LA FINZIONE DELLA VERITÀ E IL SUO DISPOTISMO
FABIO CIARAMELLI
“La verità è una, l’errore è molteplice. Non a caso la destra è pluralista”. Questa frase – o forse meglio: quest’aforisma – poteva leggersi su Les temps modernes, la rivista di sinistra fondata e diretta da Jean-Paul Sartre, e costituiva la conclusione d’un articolo di Simone de Beauvoir, apparso a metà degli anni Cinquanta, cioè nell’epoca d’oro del matrimonio tra esistenzialismo e marxismo. Eppure la prima affermazione dell’aforisma – secondo cui la verità è una, l’errore è molteplice – costituisce un filo conduttore della tradizione filosofica, potremmo dire della hybris speculativa della tradizione filosofica, condivisa equamente dal tradizionalismo e dal pensiero rivoluzionario, entrambi perciò fieramente avversi al pluralismo perché convinti di avere accesso diretto – ed esclusivo – all’unica verità. Ho citato un’esponente della sinistra. Ma anche la destra non è da meno. Il papa Gregorio XVI nell’enciclica Mirari vos del 1832 definiva “delirio” (deliramentum) la libertà di coscienza rivendicata dal liberalismo, e il pensiero cattolico maggioritario, più o meno fino agli anni Sessanta del Novecento, cioè fino al Concilio Vaticano II, s’opponeva alla libertà religiosa e in generale ai diritti umani (droits de l’homme) in nome dei “diritti della verità” che i primi avrebbero minacciati (continua ad opporvisi il tradizionalismo cattolico che vede nel Vaticano II un tradimento dei principi fondamentali del cattolicesimo).
L’accanito rifiuto del pluralismo, fatto proprio tanto dal pensiero tradizionalista quanto da quello rivoluzionario, si basa dunque su una vera e propria “tirannia del vero” (l’espressione è di Hannah Arendt), attraverso la quale il potere costrittivo (che però si ritiene non coercitivo) dell’unica verità universale e necessaria pretende d’imporsi come un’evidenza logica, coinvolgendo e reclamando l’adesione spontanea di ciascuno. In questa pretesa, che fa discendere deduttivamente una ed una sola corretta conseguenza pratico-politica dal possesso della verità evidente, consiste una delle più illusorie e pericolose declinazioni della hybris filosofica mirante a effettuare la reductio ad unum, cioè la totalizzazione della pluralità umana.
Di fronte alla (presunta) evidenza razionale della totalità di cui ogni singolo individuo sarebbe solo un momento parziale, unilaterale e transitorio, la sua volontà empirica sembra non aver altro da fare che subordinarsi alla totalità, perdendo così la propria unicità. In tal modo, la finzione dispotica di un’unica verità universale e oggettiva rende impossibile la pluralità umana, facendone la semplice moltiplicazione numerica di entità identiche.
La salvaguardia della pluralità comporta la demistificazione della finzione della verità e del suo dispotismo che si ripercuote nella pretesa identitaria dell’evidenza solitaria. In realtà, le relazioni sociali che resistono all’omologazione della totalità, sono quelle nelle quali il desiderio soggettivo diventa, secondo una formula di Lacan, “desiderio avveduto [désir averti]”, cioè desiderio che sa di non poter “desiderare l’impossibile”. Perciò esse presuppongono il lutto di ogni totalità e pienezza originaria, di ogni universalità e unanimismo, di ogni coincidenza immediata dello spazio dell’essere e di quello del senso o del significato.
Al superamento della loro illusoria coincidenza invita implicitamente Hannah Arendt quando, nell’Introduzione a La vita della mente, afferma quanto segue: “Verità e significato (meaning) non sono la stessa cosa. L’errore di fondo, anteriore a tutte le fallacie metafisiche specifiche, consiste nell’interpretare il significato secondo il modello della verità”.
In questa prospettiva, l’autentico oggetto della psiche, cioè la più propria aspirazione del desiderio umano, non è l’essere o la verità, ma il senso o significato. Quest’ultimo, però, non può mai darsi leibhaft, in carne e ossa, in originale. Ciò verso cui si dirige l’eros filosofico non è un qualcosa che possa porsi di fronte alla psiche come un oggetto e che le sia possibile esperire e far proprio, inglobandolo e assimilandolo, godendone la presenza. In questa irriducibilità del senso alla frontalità dello sguardo capace di intuire e assimilare le cose, sta lo specifico del desiderio, l’inevitabile transizione dalla vita pura e semplice alla vita propriamente umana, caratterizzata dalla responsabilità di istituire l’ordine dei significati.
Ciò che la psiche rifugge è esattamente l’assenza d’un radicamento del senso nel darsi immediato del reale. La fatica del lutto è proprio l’attraversamento di questo territorio angosciante. Ma senza l’angoscia di questa perdita originaria, che paradossalmente precede il possesso di ciò che a cose fatte si rivelerà irrimediabilmente perduto e giammai posseduto, non c’è desiderio, non c’è movimento vitale della psiche, non c’è possibilità d’un suo possibile coinvolgimento nella costruzione d’un progetto di soggettività. La finzione di un’unica verità universale e necessaria, il suo dispotismo, la sua tirannia soffocano la vita del desiderio. Ecco perché una totalità di individualità simultaneamente centrate tutte sull’intuizione immediata dell’unità originaria, quand’anche costituisse il trionfo della verità, apparirebbe tuttavia radicalmente sprovvista di senso.
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