“IN IRA E MALEVOLENZA”: DI QUALCHE IDIOSINCRASIA COMICA
GENNARO CARILLO
Il comico, talvolta, picchia duro. Per farlo, deve alimentarsi di idiosincrasie profonde, di cui Aristofane teorizza la legittimità morale, oltre che la produttività politica: «Insultare (loidoresai) gli abietti (ponerous) non è una colpa ma, a ragionarci bene (eu logizetai), un rendere onore (time) ai buoni (toisi chrestoisi)» (Aristofane, Cavalieri, 1274-1275). Tutto molto schematico. Il comico presuppone la polarità buoni-cattivi e, su questa base, colpisce con la loidoria, spingendosi fino ad auspicare o addirittura a ‘suggerire’ la morte di qualcuno come misura benefica per la polis. È il caso di Cleone nei Cavalieri: «Sarà dolcissima (hediston) la luce del giorno per i cittadini e i visitatori, se Cleone morirà (en Kleon apoletai)» (973-976). Tutto questo alla presenza, in teatro, del demagogo odiato e pericolosissimo, al quale la polis democratica riconosce il privilegio della proedria, un posto riservato in prima fila. Ed è il caso di Cleofonte nelle Rane: «la rondine di Tracia […] intona un canto (nomon) funebre, perché lui [Cleofonte] muore (apoleitai), anche se il processo finisce in parità (isai)» (681-685). Quantunque trasfigurata in chiave comica, la morte violenta aleggia sulla scena aristofanesca, prefigurando un destino tragico per la comunità politica.
Su Aristofane tornerò alla fine. Ora vorrei fornire qualche altro esempio dell’idiosincrasia come materia prima del comico.
Eros e Priapo di Gadda non è solo un’invettiva feroce contro Mussolini. È anche un tentativo – ilare e tragico – di ricercare la causa del consenso tributato al fascismo in una malattia peculiare dell’ethos nazionale: il menadismo, l’invasamento, l’enthousiasmos, la «ninfomania politica» di una nazione femmina (e per troppi secoli «malchiavata») nei confronti dell’espressione massima di un virilismo retorico e istrionico, il Duce, appunto. Nessuna motivazione logico-razionale, in questo consenso della moltitudine, ma solo un eros tirannico, un rovesciamento della gerarchia platonica dell’apparato psichico sano, con gli «impulsi animali a non dire animaleschi […] topicizzati nello epithymetikon, cioè nel pacco dello addome, […] il gran vaso di tutte le trippe» (E. Gadda, Eros e Priapo (Da furore a cenere) [1967], in Saggi Giornali Favole e altri scritti, II, Milano, Garzanti 1992, p. 231), che s’insediano nell’acropoli dell’anima e da qui comandano indisturbati.
Due idiosincrasie operano dunque in Gadda: quella verso Mussolini e il fascismo, a un primo livello; la misoginia, a un livello meno superficiale. Ecco un ritratto idiosincrasico del Duce:
“Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che sono qua mè son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne’ pagliai, a concitare ed esagitare le genti; e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato da pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Consiglio in bombetta e guanti giallo canarino.
Pervenne, pervenne.
Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico, dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. […] Sui morti, sui mummificati e risecchi dalle orbite nere contro il cielo, […] sui morti e dentro il fetore della morte lui ci aveva già lesto il caval bianco, il pennacchio, la spada dell’Islam, fattagli da’ Maomettani di Via Durini a Milano. Per la pompa e la priapata alessandrina. E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera. Scipione Affricano del due di coppe (ivi, pp. 227s.).”
È un’immagine miracolosa, fecondante, quella del Duce, per le moltitudini di Bassaridi che pendono dalle sue labbra perennemente estrovertite e in lui ravvisano «il solo genitale eretto disponibile sulla piazza»:
“E talvolta, bastava il sogno, la imago. Le più pazze, le più prese dalla imago, non bisognavano marito, né ganzo, né drudo. Checché. Gli bastava la Idea, la Idea sola della Patria, e del kuce. Gli bastava imaginare il kuce nell’atto di salvar la Patria per sentirsi salvate e pregne anche loro in compagnia della Patria. Una di codeste pazze riuscì a fare un figlio: col ritratto del kuce. Ed ebbe il pupo, al nascere, le quadrate mascelle del Mascellone, tanto che lo ricoverarono al Cottolengo. Dove il mostriciattolo pisciò, cioccolattò, crebbe e proferì apoftegmi in tutto simili a quelli del Padre.”
Qui l’idiosincrasia si sposa a un «atto di conoscenza», sia pure «tardivo»: non ci sono solo Aristofane, Platone o Machiavelli, tra le fonti di Gadda; c’è anche la psicologia delle folle. Certo, l’iperbole deforma e la misoginia deborda; eppure, se la tentazione del mutato nomine de te fabula narratur è così forte, vuol dire che Gadda coglie, per via idiosincrasica, un universale, l’essenza erotica dei meccanismi sui quali si fonda un consenso altrimenti inspiegabile. Il paradosso di Eros e Priapo è che fa dimenticare il Mussolini storico o comunque lo disincarna, facendolo regredire a carattere, ad allegoria. Proprio nel senso dell’aliquid stat pro aliquo: Mussolini sta per qualcos’altro e qualcun altro. E questo qualcun altro è chiunque, dopo di lui, ne indossi più o meno consapevolmente la maschera, personificandolo. Non a caso, chi abbia messo in scena Eros e Priapo (Fabrizio Gifuni, Massimo Verdastro, Sandro Lombardi) si è visto costretto a esplicitare di non aver manipolato il testo gaddiano, di non avervi aggiunto nulla di ‘contemporaneo’: il pubblico credeva di riconoscere in Mussolini il principe, appena dissimulato, del momento e accusava il teatrante di faziosità.
Cambiamo scena, restando tuttavia in Italia. Ha già fatto epoca, tra le idiosincrasie recenti, quella di Franco Cordero verso Silvio Berlusconi, ribattezzato il «Caimano», il «nomofobo», il «re delle lanterne magiche», rubricato come «caso clinico», esecrato come causa prima o almeno sintomo più evidente del «morbo italico». Ma, per Cordero, Berlusconi è soprattutto la figura eminente di una «convulsa pittura espressionista». Convulsa perché popolosissima. Cordero cita Werner Tübke, ma forse nobilita troppo il quadro politico. Che piuttosto fa pensare a Benito Jacovitti. Se Berlusconi, sulla scena, campeggia, chi gli orbita intorno appare altrettanto a proprio agio. Fausto Bertinotti, per esempio. Eccolo brillare nel teatrino delle stelle fisse: «[…] i rifondatori comunisti hanno un pilota primesautier, innamorato della scena, facile parlatore in erre moscia nei salotti televisivi». Una pietra tombale, più che il ritratto di un narcisista: quei «birignao nel salotto televisivo» gli e ci costeranno cari.
Ma è nel ritratto di D’Alema che Cordero si supera. L’idiosincrasia partorisce grande letteratura:
“Le style c’est l’homme: eccolo, Mercurio onnipresente […]. L’insonne conversa, predica, disserta, detta, recita, scrive, sfila, allude, sogghigna, ammonisce, gioca d’occhi e sopracciglia, sta al timone: s’espone ai fornelli col grembiule, intento al risotto; modula sintagmi eleganti; tiene banco su temi planetari commiserando i poveri diavoli il cui orizzonte sta nel cortile; voce e gesto taglienti, dispensa mille interviste dove la minima battuta è testo marmoreo da scolpire; frequenta anche i santi o almeno, san José Maria Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, incline a due dittatori poco raccomandabili quali Franco e Pinochet. Oltre che «uomo di mare», lo sappiamo «appassionato d’archivi»: vive «nelle antiche carte»; ha letto tutto l’erede d’Eugène Sue; in letteratura contemporanea «sono uno dei conoscitori più importanti d’Italia» […]. Insomma, non soffre d’autodisistima, né passa giorno senza un’epifania, premurosamente ripercossa dai media: il coro dei finti indipendenti l’acclama riformista par excellence; il sire d’Arcore se lo augura papa d’oppositori dialoganti. Che ispiri poca simpatia, l’ammettono anche i caudatari, ma qui non interessano appeal, look, portamento. La questione è se l’uomo, visto quale somma d’atti compiuti o pronosticabili, venga utile ai vertici della partita. Nella mia sommessa opinione, no. Lo vedo piuttosto cinico, egocrate autocontemplatore, cannibale, perfido, garrulo-fatuo; e se qualcuno crede d’avere letto un rosario d’ingiurie querelabili, sbaglia; è lessico tecnico, nomenclatura d’antropologia politica. Cominciamo dall’ultimo predicato: solo un gaffeur poteva allestire la commedia bicamerale, convinto d’avere catturato B.; andava a scuola dall’ex piduista veteroberlusconiano M. Costanzo. Sopraffino però nelle guerre intestine e quanto sia cannibale, lo dicono i teschi. In amor sui vale B. Se vede un palco, vi monta: la politica militante non è filantropia ascetica ma lui straripa dal consueto habitus […]. Nessuno l’ha visto al naturale, se ne ha uno. S’è sciolto in vorticosi manierismi vocali, mimici, gestuali. […] Non accorda mai risposte congrue, però batte le frasi sull’incudine: plana au-dessus de la mêlée; agli avversari concede mezzi sorrisi-smorfia, almeno fossero della sua taglia.
- è attore da music-hall, con varie cadute nell’avanspettacolo sbracato. Lui filodrammatico contegnoso, tra Niccodemi e Beautiful […].”
Teniamo presente quell’«egocrate autocontemplatore» di Cordero. Diventa la chiave per comprendere un altro affondo anti-dalemiano. È un D’Alema decaduto, però, quello su cui infierisce Claudio Giunta. Un D’Alema costretto a ripetersi. A interpretare il ruolo che lo ha reso famoso. Più che dalle parti di King Lear, siamo da quelle di Gigi Baggini (Ugo Tognazzi), in Io la conoscevo bene di Pietrangeli:
“[…] presentando il movimento ConSenso davanti alla fronda PD, D’Alema non ha resistito. Ha fatto il classico, mica l’alberghiero, e poi quattro anni di Scuola Normale, è un capitale simbolico che bisogna spendere. Così ha detto: «…come avrebbe scritto un grande poeta, Quandoquidem dòrmitat Homerus. Mi sfogo qui, perché nel Partito Democratico non si può più parlare in latino». Ilarità, applausi.”
Il problema non è che sono tre parole e due errori, dato che il verso di Orazio (il «grande poeta») dice quandoque, ‘e quando, anche quando’, non quandoquidem, e in dormitat la i è lunga, quindi si pronuncia dormìtat, con l’accento sulla i, non sulla o. Il problema è proprio il latino, l’impiego minatorio del latino, l’idea della cultura non come silenzioso possesso ma come distinzione, da far valere nel confronto con chi quella distinzione non ce l’ha, perché non ha fatto le scuole giuste o ha colpevolmente liquidato l’umanesimo perché occupato a inseguire idoli più effimeri (il mercato, internet, il pop). Il fatto che D’Alema ignori il latino aggiunge solo un tratto patetico a questo snobismo: come lamentarsi, ruttando, del dilagare della maleducazione (C. Giunta, E se non fosse la buona battaglia?, Bologna, il Mulino 2017, p. 280).
Non serve scomodare la Verneinung freudiana per capire che, invece, il problema sono proprio gli errori di latino (ed è inutile aggiungere che «Non serve scomodare la Verneinung freudiana» è, a sua volta, un esempio classico di Verneinung). Altrimenti non si spiegherebbe perché Giunta li corregga con implacabilità professorale e la deplorazione sacrosanta dell’uso intimidatorio del latino passi in secondo piano, data l’albagia che l’errante conserva anche nella sua fase di declino. Questo D’Alema prigioniero del personaggio gli offre un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E il censore lo morde, inscenando un contrappasso che sta tutto in quella sentenza senz’appello: «D’Alema ignor(a) il latino». Una ferita mortale, per un egocrate, la cui supponenza intellettuale arma letteralmente il critico, innescando il pedagogo spietato che è in lui. Il pedagogo, non il pedagogista, per carità: ché verso il pedagogismo – e in particolare verso Franco Frabboni: un’autorità – l’idiosincrasia di Giunta tocca vertici sublimi e liberatorii (per chi è costretto a fare i conti con la neolingua della vittima). Al confronto, quella a D’Alema è una carezza. Il paragone col rutto, infine, è una trovata degna di quel moralista classico che fu Paolo Villaggio, ascritto da Giunta a un pantheon del comico di cui fanno parte anche Rocco Tanica e lo Sgargabonzi.
Torniamo ad Aristofane, per concludere. Ci riportano a lui i caratteristi che hanno da tempo saturato i luoghi di produzione del discorso pubblico, la compagnia di giro saltabeccante di studio in studio, i pensosi, i pensanti, le seriose autorità intellettuali di una nazione poco seria. Ci riportano a lui le maîtresses che li orchestrano, che se li disputano e li giocano con sapienza combinatoria, titillandone la corda narcissica. Ci vorrebbe un Aristofane, oppure, non dico un Proust, ma almeno un Parini o un Alan Bennett, «un perfido talento mimetico» (A. Arbasino, Ritratti e immagini, Milano, Adelphi 2016, p. 54) che sappia restituircela, questa guitteria, debitamente deformata ma credibile.
L’irrisione dell’autorità intellettuale è un motivo ricorrente nelle commedie dell’archaia e in particolare nel corpus di Aristofane. Come ha notato Alan H. Sommerstein, c’è un solo modo per fugare il rischio di diventare komo(i)doumenos (= oggetto di deprecazione comica) sulla scena: condurre una vita la più oscura possibile, astenersi dallo spiccare sui molti, dissimulare le deroghe eventuali al senso comune. C’è dunque un fondo retrivo, se non reazionario, che incattivisce la commedia, più censoria che censurata. Non è un caso che il catalogo dei komo(i)doumenoi aristofaneschi stilato da Sommerstein comprenda, tra gli altri, filosofi/sofisti (il Socrate di Aristofane è un sophistes, financo con tic gorgiani, l’opposto di quel che sarà il Socrate platonico), i novissimi della tragedia (Euripide in testa, bollato come troppo effettistico, fumista, compiaciuto del proprio immoralismo estremo), i demagoghi tanto violenti quanto persuasivi (Cleone, che intenterà un processo contro il comico), le drag queen più in vista (Clistene, solo omonimo del grande riformatore democratico).
Tuttavia, davanti all’autorità, specie quella politica, il poeta comico fa sfoggio di parrhesia estrema: rivendica una franchezza di parola, un discorso-che-dice-tutto, senza autocensure (questo il senso etimologico di parrhesia) e incurante dei pericoli che ne derivano. Il presupposto di questa libertà (che secondo Bachtin intrattiene non pochi rapporti con le licenze del carnevale) riposa su un assunto preciso: «anche la commedia (la trygo(i)idia, il canto del vino nuovo: si noti la polarità per opposizione con la tragedia) conosce (oide) il giusto (to…dikaion)» (Acarnesi, 500). Sono parole che Diceopoli, eroe comico degli Acarnesi, indirizza direttamente al pubblico, con una di quelle rotture dell’illusione drammatica che costituiscono una peculiarità esclusiva del comico. Nel quale è evidente l’istanza paideutica: il comico sa e non ha remore a esporre in pubblico argomenti deina (tremendi) ma al tempo stesso dikaia (giusti): Acarnesi, 501.
L’arma con cui il comico disinnesca il potere, mettendolo di fronte al proprio nulla o almeno alla propria miseria, resta l’irrisione. Un’irrisione fondata sul disconoscimento radicale dell’autorità. L’esempio più perspicuo è offerto ancora una volta dagli Acarnesi, con l’agone comico tra l’eroe ‘pacifista’, Diceopoli (nomen omen: colui che rende giusta la polis), e l’antagonistes, il bellicista Lamaco. Agone linguistico, prima ancora che retorico: all’alto tonitruante e borioso del registro di Lamaco si contrappone il basso corporeo di Diceopoli, il cui odio verso il conflitto con i Lacedemoni non ha alcuna matrice ideologica ma si fonda sulla constatazione amara dello scadimento della qualità della vita materiale in tempo di guerra. Mangiare poco, mangiare male, sognarsi le anguille (a causa dell’embargo voluto da Pericle contro Megara), bere poco e male (vino spezzato con troppa acqua), scopare pochissimo: la consapevolezza di queste perdite gravi, non altre considerazioni, rende sommamente indesiderabile la guerra e insopportabile la retorica bellicistica.
L’agone tra Diceopoli e Lamaco è talmente efficace, sotto il profilo comico, da diventare un modello per tutte le irrisioni a venire. Addirittura Diceopoli usa una penna del cimiero di Lamaco per indursi a vomitare. Qualcosa di altrettanto improprio e spiazzante fa Antonio Scannagatti (Totò) con il fazzoletto imprestatogli dall’onorevole Cosimo Trombetta (Mario Castellani) nell’immortale episodio del vagone-letto in Totò a colori di Steno, con Isa Barzizza nel ruolo di improbabile eppure sensuosa dark lady. Sono gesti che scoronano e scornano il nemico comico, detronizzandolo, svuotandone dall’interno la pienezza di sé, anzi rovesciandogli contro la sua stessa boria e la propensione al ‘tragicismo’ (lemma caro a Petrolini: versione iperbolica e contraffatta del tragico, assai pertinente connotazione del genus italicum). Diceopoli vs Lamaco e Scannagatti vs Trombetta si corrispondono a distanza con una puntualità che appare evidente. Il che farebbe pensare a una ‘funzione’ Aristofane da cui dipenda tutto il comico politico a venire.
O il comico sic et simpliciter. Basti riandare al Fortunello di Petrolini, il quale, in Racconto idiota, inanella cinque epiteti con suffisso –ico che riproducono la congeries di epiteti in –ikos (addirittura otto) con cui Aristofane sfotteva la neolingua sofistica (Cavalieri, 1378-1381):
“Sono: Omerico,
Isterico
Generico
Chimerico
Clisterico.”
Chioserei che Petrolini fu amico di Ettore Romagnoli, il quale peraltro ne dettò la lapide commemorativa per il Teatro Quirino. Romagnoli pubblicò nel 1909 per l’editore Bocca (non il cognato dell’onorevole Trombetta…) la traduzione delle Commedie di Aristofane.
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