MITOLOGIA DEL LINGUAGGIO: L’INFANZIA, L’ALTRO, IL SIGNIFICATO
SILVIA D’AUTILIA
E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sè, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!
(L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore)
1. Dagli studi di psicologia dello sviluppo alle più recenti ricerche sulla linguistica computazionale, quella del linguaggio è una materia che non accenna a smettere di esercitare fascino e interesse.
Se due autorevoli psicologi come Jean Piaget e Lev Semënovič Vygotskij insegnano che è l’infanzia il momento migliore per comprendere le dinamiche formative di questa abilità cognitivo-relazionale eminentemente umana, è pur vero che la sua affinazione continua lungo tutto l’arco della vita, declinandosi in esperienze semiotiche in continua evoluzione. Partiamo con delle brevissime premesse introduttive.
Piaget ritiene che, nello sviluppo cognitivo della prima infanzia (dai 18 mesi in avanti), la facoltà linguistica si formerebbe successivamente a quella del pensiero: entrambe inizialmente avrebbero un mero carattere egocentrico, in quanto solo a partire dall’età scolare il bambino inizia a comprendere l’esistenza dei diversi punti di vista, vivendo l’interazione come confronto.
Seppur coevo di Piaget, Vygotskij considera invece il linguaggio così correlato al pensiero da trasformarlo e intervenire sensibilmente nel suo sviluppo: solo successivamente le due funzioni si fanno indipendenti e ben distinte l’una dall’altra. La cosiddetta “fase egocentrica” che Piaget descrive come esclusiva dei primissimi anni, per Vygotskij è simultanea e complementare a quella “socializzante”: solo col passare degli anni il bambino impara a particolarizzare il linguaggio egocentrico, trasformandolo in linguaggio interiore.
Se dunque per Piaget l’iniziale egocentrismo si trasforma progressivamente sino a divenire socialità, per Vygotskij la mente umana, per sua natura sociale e interattiva, attraversa il momento egocentrico nella socialità continua e costante.
Malgrado le differenze, per entrambi gli autori due sono i punti fermi. Primo: il linguaggio è uno snodo fondamentale per il successivo sviluppo cognitivo e relazionale. Secondo: il linguaggio è così connesso al pensiero, da ricalcarne la funzione rappresentazionale: ne sia una riprova la simbolica espressività ludica dei bambini esplicitata nel “fingere di…” o nel giocare a rivestire un ruolo.
Fin dall’infanzia, il linguaggio si costituisce come una simulazione mentale di quello che accade esteriormente, al fine di produrre un suono espressivo che faccia da ponte per raggiungere l’altro e per dare vita a una ricostruzione denominativa del mondo.
Ebbene, a partire da queste basi, intento del presente testo sarà proporre le riflessioni di alcuni studiosi sul tema, facendole convergere in modalità diverse nel topos dell’esistenza. Nel ‘900, in un crocevia interdisciplinare in cui ragionano sull’argomento psicoanalisi, ermeneutica, filosofia della mente, scienze cognitive, fenomenologia ed esistenzialismo, il linguaggio giunge ad essere addirittura elevato a condizione di ontologia del mondo. È il caso del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, primo autore di cui ci occuperemo.
2. Uscito nel 1921, il Tractatus non è solo l’opera fondamentale di Wittgenstein, ma anche uno dei testi di maggiore spessore filosofico del ‘900. Intento dell’autore è quello di creare un distinguo chiaro tra cosa il linguaggio riesce a dire sulla realtà e cosa invece no: a fungere da fattore dirimente il riscontro empirico e materiale. Per esempio, a parole io posso certamente dire: “A e non A” (sostituibile con “piove e non piove”), ma una tale espressione resta reale solo sul piano della parola; al contrario, nel confronto con la realtà si nullifica. L’esperienza pratica infatti insegna che le due situazioni meteorologiche non possono essere concomitanti. Dunque, mentre il linguaggio scollegato dalla realtà, potrebbe avere anche solo funzioni analitiche, cioè non confermate dall’esperienza, nel linguaggio riferito alla realtà la prima regola è l’attinenza empirica. In questa seconda veste il linguaggio deve rappresentare così fedelmente la realtà da poterlo considerare l’orizzonte del nostro stesso mondo. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” afferma Wittgenstein, delineando una postura ontologica ben precisa: lo stare al mondo del soggetto si dispiega come linguaggio e attraverso il linguaggio; qualsiasi fenomeno che esuli dalla trasferibilità linguistica non ha alcuna valenza ontologica.
Quando Wittgenstein parla di “mondo” si riferisce a un concatenarsi di fatti o stati di cose, che possono trovare immagine nel pensiero. “L’immagine logica dei fatti è il pensiero”. Tuttavia, perché il pensiero operi correttamente è necessario che sia costituito come una proposizione dotata di senso, (per rievocare le riflessioni di Piaget e Vygotskij), ovvero che abbia una funzione veritativa rispetto al mondo esterno. Ne consegue che l’alternativa a tutto quanto non è elaborabile come linguaggio di logica e senso compiuto è il silenzio. “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
Dovremmo dunque concludere che esiste solo tutto quanto è parola? Il filosofo austriaco, ben conscio della critica cui poteva andare incontro l’esasperazione del suo pensiero, alza le mani nei confronti dell’etica e del mistico. Esistono situazioni che, contrariamente a quanto fin qui asserito, rivendicano un preciso diritto di realtà, sebbene non ne sia possibile una fedele trasposizione linguistica. È il caso dei sentimenti, degli stati d’animo o di particolari vissuti. Di fronte a questi fenomeni – e si è scelto il termine “fenomeni” appositamente per distinguerli dai “fatti” che per Wittgenstein costituiscono il “mondo” -, la parola si fa immediatamente personale e peculiare: non è più il mondo, ma il mio mondo. Il linguaggio arranca nella sua funzione di segno e diviene irriducibile la sua valenza logico-scientifica: le sue strutture interne vanno reinventate. Il “mistico”, così come citato dallo stesso Wittgenstein, è linguaggio che non si lascia significare dal linguaggio. Un’espressività ineffabile che non mostra altro se non sé. Un limite? Tutt’altro: la parte più importante della vita che sfugge al logos e alla sua rigidità.
3. 1927, Halle, Germania. Viene alle stampe Sein und Zeit, (Essere e tempo) di Martin Heidegger.
Allievo di Husserl, Heidegger mette a punto una riflessione sull’essere, ovvero sulla sua presenza nel mondo (esserci). È in relazione a questo assunto fondamentale che per Heidegger l’esperienza linguistica, con la sua trama di significati, non può essere disgiunta dal peculiare contesto esistenziale in cui il soggetto si trova. Alla base del linguaggio troviamo infatti il discorso, la cui articolazione è, per dirla con le parole dell’autore, sempre “emotivamente situata”, ovvero dipendente dall’essere-nel-mondo (Dasein) del soggetto.
Lo stretto legame tra esistenza e linguaggio è altresì sottolineato nel testo Fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty. Siamo in Francia, nel 1945, e scopo fondamentale dell’opera è quello di mettere in luce l’incompletezza della fenomenologia, soprattutto nei termini del problematico rapporto tra coscienza e mondo, così come fino a quel momento pensata dalla scuola husserliana. Se nel processo gnoseologico bisogna anzitutto mettere tra parentesi il mondo per far risaltare prioritariamente la coscienza che può comprendere quel mondo, occorre individuare tra queste due fasi un collante direttamente riferito all’esistenza del soggetto conoscente. È questo il valore imprescindibile che Merleau-Ponty attribuisce alla percezione, non correlandola ai sensi e alla conoscenza sensibile, come avevano fatto ad esempio gli illuministi, ma alla relazione stessa col mondo. L’inversione di tendenza a discapito del primato della coscienza cartesiana e della tradizione filosofica successiva è evidente. Tutto ciò che per Cartesio dipende dall’autocoscienza pensante, per Merleau-Ponty coincide col dispiegamento esperienziale del corpo nel mondo. Il concetto di “esperienza vissuta” è ciò che per il filosofo francese viene prima di qualsiasi fenomeno gnoseologico e cognitivo: quello che so del mondo è quello che ho vissuto del mondo. Non possiamo fare del mondo l’oggetto del nostro dubitare, giacché esso è sempre lì, anche a prescindere da noi e dal nostro pensiero.
Il realismo estetico di Merleau-Ponty è così dirompente nella tradizione del cogito che potremmo porre la questione in questi termini: perché domandarci se percepiamo un mondo e non curarci invece del fatto che il mondo è esattamente sovrapponibile alla nostra percezione?
Gli esiti che una tale riflessione filosofica sortisce hanno molta rilevanza anche sui concetti di intenzionalità e linguaggio. Se Husserl aveva detto che la coscienza, attraverso appunto l’intenzionalità, è sempre coscienza di qualcosa, occorre a questo punto fare un distinguo tra l’oggetto dell’intenzionalità in quanto tale e l’oggetto dell’intenzionalità legato al vissuto particolare della percezione. Dire che “fuori dalla finestra esiste un albero” non coincide col dire che “per me fuori dalla finestra esiste un albero”: potrebbe infatti darsi che la particolare posizione della mia stanza non mi permetta di vedere l’albero una volta affacciatami alla finestra. E si può andare oltre: poniamo che per cause personali io sia rassegnato a non uscire di casa, non avrò mai esperienza di quell’albero. In questo senso diviene nullo il mio vissuto estetico dell’albero. Il mondo di cui posso dire e di cui posso dire di sapere è il mondo così come vissuto e percepito. Ecco perché, nelle trame della fenomenologia della percezione, il vero, sia ontologico che linguistico, dipende strettamente dalla mia esperienza del vero. A far sì che il linguaggio operi volendo sempre significare qualcosa, è necessario -spiega Merleau-Ponty- che esso sia imprescindibilmente radicato nel mondo vissuto, negli orizzonti empirici di ogni esistenza. Il linguaggio dispiega le sue funzioni di significatività solo nella condizione dell’esistenza.
4. Se con Merleau-Ponty abbiamo assistito a una declinazione dell’argomento in senso percettivo, per Heidegger è strettissimo il legame con la rete di situazioni connesse all’essere-nel-mondo (esserci), prima tra tutte il con-esserci. Con questa espressione, Heidegger, che tra l’altro lamentava l’assenza di un lessico filosofico funzionale all’edificazione di un sistema ontologico, intendeva sottolineare come la dimensione dell’esistenziale non poteva prescindere da quella dell’alterità, dove il linguaggio non solo si realizza, ma ha soprattutto svariate possibilità di comprensibilità emotiva. Come il discorso non può essere svincolato dall’esistenza in quanto terreno di emozione, così la comprensione si presenta imprescindibilmente connessa al vissuto dell’interlocutore. La parola è il mezzo tramite cui l’essere-al-mondo si compie non tanto con l’altro, ma per l’altro. Più che l’io, è l’interlocutore il proprietario delle mie parole.
Un argomento che la psicoanalisi lacaniana ha a lungo trattato, elevando l’altro non solo ad ascoltatore, quanto a traguardo stesso della significatività linguistica. Per Lacan inconscio e linguaggio hanno una struttura similare, poiché la parola non funziona secondo la logica della vita cosciente, ma ha sempre una valenza simbolica, che rimanda a qualcosa d’altro, di più profondo ed enigmatico, destinato appunto alle mani di chi ascolta. Vediamo più approfonditamente in che senso, richiamando la teoria linguistica di Ferdinand De Saussure, padre della linguistica contemporanea, nei confronti del quale Lacan è innegabilmente debitore.
Secondo De Saussure, rispetto a un segno linguistico, è importante stabilire la distinzione tra significante e significato: mentre il primo è l’insieme degli elementi visivi, fonetici e grafici che richiamano un concetto, il secondo è il concetto vero e proprio. Se per esempio si considera come significato il concetto di gatto (mammifero, carnivoro, appartenente alla famiglia dei felidi), il suo significante è, in base alle diverse lingue, ora “g-a-t-t-o”, ora “c-a-t”, ora “c-h-a-t” e così via. Come si capisce, il legame tra significante e significato non ha una valenza necessaria: si tratta più che altro di un rapporto arbitrario e legato alle convenzioni di una communitas che ne stabilisce, in una precisa porzione temporale, la vicendevole relazione.
Ebbene, Jacques Lacan parte da questi assunti ridimensionando considerevolmente il ruolo del significato. Per il filosofo francese più che di “significato” avrebbe senso parlare di “differenziale di significati”, in base alla collocazione che il segno linguistico assume, di volta in volta, nella disposizione dell’altro alla ricezione. In ogni comunicazione s’instaurano cioè dinamiche di continuo rimando significativo tra l’emittente e il ricevente, al punto da poter affermare che “siamo in realtà sempre parlati dal grande altro”: solo lui detiene quella “mancanza-ad-essere” nella quale possono trovare articolazione le nostre parole. Quello che si realizza a ogni interazione è un continuo slittamento di significato, ragion per cui non c’è nulla di concreto e “noumenico” da comprendere al di là del comunicare in senso stretto. Oltre il discorso non si dà nulla che non sia il fatto stesso di discorrere. Nella discorsività si compie la catena di significati realizzandosi come continuo “altro da sé”: una metafisica del patto comunicativo, sottoscritto ogni volta dai soggetti comunicanti.
Nel 1959-60, nel corso del Seminario VII chiamato L’etica della psicoanalisi, Lacan parla di Das Ding, La Cosa, come di ciò che “originariamente chiameremo il fuori significato”, “il senso che è escluso”. Si tratta di un’esperienza mancante all’io, un’estraneità appartenente alla preistoria della soggettività. È il trauma col quale il bambino nasce e al quale cerca immediatamente di sopperire con i primi pianti e i primi vagiti. Queste primissime forme di comunicazione infantile, già nelle vesti di significanti linguistici, vogliono veicolare un “vuoto presente”: un lamento ancora senza contenuto. Il concetto di “vuoto” cui ci stiamo riferendo è molto articolato e richiede un nuovo ritorno ad Heidegger. Nel 1950, nell’omonima conferenza Das Ding, Heidegger si domanda “cos’è una cosa?” Se l’interrogativo evoca risvolti ontologici, è tuttavia il tema del linguaggio al centro del dibattito. Per poter descrivere la cosalità di una cosa devo poter contare su due componenti essenziali: la forma e il contenuto. A questo fine Heidegger usa il concetto di “brocca”, ovvero di un recipiente che nasce vuoto, così come prodotto dalle mani dell’artigiano, ma che possiede già in potenza la capacità di ospitare un qualcosa: sarà proprio questo “qualcosa”, per esempio l’acqua o il vino, a conferirgli lo statuto di contenitore. Detto fuor di metafora: è la potenzialità del significato che, andando a riempire un vuoto, costituisce il significante.
La metafora di Heidegger conduce, ai fini dei nostri ragionamenti, a due dimostrazioni fondamentali. La prima è che la parola può essere pensabile come un potenziale di espressività a partire dal vuoto, ex nihilo. La seconda è che, a partire da questo vuoto, che col passare degli anni il soggetto tramuta in segno linguistico, viene impresso un simbolo al reale per cercare di sanare le ferite “del non saper dire e significare” della nascita. I due aspetti fanno ben capire come la soggettività emerga in realtà da una mancanza. Un’amputazione.
I pianti dei neonati, così impulsivi e vigorosi, non esplicitano solo un bisogno, ma soprattutto l’incapacità di esprimere questo bisogno. Il bambino deve raggiungere l’altro, e nella difficoltà di quest’esigenza ne esaspera la modalità.
Gli studi sulla formazione del linguaggio nella psicologia dello sviluppo cercano sì di spiegare come si struttura questa abilità umana, ma in maniera indiretta, dimostrano altrettanto come trova affermazione il soggetto: ogni linguaggio è una personalizzazione, una ricerca della propria preistorica e inconscia identità. Un processo peculiare e individuale, poiché – spiega Lacan – tra l’io e l’altro c’è sempre una demarcazione così netta da far sì che i contorni delle rispettive esperienze linguistiche non entrino mai in contatto. Il linguaggio né è pensabile come l’effetto di una tradizione, né è coerente con l’evoluzione: è semplicemente un accadimento della relazione. Sempre nuovo. Sempre diverso.
La domanda a questo punto sorge spontanea e Lacan stesso ne intravedeva il rischio all’orizzonte: c’è uno psicotico destino socio-culturale caratterizzato dalla deriva incontenibile di significato? La risposta segue due direttrici diverse. Ovvero: per il singolo il responso è sì, e l’esempio del neonato è illuminante in questo senso; per la collettività invece, paradossalmente, la Parola con la P maiuscola rappresenta un argine al problema. Così come l’inconscio è strutturato secondo leggi ignote all’interlocutore (vale a dire allo psicoanalista), ma che tendono inesorabilmente verso una loro intrinseca logicità e significatività, così il linguaggio, veicolato da un preciso significante, contiene una sua precisa struttura di fondo. Come lo psicoanalista deve arrivare a scovare queste leggi, così l’altro deve imparare a rimanere a galla nel grande mare dell’intersoggettività linguistica. La Parola è il più arguto stratagemma di socialità. Grazie all’interrogazione sulla sua significatività gli uomini stanno insieme e antagonizzano comunitariamente il non-senso della realtà circostante. La struttura è quella di una catena, in cui ogni anello rappresenta la mancanza da occupare, la casella vuota, l’apertura soggettiva, che assieme a tutte le altre porta a compimento l’intera struttura. Se non c’è una verità diretta nella comunicazione, sussiste però la verità indubitabile della Parola consegnata alle leggi dell’altro, dal quale accettiamo di “venire parlati e significati”: accettiamo di ricevere un’identità personale, proprio come fa l’acqua introdotta nella brocca.
5. Ci avviamo alla conclusione ritornando all’infanzia con la quale avevamo iniziato. Esiste una mitologia del linguaggio, che si può intendere come una sorta di “brodo primordiale di parole”: è la condizione di possibilità di qualsiasi successiva esplicitazione linguistica; è una materia modellabile con le esperienze, similarmente all’azione del Demiurgo platonico; è un potenziale ancora immacolato che sarà plasmato giorno per giorno, relazione dopo relazione. È la cosiddetta “fase mitica” della comunicazione, proprio nel senso etimologico di mythos.
Se, come dicevamo in apertura, è soprattutto l’infanzia il momento in cui questi aspetti sono più evidenti, non possiamo non ammettere che nella loro forma poetica, teatrale, artistica o letteraria in realtà ci continuano ad accompagnare per l’intera vita. In tutte queste situazioni, il simbolismo della parola, scardinando convenzioni e significati, produce divertimento, bellezza, stupore, paura, sconcerto, frustrazione e tutto quanto può emotivamente derivare dalla sua ricezione rappresentazionale.
Malgrado il racconto di storie fantastiche e leggendarie, quale altro senso aveva la mitologia nell’antica Grecia se non la produzione di pathos nell’ascoltatore?
In greco esistono due termini per indicare la parola. Il primo è logos, la parola ordinata, divenuta parola della scienza e del ragionamento; il secondo è appunto mythos, col significato di favola, racconto mitico. Se il mythos è più un istinto linguistico coincidente col bisogno continuo e incalzante di creare storie e rappresentazioni, il logos fa capo a un “a posteriori” razionale, misurato e calibrato.
Nel testo All’inizio era la favola lo scrittore francese Paul Valéry ha scritto: “Mito è tutto ciò che esiste e sussiste avendo soltanto la parola per causa”. Con questa formula, sintetica ed eloquente, la parola diviene condizione prima ed esclusiva dell’interrogazione del mondo. Il mito rappresenta l’originaria risposta ai quesiti dell’uomo, alla sua inderogabile tensione interpretante.
La parola, al suo stato infantile e originario, racconta senza preoccupazione di riscontro col reale: non ci sono leggi o rigori referenziali da rispettare. C’è una finzione del linguaggio, altrimenti definibile come simbolismo continuo della parola, che dall’infanzia ci trasciniamo nell’età adulta, e rappresenta il suo sostrato autentico e aprioristico, il primo vero istinto umano: mai soddisfabile, mai placabile, ma solo anestetizzabile con l’accudimento del significato. È la più pressante esigenza esistenziale poiché l’uomo e la domanda sul mondo hanno la stessa età e parlare all’altro, raggiungerlo, è anzitutto sentire che ci-siamo.
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