“TEMPO DA DRAGHI”: L’ANTROPOCENE E LA TERRA INCOGNITA DELLA NOSTRA NONCURANZA

33184046462_7fef0950e1_bFERDINANDO MENGA

 

I

Da qui in là … i leoni, oppure i draghi; insomma, i tendenzialmente sconosciuti, i probabilmente pericolosi, certamente quelli da temere e che, in ogni caso, è bene tenere a debita distanza. Con essi non dobbiamo mescolarci. O meglio, a rigore, non possiamo neppure mescolarci, giacché entrare nel loro territorio implicherebbe varcare un confine che ci condurrebbe in habitat popolati da entità disuman(izzat)e, che possono acquisire tanto fogge animali, quanto figurazioni fantastiche. È una demarcazione spaziale, questa, come sappiamo, ricca di storia, di sapore mitologico e di stilemi narrativi che occupano quella soglia che separa, in modo oscillatorio, l’esperienza del fascinoso e del tremendo.

Oggigiorno, a ben vedere, una tale demarcazione disumanizzante potrebbe detenere anche una sua peculiare connotazione non soltanto spaziale, ma anche temporale. Una delimitazione tale, però, non tanto da circoscrivere ciò che, da un certo punto in poi, mette in moto ataviche reazioni di paura o terrore, quanto piuttosto da segnare l’inizio dello sconfinato tempo a partire dal quale possiamo dar libero sfogo al nostro disinteresse e alla nostra noncuranza. Insomma, per dirla in soldoni: non “da questo punto in poi” c’è da aver paura, bensì “da questo momento in poi” possiamo infischiarcene.

Nell’epoca dell’Antropocene e dell’emergenza ambientale che stiamo vivendo, l’elevata posta in gioco di siffatta demarcazione temporale è ormai sotto gli occhi di tutti: salvare o condannare il pianeta è legato a doppio filo all’impegno o disimpegno nei confronti dei destini dei nostri discendenti prossimi, ma anche remoti – discendenti i quali hanno altrettanto diritto quanto noi di godere appieno di esistenze degne di essere vissute in un ambiente tendenzialmente salubre. Hanno cioè diritto, per dirla con la forte espressione dell’intellettuale francese – recentemente scomparso – Bernard Stiegler, a non essere trattati come una “necromassa noetica”, ovvero come un più o meno indistinto “insieme di esseri viventi dotati di ragione”, la cui dimensione vitale è ormai pensata a partire dalla nuova condizione trascendentale di un mortifero sopravvivere e il loro spazio d’azione irrimediabilmente condannato all’accontentarsi dei nostri pochi e avvelenati resti. O, come Stiegler più precisamente lo chiama: un “nutrirsi delle tracce accumulate dai loro avi”.

II

Semmai ce ne fosse bisogno, è la crisi pandemica attuale a offrirci rinnovata prova della grande posta in gioco che si consuma nella connessione appena evocata fra emergenza ambientale e questione della responsabilità intergenerazionale.

La crisi pandemica che stiamo attraversando, in effetti, ci sta insegnando molte cose. Tra le tante, ci ha messi e ci sta mettendo di fronte, in modo inesorabile, alla fragilità attorno a cui ci siamo scoperti tutti accomunati. Vulnerabilità che l’imperante discorso del nostro tempo, votato al progresso e al benessere, ha sempre cercato, in diversi modi, di dissimulare.

L’attuale crisi dovrebbe però farci udire anche un altro monito, forse meno appariscente, ma, non per questo, meno urgente: l’evento della pandemia dovrebbe insegnarci infatti che la fragilità or ora evocata non è, in alcun modo, esclusivo appannaggio degli individui che abitano il nostro presente, ma piuttosto condizione che lega noi contemporanei ai fragili destini del pianeta e alle sorti, per nulla “magnifiche e progressive”, ma altrettanto precarie, degli abitanti futuri che popoleranno la terra. Abitanti futuri che, in effetti, potrebbero avere ben diritto a vivere esistenze individualmente significative e piene, vite riferite a nomi con storie singole e singolari degne di racconto, piani di realizzazione perseguibili; non, invece, esistenze – come appena rilevato attraverso le parole di Stiegler – condannate a essere confinate e ammassate nell’indeterminata discarica di un futuro informe: terra incognita, o meglio, tempo incognito della nostra noncuranza.  

III

Come abbiamo esperito negli ultimi tempi – e come, peraltro, ci ha ricordato sempre lo stesso Stiegler nel suo ultimo libro (Qu’appelle-t-on panser? 2. La leçon de Greta Thunberg) – è stata soprattutto l’azione di protesta di molti giovani – di Greta Thunberg e dei suoi Fridays for Future – ad averci rammentato, in modo inesorabile, che abbiamo un obbligo indifferibile nei confronti dei fragili destini del pianeta e delle precarie sorti delle generazioni future.

E se si approfondisce il filo rosso che attraversa la crisi pandemica odierna e l’azione di protesta di queste ragazze e questi ragazzi, probabilmente, si potrebbe cogliere una comune dinamica assai peculiare e, oserei dire, inconsueta per la nostra contemporaneità: gli spazi pubblici e gli ordini politici attuali si ritrovano interpellati a partire da istanze di vulnerabilità divenute oramai troppo pervasive e ingombranti per essere sottaciute. Sono istanze, queste, che incalzano a un necessario cambio di rotta nel corso corrente delle cose e, così facendo, invitano alla figurazione di un futuro alternativo. Per dirla con maggiore enfasi, è come se, in tali icone di vulnerabilità, a rendersi udibile e presente fosse una sorta d’ingiunzione verso un poter-essere-altrimenti del mondo: un futuro altro che intima a lasciar spazio, per davvero, a un futuro degli altri; cioè, a un avvenire che non si limiti più a essere spazio residuale accordato a gentile concessione di noi contemporanei.

Peraltro, che la marginalizzazione dei più vulnerabili, nonché il sacrificio dei futuri, costituiscano il tendenziale risvolto di ogni forma d’impresa comunitaria a corto respiro – come quella tipica delle nostre democrazie contemporanee – è considerazione già magnificamente effettuata da Nietzsche, qualche secolo fa, allorquando al suo Zarathustra – che, non a caso, è descritto come amico degli animali e alleato dei futuri – mette in bocca le seguenti parole: «I più lontani devono scontare il vostro amore del prossimo; e già quando siete radunati in cinque, deve sempre morire un sesto».

Più che mai profetica si rivela, quindi, questa descrizione nietzscheana alla luce degli eventi che stanno solcando il palcoscenico della nostra epoca attuale: epoca in cui è l’intervento dell’uomo a decidere le sorti del pianeta e i destini dei suoi abitanti tanto del futuro prossimo, quanto – se non soprattutto – di quello remoto.

IV

L’appello di Greta a favore dei vulnerabili di domani, ma anche l’ingiunzione dei vulnerabili di oggi, veicolata dall’emergenza pandemica che stiamo attraversando, ci impongono così di pensare a un vero e proprio rivolgimento etico nel segno di una politica rivolta alla “cura” delle fragilità che legano intimamente presente e futuro.

Attualmente, peraltro, si sta parlando moltissimo di recovery fund o recovery plan. E, come sappiamo, uno dei sensi del lemma recovery rinvia esattamente all’area semantica del “guarire”, del ristabilire da uno stato d’indigenza.

Ma qui la scommessa sta, di nuovo, proprio sull’intendersi circa l’estensione stessa dello spazio d’accoglienza a cui una tale misura intende applicarsi. Insomma, la domanda è: cura per l’indigenza di chi? A chi, in ultima istanza, sarà concesso di far parte della schiera di quei titolari di vulnerabilità, a cui l’azione di recovery appunto si impegna a rispondere?

L’evento pandemico, proprio perché esperienza diffusa e pervasiva, che ci ha esposti a un legame di fragilità condivisa, non dovrebbe legittimare un’opzione politico-culturale che si limita a guardare ancora soltanto ai presenti. Non dovremmo, cioè, proseguire lungo la scia di ciò che il filosofo ambientalista statunitense Stephen Gardiner definisce, a ragione, l’ormai endemico atteggiamento delle democrazie odierne a perpetrare una «tirannia dei contemporanei» ai danni del pianeta e a detrimento dei futuri.

Peggio ancora, la crisi pandemica attuale non dovrebbe essere utilizzata, addirittura, come espediente per un atteggiamento istituzionale che mette nuovamente tra parentesi le esigenze dei posteri a motivo di un’emergenza dal carattere eccezionale, tale da imporci di dare assoluta precedenza agli indigenti di oggi. La logica della “situazione eccezionale”, che giustifica con buona coscienza – e con le proverbiali migliori intenzioni – una politica della procrastinazione ai danni dei futuri si rivela un pendio scivoloso tanto seducente, quanto pericoloso.

La situazione d’estesa e condivisa difficoltà che stiamo vivendo a livello planetario dovrebbe spingerci, invece, a un cambio radicale di paradigma. Insomma, l’esperienza di trasversale precarietà, che stiamo affrontando, dovrebbe condurci non a sospendere, ma ad approfondire, piuttosto, l’alleanza tra i vulnerabili di oggi e i vulnerabili di domani. 

V

È un messaggio, questo, che, si badi bene, non ci proviene soltanto da eteree speculazioni filosofiche. In fondo, esso richiama – giusto per citare un esempio – il monito sotteso all’intero discorso tenuto, l’agosto scorso, da Mario Draghi al Meeting di Rimini, allorché questi, anziché soffermarsi su tecnicalitàeconomiche, ha preferito virare l’attenzione sulla necessità di giungere a un «momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire», pronta ad attuare «riforme anche profonde dell’esistente» e spinta da «una ragione morale che» fa perno su questo punto: cioè che «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza».

È un monito etico, questo di Draghi – probabilmente, uno come Derrida non avrebbe mancato di soffermarsi, qui, su una così vistosa coincidenza (o riapparizione) spettrale dei dracones –, che ci riporta proprio nel quadro di quanto sopra tematizzato. Monito che, peraltro, non risulta per nulla distante dal tono dell’oramai celebre How dare you!”Speech pronunciato da Greta Thunberg, il 23 settembre 2019, alle Nazioni Unite. Certamente, lo stile adottato dalla giovane attivista è meno compassato e sobrio rispetto a quello dell’ex presidente della Bce, ma si sofferma, in fondo, sul medesimo avvertimento. Anzi, la schiettezza della sua conclusione ne trasmette, con impareggiabile enfasi, tutta l’urgenza e perentorietà. Così esclama Greta: «Gli occhi di tutte le generazioni future vi sono addosso; e vi dico: se scegliete di deluderci, non vi perdoneremo mai!».

VI

Ora, di questo senso d’obbligo oramai epocale, la cui altissima posta in gioco è il destino stesso dei futuri, ne dobbiamo fare qualcosa, a meno di non voler imitare, come nella celebre scena già precedentemente evocata dello Zarathustra di Nietzsche, gli ultimi uomini: sì, gli ultimi uomini, i quali, all’altrettanto epocale annuncio della morte di Dio, rispondono facendo finta di niente e limitandosi a una strizzata d’occhio. Peraltro, non voglio dilungarmi qui in ulteriori e curiosi parallelismi, là dove, per esempio, sempre nella scena or ora richiamata, Zarathustra dipinge l’ambiente abitato dall’ultimo uomo in un modo che qualche inquietante similitudine la getta sul nostro presente. Così esclama Zarathustra: «La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, colui che tutto rimpicciolisce. […] [L’ultimo uomo] ama anche il vicino e a lui […] si strofina».

Come sappiamo, però, se c’è un qualcosa che, per Zarathustra, può redimere e portare oltre l’ultimo uomo, questo qualcosa passa innanzitutto per l’esercizio di apprendimento e pratica di un amore dei lontani e dei futuri.

Così si interroga il profeta dell’oltre-uomo: «Forse che io vi consiglio l’amore del prossimo? Preferisco consigliarvi la fuga dal prossimo e l’amore per il remoto! Più elevato dell’amore del prossimo è l’amore del remoto e futuro: più elevato dell’amore per gli uomini è l’amore per le cose e i fantasmi. Il fantasma che corre via davanti a te, fratello, è più bello di te: perché non gli dai la tua carne e le tue ossa? Ma hai paura e fuggi presso il tuo prossimo».

Questo passo richiederebbe un commento attento e dettagliato. Ma mi limito qui soltanto a concludere con l’esprimere un desiderio: mi piacerebbe pensare, infatti, che nella schiera delle figure fantasmatiche che ci corrono davanti, e a cui Nietzsche raccomanda di dedicare anima e corpo, possano entrare a far parte anche tutte quelle entità fantastiche che popoleranno il nostro tempo futuro: che abiteranno – come a dire –, finalmente, un “tempo da draghi”.

Immagine: “Thames Wapping foreshore – Anthropocene Atlas” by neil cummings is licensed with CC BY-SA 2.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

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