precisamente lo scopo di coinvolgere tanto i responsabili o autori di reato, quanto la comunità a cui questi e le vittime appartengono, in percorsi che mirano a risanare il vissuto di esclusione delle vittime attraverso un impegno comune e stringente di reinclusione.

È importante evidenziare che il paradigma riparativo, contrastando il ricorso alla logica sanzionatoria a carico degli offensori, non offre a questi né una giustificazione per il male compiuto, né una sorta di scappatoia a poco prezzo dalle responsabilità: al contrario chiede una presa di coscienza non formale ma sostanziale del male compiuto, propone percorsi per sentire il peso che quel male ha introdotto nella vita delle vittime, fino a veder maturare l’esigenza interiore di porvi rimedio nei modi possibili. Agli offensori viene cioè proposto qualcosa di molto impegnativo, e cioè di farsi parte attiva di un processo di reinclusione, che non si risolve in restituzioni di tipo materiale – che pure occorre avvengano – ma si espande a restituzioni di ordine morale e a un rinnovato riconoscimento della dignità dell’altro, nel contesto della comunità reale (e non solo formale) in cui le persone vivono.

L’approccio riparativo e la proposta della Restorative Justice vanno ben oltre i cenni essenziali che qui era consentito proporre e naturalmente gli studi specifici sono anche ben avvertiti delle criticità e dei limiti della loro applicazione. Tuttavia questo paradigma di giustizia è sembrato particolarmente adatto proprio per considerare il rapporto tra esclusione e inclusione tenendo conto dell’asimmetria tra il bene e il male, tra il “pieno” e il “vuoto”, dell’importanza che delle comunità reali e, in definitiva, della necessità di elaborare strategie di inclusione che sappiano intercettare soprattutto i livelli profondi di compromissione dell’umano che potenzialmente tutti i vissuti di ingiustizia possono raggiungere.

Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA POLITICA

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