QUELLA TENSIONE CHE MI RENDE MORALE TRA PROBLEMI, SOLUZIONI ED EQUE EREDITÀ

RICCARDO DAL FERRO

Un giorno non basta.

Colui (o meglio: ciò) che si fa bastare un giorno, inteso come il giorno infinitamente ripetuto, è l’animale. L’animale sta nel giorno, e la sua esistenza si riassume in quel giorno. Che siano trecento o tremila i giorni vissuti dall’animale, sempre lo stesso giorno sarà.

L’uomo è la creatura a cui un giorno non basta, che del (del) giorno, inteso come tempo privo di tensione verso ieri e domani, non sa che cosa farsene. Ma dentro a questo concetto, apparentemente banale e privo di grande interesse, ve ne sono molti degni di essere discussi: quello di progetto, quello di problema, quello di soluzione e quello di morale.

Sappiamo bene che l’esistenzialismo di Sartre ha portato alla ribalta l’idea secondo la quale la creatura umana si costruisce intorno al concetto di “progetto”: si tratta di un essere che immagina la propria individualità ed esistenza oltre il pesante confine dell’Adesso. “Io sono il mio progetto” significa che in questo esatto istante, quello in cui l’animale avrebbe energie solo per annusarsi le zampe, la mia mente vaga in avanti e all’indietro, tentando di incollare insieme le vaghe memorie del passato e i potenti desideri sul futuro. “Io sono il mio progetto” significa che il mio presente è investito (e secondo alcuni primitivisti “sprecato”) nel tentativo di dare un significato a quella tensione che sento essere la mia vita, tesa come un elastico tra lo ieri e il domani (“come troppo poco burro spalmato su una fetta troppo grande di pane” avrebbe detto Bilbo Baggins). Essendo io questo mio progetto, ovvero il mio tentativo di agire liberamente, sottraendomi ai condizionamenti di un universo determinista che cerchiamo in ogni modo di beffare, un giorno non basta mai: saranno sempre “i giorni” a rendere ragione di questa mia esistenza, e la ripetitività del giorno animale sembrerà ai miei occhi la peggiore delle maledizioni.

Questo è il principale motivo per il quale “essere un progetto” si traduce nel “creare (oppure “vedere”, dipende se siamo costruttivisti o meno) problemi”. La creatura che fa di sé un progetto vede/crea ovunque problemi. A ben pensarci è inevitabile: l’animale non vede né crea problemi, dal momento che vive: non c’è un domani da conquistare oppure un passato da farsi perdonare, non c’è errore a cui rimediare o obiettivo da raggiungere, c’è solo l’adesso da accettare e incarnare. Potremmo addirittura azzardarci a dire: vivere nell’attimo presente è la cosa più naturale e spontanea del mondo, e perciò non crea problemi, dal momento che non è un problema; vivere come un progetto è un atto artificiale, innaturale, ed è proprio per questo che crea problemi. È problematico stare in quella tensione tra il passato e il futuro poiché non è affatto una cosa “naturale” (per quanto possiamo disquisire sui fondamenti di questo concetto), ma è un atto che io compio sulla mia stessa vita. Quella tensione, quell’essere un progetto, sta alla base del modo con cui attribuiamo significati agli eventi del mondo: cos’altro è il significato se non la rappresentazione di quella tensione che ci impregna, se non il tentativo di racchiudere in poche parole ordinate (in un progetto) la complessità caotica e disordinata del mondo? “Essere un progetto” conterrà sempre l’atto di “creare problemi” poiché il progetto non è “del mondo”, ma è “della mia mente”: tutti i problemi che viviamo, sia in termini collettivi (l’ambiente, la pandemia, la violenza) che in termini individuali (il lutto, il rimorso, la perdita), sono almeno in parte prodotti dalla mia stessa attività, dal mio considerarmi una creatura “non per un solo giorno”.

Ecco allora che la vita di “creatura-come-progetto” si sviluppa verso il tentativo di trovare soluzioni a quegli stessi problemi che, in parte, mi sono creato. L’uomo è inevitabilmente iatrogeno: produce i problemi che poi si incarica di risolvere, come il medico che, tentando di trovare la cura della malattia, porta alla proliferazione dei sintomi (ma, speriamo, non alla vittoria della malattia). Ma la caratteristica fondamentale di questa creatura è che una buona parte dei problemi li eredita da altri: prima che il denaro, i tratti somatici o l’accento regionale, dai nostri genitori e antenati, dalla nostra comunità e cultura, ereditiamo i problemi prodotti da chi, prima di noi, ha trovato soluzioni a problemi ancora precedenti. Chi ha ereditato il problema della fame ha prodotto la soluzione delle coltivazioni intelligenti, producendo anche il problema della scarsità di terreno abitabile e della deforestazione; chi ha ereditato il problema delle infezioni ha prodotto la soluzione dell’igiene pubblica e delle cure medicali, producendo al tempo stesso il problema della resistenza antibiotica e della debolezza immunitaria; chi ha ereditato il problema dell’indigenza energetica, ha prodotto l’ottimizzazione del consumo e della produzione di energie più efficienti ma al tempo stesso il problema del cambiamento climatico. E via dicendo. Essere un progetto significa ereditare problemi, trovare soluzioni e produrre altrettanti problemi, sperando che siano risolvibili quanto quelli da noi affrontati.

Ed è proprio a causa di questa catena concettuale (nella quale, mi perdonerà il lettore, ci siamo lasciati andare a semplificazioni inevitabili) che si arriva a comprendere che cosa sia la moralità. Morale infatti, diceva Ayn Rand, non è scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Morale è riconoscere un problema, spendere la propria vita per trovare una soluzione, mettere a disposizione la propria soluzione a tutti gli altri per evitare all’umanità di ricominciare sempre da zero. E, in questo processo, garantire anche un giusto guadagno a chi ha trovato quella soluzione per spingerlo a trovarne ancora. La moralità sta nel considerare il proprio impatto positivo su quelli che stanno intorno a me, ma anche dopo di me: pensate a quale inferno sarebbe vivere da creature umane, ovvero creature-progetto, e dover sempre ricominciare da zero di fronte ad ogni problema scorto all’orizzonte. Grazie all’incapacità di vivere “un giorno”, ovvero alla natura progettuale della nostra esistenza, noi conduciamo la nostra vita fruendo in continuo di migliaia di micro e macro-soluzioni che altri, decine o centinaia di anni fa, hanno trovato e messo a disposizione della posterità: dalle più evidenti, quali la penicillina e il motore a combustione, alle meno evidenti, come le viti auto-avvitanti e le vernici non tossiche; dalle soluzioni tecnologiche come gli schermi LCD e il GPS, a quelle artigianali quali il cartongesso o il velcro. Esistere dovendo re-inventare ogni volta da capo tutto ciò significherebbe sprecare la propria vita trovando cose che già altri, prima di noi, avevano individuato.

Questo processo è ciò che ci permette di definire l’essere umano come la creatura morale per eccellenza: la moralità è l’atto di non farsi bastare un giorno, ma considerare la propria esistenza come la tensione tra ciò che c’era ieri (i problemi e le soluzioni) e quello che potrei lasciare io domani (i problemi e le soluzioni). Morale è dare il proprio contributo affinché i nostri discendenti non siano costretti a trovare un’altra volta le soluzioni che noi stessi abbiamo trovato, e questo lo si fa soltanto considerando la propria vita come un progetto: al tempo stesso individuale (perché sono io a disegnare la strada che mi porterà al domani) e collettivo (perché il mio agire impatta su tutti quanti, sia nelle cose positive che in quelle negative).

Morale perciò non è denunciare i problemi creati da una generazione precedente la nostra, perché a ben guardare sono molte di più le soluzioni che quella generazione ci ha lasciato. Morale non è predicare la necessità di “non impattare” poiché l’impatto (inteso come la traccia che lasciamo sulla storia) è l’inevitabile effetto collaterale di chi tenta di tramandare soluzioni al fine di consegnare qualcosa di buono ai posteri, evitando loro di riavvolgere il nastro dall’inizio.

Riconosci i problemi che erediti, scervellati per trovare delle soluzioni, sii il più possibile consapevole dei problemi che creerai cercando quelle soluzioni, e poi tramandale, magari ritagliandoti con questo una fettina di felicità in più dentro questa strana esistenza.

Vivere un giorno nella vita è immorale.

Essere un progetto, al contrario, è l’essenza stessa della moralità.

Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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