DALLE PRIMAVERE ARABE ALLA POSSIBILITÀ DI UNA CULTURA POLITICA MEDITERRANEA
ALESSIO LO GIUDICE
Nel mondo occidentale, ed europeo in particolare, l’espressione Hic sunt dracones! può indicare ancora oggi un atteggiamento radicato che va ben al di là delle leggende cartografiche dell’era premoderna. Un atteggiamento che non è certamente generato dalla rappresentazione idealtipica di uno straniero generico o di terre semplicemente inesplorate. Si tratta, invece, di una tendenza emotiva prodotta dalla percezione dell’estraneità quale caratteristica che sarebbe in grado di contraddistinguere certi stranieri e non altri, certe terre e non altre. Basterebbe questo per comprendere come lo straniero non equivalga necessariamente all’estraneo. Essendo, il primo, prodotto di una qualificazione politica, a differenza del secondo che sorge in virtù di un’esperienza esistenziale, seppur possibilmente fondata su elementi di tipo religioso, morale e culturale nel senso più ampio del termine. In relazione all’estraneo, che per il mondo europeo è prevalentemente (nonostante importanti differenze) colui che vive nelle terre africane, arabe e orientali, si apre, entro una certa misura, l’orizzonte di significati evocato dalla famigerata indicazione sulla mappa: Hic sunt dracones! Si tratta di mondi che contengono, nella percezione diffusa, un ché di ignoto e pericoloso. Con tutte le conseguenze reattive (e spesso ostili) che così si producono nei rapporti con tali mondi, come è testimoniato dalla prevalente rappresentazione del fenomeno della migrazione come problema.
Da un punto di vista politico-giuridico, la percezione di estraneità a cui ho fatto riferimento si alimenta anche in virtù della tradizionale distanza, dalla forma democratico-liberale, di gran parte degli assetti istituzionali in vigore nei mondi citati (con importanti eccezioni, come nel caso del Giappone). Per questa ragione, riflettere su alcune vicende relativamente recenti, potenzialmente in grado di ridurre tale distanza, potrebbe tornare utile al fine di demistificare la categoria stessa dell’estraneità. Al fine, cioè, di coglierne, quanto meno da un punto di vista politico e giuridico, un tratto strutturalmente dinamico e contingente, in contrapposizione a qualsiasi lettura essenzialista. Il focus su cui intendo soffermarmi si localizza, in senso geopolitico, nell’ambito del Mediterraneo, e ha per oggetto le condizioni di possibilità per la costruzione di una comune cultura politica entro tale contesto.
Come è noto, nella riflessione sorta intorno alla costruzione di una cultura politica in grado di includere le popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo, un particolare rilievo è stato attribuito ai processi di cosiddetta democratizzazione che hanno riguardato (circa 10 anni fa) alcuni Paesi della sponda meridionale. Scarseggia, invece, o, quanto meno, non assume la portata di una riflessione ampia e sistematica, l’analisi intorno alla possibile istituzione dello Stato di diritto, dei suoi principi e delle sue dinamiche, negli stessi luoghi del Mediterraneo meridionale nei quali si è tentato di determinare un’inversione storica rispetto a una tradizione politica di stampo autoritario. Da questa constatazione, in qualche modo generica, traggo spunto per riflettere sul senso stesso e sulle potenzialità, in prospettiva, di una comune cultura politica mediterranea. Credo sia superfluo sottolineare quanto sia importante la traduzione istituzionale di questa riflessione rispetto alle questioni che oggi sono di interesse generale dal punto di vista pratico (al netto della crisi pandemica): dalla sicurezza internazionale alla gestione dei fenomeni migratori, passando attraverso l’attuale disordine geopolitico per giungere al futuro stesso dell’esperimento istituzionale denominato Unione Europea.
L’enfasi posta sui processi di democratizzazione, a discapito dell’attenzione intorno all’istituzione dello Stato di diritto, ci ricorda la necessità di distinguere tra democrazia e Stato di diritto. Al netto delle molteplici accezioni di questi termini e delle molteplici configurazioni del rapporto che tra essi storicamente esiste, sul piano descrittivo e, per quanto possibile, avalutativo, si può pensare alla democrazia come quella forma di governo che individua nel popolo il soggetto sovrano legittimo. La democrazia ha quindi comunque a che vedere con l’individuazione del soggetto e dei soggetti legittimati ad esercitare il potere. Lo Stato di diritto, invece, comprende soprattutto quel complesso di principi, norme e procedure che, regolando gli ambiti e le modalità di esercizio del potere, garantisce uno spazio di libertà e di azione al soggetto privato, inattaccabile dagli altri soggetti individuali e soprattutto da chi detiene il potere politico. Si possono precisare i nessi, i reciproci condizionamenti, apparentemente inestricabili, tra democrazia e Stato di diritto (autogoverno, separazione dei poteri, diritti civili, politici e sociali). Tutto questo non comporta comunque la loro sovrapposizione sistematica. Da una parte abbiamo a che fare con la fonte del potere politico, dall’altra con i limiti del suo esercizio. Del resto, tanto la concezione democratica moderna quanto quella relativa allo Stato di diritto scaturiscono, attraverso percorsi diversi, dai lumi europei, dalla passione ragionevole di Rousseau e dalla diversa razionalità di Locke, Kant e Montesquieu.
Con questa griglia concettuale, relativa alla distinzione tra democrazia e Stato di diritto, propongo di leggere il fenomeno, relativamente recente, che, più di altri, ha reso evidente la possibilità di tornare a riflettere su una cultura politica mediterranea. Mi riferisco, naturalmente, alle Primavere arabe. E cioè a quelle mobilitazioni che tra il 2010 e il 2011 hanno coinvolto ampi strati delle popolazioni della sponda meridionale del Mediterraneo, in Tunisia, in Egitto e in Marocco ad esempio, innescando processi che in quei giorni venivano chiaramente qualificati come democratici. Vi erano, in queste aree, regimi autoritari che godevano del sostegno dei Paesi occidentali, un sostegno che dopo l’11 settembre si era notevolmente rafforzato. Regimi che si basavano su una sorta di patto sociale in cui, pur negandosi diritti civili e politici, si garantiva un moderato benessere. Le rivolte del 2011 non sono, di certo, giunte dal nulla. Le ha generate, infatti, una miscela esplosiva di corruzione, diseguaglianza e nepotismo, che la crisi economica globale ha contribuito a innescare. Se si rileggono alcuni commenti scritti nel 2011, 2012 e anche 2013, la distanza che oggi ci separa da quegli eventi, e anche dalla lettura e dalla interpretazione che se ne dava, pare abissale. Si comparavano gli indignados di Madrid con ciò che accadeva in Egitto, al Cairo, in piazza Tahrir. Oggi, i più sostengono che la gran parte di quei movimenti abbia prodotto molto poco. Alcuni, anzi, sottolineano come, a parte i casi più drammatici e peculiari di vera e propria guerra civile (Libia e Siria), negli altri Paesi ci sia stato un ritorno all’ancien regime. Altri, ancora, constatano come, comunque, delle Primavere arabe abbiano beneficiato essenzialmente gli islamisti che mirano all’imposizione della legge islamica come legge suprema dello Stato. In particolare, in Marocco e in Egitto, ma anche in Tunisia, nelle prime elezioni libere e democratiche si è registrata una vittoria dei partiti e dei movimenti islamisti. Movimenti o partiti che, anche quando non palesano l’obiettivo esplicito di trasformare in senso islamico lo Stato, una volta giunti al potere favoriscono, in ogni caso, le condizioni per una islamizzazione dal basso della società. Un processo, quello appena descritto, che ostacola in molti casi l’istituzione dell’assetto tipico dello Stato di diritto, poiché l’utilizzo della Sharia, sebbene astrattamente coerente con la logica della limitazione dell’esercizio del potere, si contrappone, in realtà e in linea generale, alla tutela della libertà e dei diritti del soggetto, cioè all’obiettivo ultimo dello Stato di diritto. Una contrapposizione che si spiega in virtù del diverso interesse, rispetto allo Stato di diritto, che la Sharia tutela. Esso non coincide, infatti, con quello dell’individuo, bensì con quello dell’Ummah, cioè della comunità dei fedeli. Sembra quindi che l’introduzione di elezioni libere non riesca ad impedire l’emergere dell’islamismo. Anzi pare proprio che lo favorisca. Di conseguenza, si potrebbe sostenere che, in molti casi, il processo innescato con le Primavere arabe sia stato in grado di incidere in senso democratico sul principio di legittimazione del potere, ma senza produrre quel peculiare sistema di limiti all’esercizio del potere stesso che è tipico dello Stato di diritto.
Se ci fermassimo qui, ci troveremmo di fronte a un ostacolo significativo rispetto alla possibilità di pensare una comune cultura politica nel Mediterraneo. Potremmo davvero scrivere nella nostra mappa concettuale: Hic sunt dracones! In realtà, le matrici culturali vanno considerate nel loro complesso e in ragione del loro carattere dinamico. È un caso, infatti, che ancora oggi, rispetto al fenomeno delle Primavere arabe, si parli di eccezione tunisina? La Tunisia è riuscita ad approvare una Costituzione rispondente agli standard della democrazia costituzionale, con un procedimento costituente che ha visto una partecipazione effettiva della società civile, e in virtù di un consenso tra i diversi partiti politici. Le prime elezioni erano state vinte dal partito religioso Ennahda, il quale però non ottenne la maggioranza assoluta nell’assemblea costituente e fu dunque costretto a negoziare con gli altri partiti. Successivamente, la Costituzione è entrata in vigore e si sono svolte le elezioni. Inoltre, quasi tutti gli organi previsti dalla Costituzione democratica sono stati regolarmente istituiti.
Certo, se andiamo a guardare più da vicino ciò che è accaduto in seguito in Tunisia, ci rendiamo conto di come il Paese non sia soltanto diventato un obiettivo primario del terrorismo internazionale, proprio a causa del successo della transizione democratica. Esso ha anche mostrato un’evidente vulnerabilità istituzionale. In altre parole, la democrazia costituzionale, il patto raggiunto, la Costituzione scritta in cui si trova un equilibrio tra tutela dei diritti umani, pluralismo e ruolo dell’Islam, sono ancora oggi estremamente fragili. Del resto, non è un caso che l’eccezione sia rappresentata dalla Tunisia, cioè dal Paese che ha adottato la prima Costituzione del mondo arabo nel 1861, e in cui si è costituito il primo Partito politico del mondo arabo nel 1920. Non è un caso perché siamo di fronte all’esito di un lungo processo di ibridazione culturale. Esempio di un complesso istituzionale meticcio alimentato da fonti che provengono dalle diverse sponde del Mediterraneo. D’altra parte, la fragilità dello Stato di diritto democratico in Tunisia fa il paio con la fragilità dell’assetto europeo, e non solo dell’UE. Infatti, lo Stato di diritto non è (diversamente) fragile anche in Europa? Basti pensare alla pervasività delle restrizioni alla libertà personale poste in essere, a seguito della minaccia terroristica, in Stati come la Francia o il Regno Unito, soprattutto a discapito dei cittadini che provengono dalla sponda meridionale del Mediterraneo. O si pensi, ancora, da una parte alle discutibili modalità con le quali analoghe restrizioni sono state imposte in molti Paesi europei a seguito dell’emergenza pandemica, e dall’altra alla destrutturazione stessa dello Stato di diritto in Paesi come l’Ungheria o la Polonia.
Tutto ciò può indurre a cogliere una diversa prospettiva riflettendo sulle potenzialità della comune cultura politica mediterranea. Le difficoltà, e anche i successi o le eccezioni, che incontrano i processi di trasformazione politica nel Sud del Mediterraneo si incrociano, infatti, con i molteplici fattori di crisi del contesto europeo e globale. Da questo stato di cose possono scaturire, e non è un paradosso, non soltanto le condizioni per un rinnovato dialogo culturale, ma anche l’esigenza pratica di guardare al Mediterraneo come uno spazio alternativo, dove sperimentare varianti politiche e istituzionali che siano ibride, che non cancellino le differenze elaborando invece il comune a partire dagli scarti, da ciò che è intraducibile. Varianti in grado di dare vita, appunto, a soluzioni inedite, come è il caso dello Stato democratico di diritto tunisino che incorpora l’ispirazione comunitarista della Sharia senza per questo recepirne le istanze illiberali. La cultura politica mediterranea, quindi, potrebbe essere intesa come lo spazio cosmopolitico del “sia… sia” e non dell’“aut… aut” radicale o dell’integrazione eurocentrica. Del resto, è già successo con il concetto di sovranità: tipico caso di ibridazione culturale tra oriente ed occidente sorto nell’area mediterranea. In fin dei conti, bisogna ricordare come la comprensione dello spirito di liberazione, incarnato dai ragazzi tunisini ed egiziani nel 2011, superò, nei nostri cuori, qualsiasi ostacolo culturale, qualsiasi barriera interpretativa, qualsiasi differenza di latitudine, qualsiasi riferimento a presunti dracones o leones.
Immagine: “Primavera araba sulla Prenestina” by Luca Di Ciaccio is licensed with CC BY-NC-SA 2.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/
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