A MISURA DELLO SMISURATO: BREVE GUIDA FILOSOFICA PER AFFRONTARE I DRAGHI

3778299749_3526700907_bRICCARDO DAL FERRO

C’era un mondo completamente a disposizione, c’era la convinzione che ogni cosa fosse a portata di mente, di parola, di concetto, c’era la visione di un essere umano che potesse misurarsi con ogni evento del cosmo. E poi ci siamo svegliati tutti sudati.

Il sogno razionalista di un mondo a misura d’uomo ci ha fatto dimenticare che l’uomo non è a misura di cosmo, ma soltanto a misura di sé. E il risveglio da questo sogno è stato brusco, ricordandoci che i confini esistono e che oltre quelle linee tracciate non arbitrariamente le ombre sono smisurate, mostruose, gigantesche e senza forma. Il brusco risveglio lo si osserva nell’attualità politica, dove la violenza erompe non nonostante bensì in virtù delle conquiste scientifiche del nostro tempo; lo si vede nella crisi filosofica di un Occidente impotente di fronte allo spostamento dell’asse globale verso est; lo si subodora nell’infragilimento democratico di cui la pandemia Covid è solo la proverbiale goccia che rovescia il vaso.
Insomma, ci siamo svegliati e siamo ancora intontiti dal profondo sonno, ma ci risulta sempre più chiaro il fatto che i draghi esistono e non eravamo preparati ad affrontarli.

Nell’antichità, “hic sunt leones” oppure “hic sunt dracones” era la frase scritta sulle mappe, oltre i confini di ciò che era conosciuto. Si trattava del monito dedicato ai viandanti e agli esploratori, un monito che presupponeva un fatto sconcertante e conclamato: non tutto era stato esplorato, ovvero c’era una porzione di realtà di cui non potevamo sapere nulla, al massimo inventare storie. Oltre il confine della nostra “misura”, oltre quello di cui avevamo rappresentazione, c’era l’informe che soltanto potevamo immaginare: il Drago, la belva ferina, il Mostro, l’ignoto. Era un concetto familiare a chi sapeva di avere mappe imperfette e approssimative, a chi ammetteva che oltre l’orizzonte c’era ancora molto da vedere, sia di meraviglioso che di terribile. Ed è un’idea che mano a mano si è assottigliata, per lasciare spazio all’arroganza dello smisurato, che oggi iniziamo a pagare a caro prezzo.

Ad un certo punto della storia, le mappe hanno iniziato a perfezionarsi, a completarsi: gli strumenti scientifici hanno permesso di assottigliare lo iato tra il territorio e la rappresentazione del territorio, rendendo più affidabili le mappe (non solo quelle geografiche, ma quelle scientifiche, linguistiche, filosofiche, concettuali), e i mezzi di esplorazione hanno chiuso il mondo e saputo disegnare ogni profilo, ogni promontorio, ogni isola presente sul nostro orizzonte. Ci siamo crogiolati nella duplice idea che il mondo fosse un posto chiuso e finito, e che il nostro intelletto fosse a misura di cosmo. Ci siamo convinti che i Draghi non esistessero e che i confini fossero tutti arbitrari. Abbiamo cambiato atteggiamento e cancellato lo spazio oscuro che nell’antichità era occupato dall’ignoto, pensando che, in fin dei conti, tutto quello spazio fosse pronto per essere abbrancato e rappresentato. Il grande sogno razionalista occidentale.

Sono tre gli autori che nel 900 hanno saputo denunciare, in modi diversi, questa tendenza alla smisura che l’essere umano ha incarnato dopo la rivoluzione scientifica: Günther Anders, Carl Gustav Jung e Viktor Frankl.

Anders, nel suo testo L’uomo è antiquato, descrisse il nazionalsocialismo come il trionfo dell’idea secondo cui la mente umana sia capace di sopportare qualsiasi quantità e qualità di Realtà. La “fabbrica di cadaveri” rappresentata dai lager nazisti, secondo Anders, partiva dal presupposto che la creatura umana possa sopportare non solo l’idea o l’esperienza di un cadavere, ma di dieci, mille, milioni di cadaveri, senza per questo venirne sconquassata. Anders ci ricorda, al contrario, che la misura di sopportazione della nostra mente e del nostro animo fatica ad immaginare una persona morta, figuriamoci dieci o cento persone morte: l’etica non è inventata arbitrariamente e i suoi confini sono il risultato di un dato di fatto, di un limite disegnato sulla base di come funzioniamo. Il collasso del nazionalsocialismo è in primo luogo da imputarsi a questo fraintendimento: “hic sunt dracones” era scritto a chiare lettere di fronte al folle progetto hitleriano, ma qualcuno decise di non dare importanza a quelle parole, e la Germania e l’Europa furono inghiottite da un Drago di impensabili dimensioni.

Jung, dal canto suo, anticipò di qualche anno questa consapevolezza quando si rese conto che il simbolo ha la funzione di rappresentare in modo efficace proprio quei confini, e che l’immagine del “Drago” non è semplicemente una convenzione, ma la traccia di qualcosa che perdura nel tempo, nella cultura e nell’animo dell’uomo. Non immaginiamo draghi perché ci è stato insegnato durante l’infanzia, ma perché il simbolo si manifesta come orma millenaria che ci dà la misura di quel che siamo e dei pericoli che fronteggiamo. L’arroganza della smisuratezza incarnata dall’uomo moderno ha avuto l’ardire di considerare i simboli come semplici figure effimere e prive di valore, ma ciò che scopre Jung durante il suo percorso di auto-analisi (il famigerato “Libro Rosso”) è che i simboli sono sedimenti antichi utili a tracciare percorsi sulle mappe della nostra vita e che un uomo privo di simboli è un uomo pronto a venir travolto dalla Realtà.
Di nuovo torna il tema della misura: il Simbolo ha la funzione di collocarci in un contesto, di dare casa alle nostre rappresentazioni, di tracciare un confine oltre il quale tutti i segnali ci dicono che è meglio non spingersi. L’uomo moderno, figliol prodigo dei propri Simboli, considera ogni confine e ogni misura come arbitrari e perciò artificiosi, opzionali, e si convince di potersi misurare con qualsiasi cosa. Finché si misura con le sue stesse rappresentazioni tutto sembra procedere bene, ma quando tenta di misurarsi con ciò che sta oltre i confini, ignorando i Simboli di cui la storia lo ha circondato, a quel punto la Realtà è pronta a travolgerlo.

Infine Viktor Frankl che, da sopravvissuto ai campi di sterminio, dà un significato nuovo alla locuzione “senso della vita”, intendendo con questa espressione la necessità dell’individuo di ritrovare la misura entro cui agire. Anche secondo Frankl il problema della smisuratezza e dell’incapacità di dare valore ai propri limiti è un fattore decisivo nella sensazione di smarrimento dell’uomo contemporaneo. Nel testo “L’uomo in cerca di senso”, Frankl compie l’analisi di quello smarrimento partendo dal presupposto che l’essere umano è una creatura limitata e che “pensare” significa prima di tutto essere consapevole dei propri limiti. Un po’ come il marinaio di John Locke, il cui lavoro è quello di scandagliare il fondo con un filo di piombo per poi arrivare ad un abisso troppo profondo per quel filo, il filosofo deve essere consapevole che il proprio intelletto arriva solo fino ad un certo punto, ed entro quel limite deve trovare il proprio senso.

Quel senso, il significato che ognuno di noi attribuisce alla vita, esiste in contrasto con quello che sta al di fuori. “Hic sunt dracones” non è soltanto un segnale di avvertimento per un pericolo imminente, è anche il confine entro cui l’individuo può trovare la propria dimensione esistenziale: non volendosi misurare con il mondo e le utopie, ma con il suo talento e i suoi difetti; non con il senso di onnipotenza e immortalità, ma con la consapevolezza che prima o poi morirà; non con il presupposto di poter raggiungere ogni luogo e ogni tempo, ma con il senso di limitatezza, nella durata e nello spazio. Un’etica del limite è quella che ci viene proposta dal segnale di avvertimento “hic sunt dracones”, un’etica che si sbarazzi della convinzione che raccontandoci le cose nel modo giusto tutto sarà possibile.
No, non tutto è possibile, tutto però è a portata di mente all’interno dei propri limiti.

Questo non significa che i limiti non vadano mai messi in discussione: l’esploratore si arrischierà sempre oltre i confini del mentale e geografico per ampliare la propria sfera d’azione. Ma nell’etica del limite lo farà consapevole di star prendendo un rischio e che oltre i suoi limiti ci sono i Draghi, c’è l’informe, c’è l’ignoto. Presupponendo, insomma, che non tutto è a disposizione del nostro agire, e agire di conseguenza senza credersi una divinità.

Forse è giunta l’epoca desiderata da Ricardo Peter, quando scriveva: “La coscienza del limite è qualcosa di più della presa di coscienza e dell’accettazione dei propri limiti. È il cammino dell’uomo in quanto tale. Nella coscienza del limite l’uomo si apre e si orienta verso la sua umanità. Essere umani è la vera meta a cui si dirige il nostro essere.”
Forse, i problemi che stiamo vivendo sono il risultato dell’aver sopravvalutato le nostre capacità: cambiare il mondo non è nelle mie corde, ma cambiare me stesso sì; considerare il mondo come prodotto della mia mente non è una buona idea, ma considerare la mia mente come prodotto del mondo sì; credermi immortale, smisurato, imbattibile non è la strada corretta, ma sapermi fragile, imperfetto e migliorabile potrebbe portarmi un minimo di serenità. I Draghi lì fuori non sono il pretesto per il dominio di qualcuno, ma sono un monito alla mia individualità: considerare i miei limiti e accordarli ai limiti altrui significa dare voce alle possibilità di ognuno, ed entro i nostri confini disegnare una vita a misura umana.

Imagine: “Hic sunt dracones” by Rrrodrigo is licensed with CC BY-NC 2.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by-nc/2.0/

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