CUCKOLD LOCKDOWN
PEE GEE DANIEL
Era una domenica.
Alda mi fa: «Vado al concerto dei Diaframma.»
«Ok» rispondo io. Tanto ci ero abituato. C’era sempre qualche misterioso concerto a cui andare o cose del genere.
La novità è che, per una volta, dopo che ho messo a letto la bambina, decido di controllare sul motore di ricerca, così per sfizio. Risultato: non c’è alcun concerto dei Diaframma in giro.
Glielo scrivo per conferma: “Sei al concerto dei Diaframma?”.
Lei: “Sì sì.”
E io, con la massima nonchalance: “Guarda che non c’è alcun concerto dei Diaframma stasera, ho controllato.”
Silenzio imbarazzato.
Alla fine una risposta arriva: “Eh no, ma non sono i Diaframma, è solo il cantante, Fiumani.”
Controllo. Nessun concerto di Fiumani in giro.
Glielo scrivo. Risposta: “Non so cosa dirti, se non lo hanno scritto non è colpa mia.”
Chiedo: “Ma dove sei?”.
Silenzio imbarazzato.
“Domanda difficile?” la incalzo, dopo un po’.
Passa ancora qualche minuto prima che risponda: “Monza.”
Controllo: non c’è alcun concerto a Monza, quella sera. Manco di una tribute band degli Inti-Illimani, tanto per dire.
Glielo comunico. Risposta: “Non so cosa dirti, se non c’è scritto.”
Domando: “In che locale sei?”.
Silenzio imbarazzato.
Dopo varie sollecitazioni: “Al Noir qualche cosa, ma ora sto tornando.”
Ma come? Non eri al concerto tre domande fa? Comunque controllo. In zona c’è un solo locale con quel nome, che tra l’altro è un ristorante. Strano. Controllo. Non annunciano alcun concerto per la domenica. Non fanno concerti, in generale. È più un posto per coppiette in cerca di intimità, a giudicare dalle foto…
Glielo faccio presente. Stessa risposta di prima.
Scrivo al locale, chiedendo se ci fosse stato un concerto di Fiumani o dei Diaframma. Mi rispondono di no. Glielo faccio presente. Risponde: “Non so cosa dirti. Ero con degli amici di Asti, era un concerto a inviti. Un evento riservato.”
“Così riservato che quelli del locale manco lo sapevano?!”.
Va beh. Scrivo direttamente ai Diaframma, attraverso la pagina Facebook, e chiedo se loro o Fiumani abbiano suonato in zona Monza domenica. Mi rispondono di no.
Glielo faccio presente. Risposta piccata: “Oh, ma cosa stai dicendo?”.
Fu allora che finalmente capii cosa doveva ricordarsi, in realtà, quando ha scritto sul calendario diaframma…
Va beh, poco male, me l’aspettavo. Era sempre andata così: di quando in quando capitava che sparisse per serate con amici che si prolungavano anche sino alle quattro di notte, viaggi al mare o in qualche parco acquatico in compagnia di qualche persona particolarmente cara, e mai meglio precisata, concertini fuori provincia, aperitivi o caffè consumati chissà con chi e chissà dove, e via dicendo. Ci avevo fatto il callo. Non che rientri nella categoria “cornuti e contenti”: uno di quei pervertiti che se sospettano che la partner vada con qualcun altro, anziché risentirsi si eccitano. Semplicemente, ci avevo messo una pietra sopra. Per me con Alda era finita da anni, mi focalizzavo sulle esigenze di nostra figlia e sul trantran quotidiano, nell’attesa dell’occasione in cui, prima o poi, la avrei presa in castagna, che era prontamente arrivata.
Una sensazione di euforia mi percorse quando, con un paio di facili mosse, riuscii finalmente a sgamarla in maniera inequivocabile, per quanto lei, a sua difesa, non fosse capace di fare altro di negare l’evidenza. Era la scuola di sua madre quella: gli uomini sono tutti stupidi, le aveva insegnato sin da piccina, e lei lo aveva preso per oro colato.
Era un punto di non ritorno: ormai non potevo più abbozzare, avevo le prove, per quanto indiziarie. Tanto bastava.
Mi rivolsi immediatamente a un legale, finché il pasticcio era ancora caldo. Googlando, trovai un’avvocatessa della mia città, una scelta a caso o poco più. A breve presi un appuntamento nel suo studio, quasi in centro. Concordammo le linee principali per la separazione. Eravamo già sul piede di guerra quando… scatta la quarantena!
Già si potevano cogliere i primi segnali del destino verso cui la nazione stava precipitando dal fatto che quando porsi la mano all’avvocatessa lei mi fece la finta, indicandomi con il pollice dove fosse l’uscita, inoltre, per l’intera durata del colloquio mi aveva puntato nel centro del petto la punta di un ombrello che assicurava della lunghezza di un metro abbondante. Non me ne curai più di tanto, avevo altro a cui pensare.
Ci scambiammo una manciata di mail nei giorni a venire, per tenerci reciprocamente aggiornati. Finché, a neanche una settimana da quell’iniziale contatto, si entrò nel pieno dei provvedimenti contro il Coronavirus. Da cui conseguiva che i tribunali sarebbero rimasti chiusi sine die, che quello che avevo finalmente trovato il coraggio di fare era stato sospeso chissà per quanto tempo e che non si poteva più mettere il naso fuori dalle proprie abitazioni. Tradotto: me ne sarei dovuto rimanere intampato a casa mia in una promiscuità continuativa con quella da cui avrei voluto invece distanziarmi il più possibile. Un tempismo eccezionale, non c’è che dire.
Una delle ultime mail inoltratemi dalla leguleia, a mo’ di messaggio infilato dentro una bottiglia gettata tra i flutti prima di lasciarmi solo al mio destino, mi intimava: “Mi raccomando, non abbandoni il tetto coniugale prima della sentenza di un giudice. Resista!”.
E così, giorno per giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese mi ci ritrovo a convivere 24/7. La peggiore compagnia che mi potessi scegliere in una contingenza come questa, considerando che, tra le altre cose, Alda è una cacasotto a livelli olimpionici. Già normalmente, quando non c’è la minima emergenza, lei vive costantemente sul chi-va-là. Ha sempre avuto una paura fregata di tutto ciò che desse anche solo lontanamente qualche segno di vita: ladri, malattie, extracomunitari, altre donne che intravedesse appena appena più carine di lei. Uno snervante ricettacolo di paranoie e ipocondrie irrazionali. Per la sicurezza domestica ha preteso sbarre alle finestre (nonostante abitassimo all’ottavo piano), porta-blindata, sistema antifurto, serratura antiscasso, catenaccio. Ricordo che, mentre il fabbro era ancora al lavoro, le domandai se il prossimo passo sarebbe stata una buca riempita d’acqua e piranha proprio davanti all’uscio.
Ho sempre impressa in mente quella volta che in autostrada si mise a strillare per la mia guida, malgrado rispettassi con largo margine i limiti di velocità. Mi rimproverava perché stavo superando come un pazzo una decina di autoveicoli tutti insieme. Mi voltai a guardare e scoprii trattarsi di una bisarca carica di nuovi modelli caricati per qualche autosalone.
L’aspetto peggiore è che non riconosce assolutamente questa sua inclinazione, vanificando così ogni possibilità di guarigione.
Anzi, tende a offendersi, se glielo si fa presente, difendendo strenuamente la propria obiettività di giudizio (con forza perlomeno equipollente a quella impiegata per ribadire la propria specchiata fedeltà).
Potete immaginare come abbia preso la minaccia Covid-19: qualcosa di potenzialmente letale e allo stesso tempo invisibile, dunque una fonte d’angoscia ancora maggiore dei semplici rapinatori a mano armata o degli incidenti stradali. Qualcosa di paragonabile a quei minuscoli microbi che furono capaci di vincere i giganteschi alieni supertecnologici nel finale di La guerra dei mondi.
Finora non ha fatto che subissarmi di notizie sanitarie spesso contraddittorie carpite qua e là, rapsodicamente, da siti, giornali, trasmissioni spesso tutt’altro che attendibili, ma che hanno questo di buono dalla loro parte: riuscire a fomentare le più intime paure dell’utente. Benzina a cento ottani gettata sul fuoco. In fondo non è poi questo a cui, in segreto, aspirano i paranoidi? Farsela sotto sino a riempirsi le brache? Ho sempre sospettato che sia una forma di masochismo sotto mentite spoglie la loro. Ci godono nell’apprendere brutte notizie, in realtà. Altrimenti non si spiegherebbe il perché, anche quando tutto sembra procedere per il verso giusto, si vadano a cercare lo spauracchio ad hoc, rimestando tra le news e le dicerie più improbabili, pur di sentirsi cullati da quel senso di impotenza di fronte all’ineluttabile, che per loro sembra essere la fonte del massimo, quanto perverso, piacere (seppure si guardino bene dal confessarlo apertamente).
Quanto a lei, è stata ligia all’ordinanza, restandosene diligentemente in casa, notte e giorno. Per andare anche solo sul balcone mancava poco che si intabarrasse dentro uno scafandro da apicultore. La sua tendenza a rendere tragico quel ch’è già di per sé sufficientemente drammatico l’aveva portata a credere, supportata non si capiva bene da quale indiscrezione ministeriale, che il virus viaggiasse liberamente attraverso l’aria, come le particelle d’ossigeno, e fosse quindi continuamente respirabile se non si fossero usate le debite accortezze, come quella di non respirare a oltranza – suppongo -. A questo si aggiunga che anche l’acqua del rubinetto, a detta sua, poteva essere satura di Coronavirus – ho preferito non indagare sui meccanismi virologici che lo avrebbero consentito -. Ogni doccia, ogni risciacquo, ogni gargarismo avrebbero potuto rivelarsi letali. A sentire lei, il Covid19 è diventata la componente aggiuntiva alla formula chimica classica dell’acqua corrente: H2O-SARS-CoV-2. L’igiene personale sembra avere ormai assunto i contorni di un’emozionante roulette russa. Ogni volta che ti lavi i denti potrebbe essere l’ultima.
La gran strizza, che rappresenta di lei l’aspetto dominante, l’ha avuta vinta su ogni altra sua peculiarità, tant’è vero che nel corso della Fase1, al posto delle sue consuete sortite serali, si limitava tutt’al più a trincerarsi in camera da letto per ore con la scusa di certe telefonate, anche in questo caso mai meglio specificate, seguite da misteriosi bidè, a cui si apprestava non appena riemergesse da quelle chiamate in solitaria.
Appena è scoccata la Fase2, invece, munita di una semplice mascherina da elettrauto, pedibus calcantibus o inforcando il suo vecchio motorino, ha ricominciato ad assentarsi delle ore per destinazione vaga, se non del tutto ignota. Dopo settimane di deliranti psicosi, le è poi bastata una mezza rassicurazione ministeriale perché le sue smanie extra-domestiche tornassero a briglia sciolte.
Meglio così, non importa, ovunque vada, sempre meglio che averla tra i piedi. Io mi godo la mia piccola Adele, e tanto basta.
Infatti, se la convivenza sotto emergenza pandemica con un’ansiogena fifona del genere non fosse già abbastanza stressante di per sé, a questo si accompagna una crescente intolleranza da parte mia verso ogni suo tic comportamentale, anche il più innocuo.
Quando segue le patetiche dirette Instagram di Vincenzo Menga, il suo cantante preferito, con il volume sparato a palla, squittendo allegra a ogni battutina di quel supremo coglione, quando pilucca il cibo a punta di forchetta come una scimmia inappetente, quando commenta il film che sto guardando o il libro che sto leggendo con aria di sufficienza. Mi infastidiscono il suo tono di voce, i suoi difetti di pronuncia, la tinta dello smalto per unghie. Addirittura il modo in cui dice il mio nome, “Giulio!”, facendo geminare tra le labbra la palatale iniziale e insistendo sulla l, che pronuncia come il gruppo gl.
Spinto dal risentimento, ho iniziato a provare intolleranza per molti di quegli aspetti che un tempo trovavo caratteristici. Del resto è così che funziona la trappola dell’attrazione. La natura ti frega, doppiamente: da impareggiabile prestigiatrice qual è, ti fa prendere per gradevolezze quelli che a lungo andare risulteranno essere ai tuoi occhi difetti o incompatibilità, e tutto questo a meri fini riproduttivi, che a loro volta ti imbonisce sotto la pomposa quanto evanescente dicitura di “amore”. Quel che davvero le sficchia è l’imperitura preservazione della specie, in barba ai sentimenti di un povero tapino, offuscato nelle proprie scelte da motivazioni zoppicanti e precipitose. Quando l’amorosa ti incastra definitivamente, allora Maya cala il velo.
Ricordo ancora, seppur vaghissimamente, come appartenente a una diversa e remota temperie storica, quando, i primi tempi, la ammiravo incantato e non facevo che ripetermi: “Che fortunato che sono! Ma come fa una così a voler uscire con uno come me?”. Ora le cose si sono nettamente ribaltate e quando la osservo non faccio chiedermi: “Ma come cazzo ho fatto a uscire con questa?”.
Se un tempo rimanevo ammirato da quei boccoli che le ricadevano sulle spalle e le circondavano la nuca come un cesto di molle, ora, che i suoi capelli me li ritrovo ovunque per casa, anche dentro le mutande, la sua capigliatura appare ai miei occhi più che altro come una pecora morta poggiatale sopra la testa, in stile Davy Crockett. Quel suo sguardo languido, in cui allora rischiavo tutte le volte di annegare, ora mi ricorda gli occhi spenti di un pesce bollito. Avevo ragione in quel periodo o in questo? Non credo sia poi così rilevante. È lo stato d’animo a generare le interpretazioni.
“La amo!” proclamiamo a viva voce, all’inizio della relazione. “Amo! Amo! Amo!”. E infatti quello è: un amo. Una volta che ho abboccato, il resto è venuto da sé: gravidanza, frutto dell’amore, responsabilità.
E anche nel momento in cui, grazie a una sfrontatezza tutta nuova, legittimata dalla consapevolezza di avermi ormai legato a filo doppio, tale e quale a un salame, ha scoperto le carte, mostrando di che pasta fosse fatta, quel che non sopportavo di lei me lo sono fatto andare bene, o meglio, l’ho ignorato, tirando avanti, un po’ per il quieto vivere, un po’ in nome di esigenze superiori, o che ci raccontiamo come tali.
Del resto lo sapete, no, qual è l’anagramma di “il peggiore dei mali”? “È di pigliare moglie”.
Ma è stata questa convivenza forzosa, che ha visto crescere geometricamente le ore da condividere gomito a gomito, spalla a spalla, fiato a fiato, parole su parole, proprio quando avrei fatto carte false per separare le nostre strade, a portare la mia insofferenza a livelli nevrastenici.
Fiumi di parole in tv, sui giornali, per radio per quanto concerne uomini possessivi e violenti che non vogliono lasciare libere di andarsene le proprie partner, ma di un disgraziato che invece pagherebbe per vederla smammare e non ce la fa non si interessa mai nessuno?
Di tutte le cose che mi tocca sopportare, quella che mi dà poi particolarmente sui nervi è come ami denigrare il mio lavoro. Anche se ci dovrei aver fatto il callo, visto che si tratta di una vecchia consuetudine
“Scrivi solo cazzate” è la critica che esce più ricorrente da quella sua bocca tumida, ogni volta che mi nego perché impegnato a finire un pezzo per qualche rivista o a chiudere un capitolo che mi stia particolarmente a cuore.
Dice che butto via il mio tempo, proprio lei che nella vita ha fatto giusto un tirocinio al fulmicotone e un impiego temporaneo di un paio di mesi al massimo, entrambi coronati dalle continue lamentele dei rispettivi superiori per la sua scarsa resa lavorativa.
C’è però una cosa che le devo riconoscere: da che siamo rinchiusi dentro casa ha cominciato a darsi da fare con le pulizie. Vetri, fornelli, sanitari, pavimenti. È un continuo. Che, fino a poco tempo fa, se passava l’aspirapolvere alle feste comandate era già una conquista.
Sarà per fare un po’ di movimento? Sarà per passare i lunghi tempi morti? Sarà per sanificare l’abitazione, rispondendo alle solite fisime che sempre la accompagnano? Mah, secondo me invece deve aver equivocato, quella volta che presumo sua mamma le abbia suggerito: “Sai che devi fare perché non se la squagli? Scopa!”.
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