FIORI DI STRADA TRA LE ROVINE: CHE NE È DELLA CITTÀ?

6375387505_40fe13b5b7_bANDREA RACITI

“Questo quadro dell’Attica, lo spettacolo che io contemplavo, era stato contemplato da occhi chiusi da duemila anni. Anch’io sono destinato a passare a mia volta: altri fuggitivi come me verranno a fare le stesse riflessioni sulle stesse rovine…” 

François-René de Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jerusalem

  1. Rovine ignote

“Hic sunt dracones” o “hic sunt leones”. Si tratta di due espressioni interscambiabili, entrambe alludono a un’indicazione su una mappa geografica di un luogo inesplorato. Queste locuzioni, secondo la tradizione, sarebbero state utilizzate nelle mappe antiche e medioevali; tuttavia, non  si è mai riscontrata alcuna occorrenza di simili espressioni su nessuna carta geografica.

Eppure, una simile indicazione avrebbe potuto avere un senso. Forse, può averne anche oggi, mutatis mutandis. In altre parole, potremmo farci carico della provocazione insita nell’ “hic sunt dracones” e riproporlo in forma interrogativa, chiedendoci:”Qual è la zona ignota, inesplorata, per noi?”. Il riferimento è sempre rivolto a un luogo, a un punto della nostra mappa reale – della nostra vita nel mondo – che il mondo potrebbe avere espunto dalla vita. O forse, quantomeno, celato al nostro sguardo. Si tratta di una semplice domanda, che, dopo una risposta secca, trapassa in un’ulteriore domanda. La zona ignota del nostro tempo è la città. Non possiamo sapere con certezza se ci sia divenuta ignota o se lo sia sempre stata. Ciò che è in discussione, non può venir dato per garantito. Bisogna mettersi in cammino verso qualcosa come uno spazio propriamente umano, che qui chiamo “città”. Con ciò non intendo riferirmi alle “città” che crediamo di abitare oggi, secondo uno schema inveterato di contrapposizione “città-campagna”. Rischieremmo di fare il passo falso che un’indagine si deve guardare dal compiere: di dare per garantito ciò che qui è messo radicalmente in questione. Non possiamo arbitrariamente presumere di abitare delle città, se davvero vogliamo appena incominciare a parlarne.

E iniziare a parlare di un concetto non astratto, ma che reputiamo concretamente esistente, tale che innerva le nostre vite e alligna nelle fondamenta del nostro soggiorno mondano, ci vincola a non operare facili quanto arbitrarie individuazioni. Hic sunt dracones: non vuol dire che la città “non esiste”, bensì che ci è ignota. Dobbiamo rendere perspicua a noi stessi questa situazione di ignoranza, non con l’uso di un fantomatico veil of ignorance  alla Rawls, ma riconoscendola con la parola e l’azione:  intraprendere il cammino vuol dire impelagarsi da sé in un viaggio senza aver preparato scorte e bagagli, prendendo le distanze innanzitutto dalle nostre certezze.

Il concetto di città dev’essere colto in rovina. Cogliere la città come rovina non significa affatto averne decretato la dissoluzione, la decadenza o lo strutturale sgretolamento. La rovina, al contrario, è il residuo, un resto inattingibile. Ciò che ri-mane è un resto che ci si presenta con vivida concretezza dinanzi agli occhi, ma che ciononostante e proprio per ciò, non possiamo attingere immediatamente. Non è soggetto alla nostra presa e alla nostra vis creativa. Sulle rovine, al massimo, si edifica, ci si costruisce sopra, non si svendono a nessun autore-creatore per  loro stessa natura.

La città come rovina. Ciò significa porsi la domanda:”Che ne è della città?”. Il punto interrogativo – se non è soltanto un segno d’interpunzione per declinare graficamente un tono di voce e un’intenzione in senso dubitativo – possiede anche un suo senso concreto, che fonda e orienta quel tono e quell’intenzione che noi indichiamo con quel segno. Il punto interrogativo pone concretamente l’oggetto in discussione, sotto il segno della rovina: nell’impossibilità di attingere il resto che ci sta dinanzi, noi prendiamo davvero l’iniziativa contro ogni avventatezza “costruttivista”, e ci decidiamo per una ricerca che si mantiene alla soglia del concetto stesso colto nella sua essenza “parentetica”. A differenza dell’epoché husserliana, la quale mette tra parentesi il mondo esterno per cogliere l’essenza eidetica o noema, qui si cerca di fare esattamente l’opposto: cogliere proprio la parentesi come rovina, ovvero ciò che resta di un discorso, la testimonianza di una fine, che perciò non è una conclusione, ma il limite stesso di  quel discorso.

Questo limite, la rovina-parentesi, non si manifestava nel corso del suo processo storico apparente, ma giunto al suo stadio finale, come testimonianza, possiamo guardarlo per la prima volta, come l’Angelus novus di Paul Klee, descritto e interpretato da Benjamin nella IX tesi di filosofia della storia, contenuta in Über den Begriff der Geschichte (Sul concetto di storia). L’angelo della Storia ha il viso rivolto al passato, gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese:”Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”. L’angelo vorrebbe ivi trattenersi, ricomporre ciò che è infranto, addirittura risvegliare i morti, ma una tempesta “che viene dal paradiso” gli si impiglia nelle ali, che non può più chiudere. Quindi, Benjamin così conclude: “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. La città può venire colta nella sua kata-strophé, letteralmente come un volgersi-indietro, un ri-volgimento; l’angelo proietta il suo sguardo sul passato, che sta lì, dinanzi a lui, come cumulo di rovine da redimere. Ancora Benjamin:”Il passato reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra” (II tesi di filosofia della storia).

La ricerca della città guardata nella sua essenza rovinosa rimanda proprio a questa intesa generazionale, getta un ponte tra i vivi e i morti, affinché i vivi possano adempiere al loro dovere verso il passato: il che vuol dire aprire la parentesi entro cui siamo collocati, concepire la rovina e concepirci in rovina. Come scrive Pierre Nora in Lieux de mémoire, ciò che cerchiamo nelle testimonianze, nelle rovine, in tutti “i segni visibili di ciò che fu” è la nostra differenza:”(…) Nello spettacolo di questa differenza l’improvvisa esplosione di un’introvabile identità. Non più una genesi, ma la decifrazione di ciò che siamo alla luce di ciò che non siamo più”. In questo senso, ci addentriamo in un luogo ignoto, avanziamo a tentoni tra rovine inesplorate. La nostra essenza si costituisce per la prima volta, tra le rovine, nella e in quanto differenza incolmabile, nell’estraneità del nostro essere-accidentale: condizioni differenziali per l’istituzione della città. Propongo tre possibili angolazioni – o meglio, tre figurae o icone – da cui è possibile interrogare il concetto di città come rovina, in modo da tentare di cogliere un barlume della differenza che ci costituisce e che rende possibile la città come istituzione di senso: Il cavallo di Torino, il Tempio di Zeus di Agrigento e i Ciuri di strata.

  1. Il cavallo di Torino

Iniziamo da un film. Si tratta dell’ultimo lungometraggio del regista ungherese Béla Tarr, uscito nel 2011. Dopo la visione di quest’opera comprendiamo qualcosa del gesto simbolico compiuto dal regista dopo la fine delle riprese: il seppellimento della macchina da presa. Tuttavia, l’opera del regista non è per questo conclusa: essa è in rovina. Un viaggio è giunto alla sua fine, al suo estremo limite, e lì si è fermato a contemplare il resto che lo costitituisce quale opera consegnata alla sua essenza di testimonianza. Il film riassume in sé la perlustrazione dei recessi inaccessibili dell’immagine, compiuta da Tarr nel corso del suo cammino tra le rovine ignote del nostro tempo. Alla fine, disvelatosi il peras ultimo dell’immagine nella dissolvenza in chiusura che inchioda il Padre e la Figlia in un muto faccia a faccia, con gli occhi bassi rivolti al pavimento, si perviene al cominciamento di una vita in comune. Si tratta dell’emersione soffusa di un momento politico originario. Lo spazio della consunta e spoglia tavola da pranzo, distratto definitivamente dalla sua funzione esclusivamente divisoria, viene trasfigurato e prende la forma dell’elemento che, proprio in quanto separa (immanente carattere di ogni tavola), unisce Padre e Figlia a partire dalla medesima separazione spaziale.

Dal nulla-in-comune si diparte un breve tratto, un’arteria legnosa che, ponendo i due esseri umani alle sue estremità, li ha consegnati a qualcosa di più e di diverso che la mera comunicazione: la tavola li mette per la prima volta uno di fronte all’altro, irrimediabilmente collocati nella necessità ineludibile di essere liberi, l’uno attraverso l’altro e l’uno per l’altro. Forse – anche a questo sembrano alludere gli occhi bassi dei protagonisti fino all’ultimo sprazzo di luce – una volta giunti sul bordo estremo e terribilmente sottile della sigetica tensione reciproca, potranno addirittura guardarsi negli occhi. Riconoscersi nell’estraneità da sé e dall’altro, guardando in faccia l’estraneità di sé a se stessi nell’estraneità dell’altro da sé. Il fondamento non guarda alle spalle di se stesso. E  proprio per ciò è capace di istituire un primo, puro contatto umano, che si consuma nella rovina del sé, in sé e nell’altro da sé. Questi non cadono insieme in una coincidenza dal sapore agambeniano, ma si con-frontano, ossia, si collocano in un ambito, in uno spazio tale che il nulla-tra-noi costituisce quel tratto materiale suscettibile di instaurare, di istituire un’esperienza immateriale qual è il rapporto politico. Il film di Tarr pone la questione nei termini che consentono di rappresentarla in una benjaminiana “immagine dialettica”: la totalità del rapporto è colta a partire da una manciata di schegge visive, racchiuse in un prisma di lunghissimi piani-sequenza che conferiscono una latente energia istituente e vitale, e, come tale, politica.

La rovina che produce il cominciamento politico è innescata da un’interruzione del continuum della livida quotidianità della famiglia: il cavallo con cui il Padre porta avanti tutto il suo lavoro nei campi, all’improvviso, e apparentemente senza alcuna ragione, smette di collaborare con il suo padrone. Non si muove, addirittura non mangia e non beve più (da qui il titolo del film, che fa riferimento al famoso episodio del cavallo, durante il quale pare si sia pubblicamente manifestata  la malattia mentale di Nietzsche, nel gennaio del 1889, a Torino). Un’altra brusca interruzione della quotidianità si presenta con l’arrivo di un misterioso viandante, il quale, nel bel mezzo di un lungo monologo la cui prima parte assume toni fortemente apocalittici, culmina nella seguente affermazione:”La città è stata spazzata via dal vento”. Tra i materialia, cosa c’è di più immateriale del vento? Eppure, sappiamo bene che la sua forza è capace di sradicare alberi e costruzioni; non a caso il vento e il suo soffio incessante sono una presenza fondamentale del  film, una presenza portatrice di aridità e morte, manifestazione naturale che – ben oltre  la simbologia – eventua fisicamente la sventura che sovrasta il mondo.

Una potenza eolica pare abbia addirittura spazzato via la città: non la somma delle costruzioni, delle strade e delle infrastrutture, ma il mondo-comune stesso, lo spazio del vivere insieme, non esiste più. Tuttavia, alla fine del suo monologo, il misterioso viandante fa marcia indietro e, abbassando fino ad annullare i toni roboanti e vagamente profetici usati fino a quel momento, afferma di essersi completamente sbagliato. Non viene esplicitata chiaramente la ragione del ripensamento del viandante. Ma un sospetto sorge spontaneo: il viandante ha avvistato una casa, nella quale, nel bel mezzo dell’ininterrotta e funerea tempesta di vento, è stato ospitato da due persone, da una famiglia, Padre e Figlia e, adesso, sta parlando a loro. Forse, il viandante ha compreso che se il vento ha spazzato via la città, solo ora essa diviene possibile a partire dalle sue rovine, dai suoi resti, dai suoi scarti: Il Padre e la Figlia.

Non è un caso, allora, che nella scena finale non si senta soffiare più neanche il minimo sibilo di vento. Soltanto un silenzio presago di una parola o di una sguardo si insinua nel vuoto pieno di tensione tra il Padre e la Figlia.

  1. Il tempio di Zeus Olimpio     

Esistono luoghi in cui il senso pregnante ed esistenziale della parola “rovina” – a cui Carl Schmitt allude nell’annotazione del 19-01-48 del Glossarium – ci si staglia dinanzi con una trasparenza quasi accecante. Una trasparenza che conferisce alla rovina una maestosità sui generis: una vis  immaginifica istituente di significati, la quale si accompagna, con tinte di austera serenità, ad un’apparenza dimessa, ritirata. Rovine che mantengono un contegno a metà strada tra la timidezza e la volontà di potenza. Una simile trasparenza e un simile contegno furono capaci di accecare perfino Goethe, il quale nel suo Viaggio in Italia, descrive con parole quasi sprezzanti il campo di rovine a cui qui si allude: quelle del tempio di Zeus, presso la cosiddetta “Valle dei templi” dell’antica città siceliota  Akragas.

Si tratta del tempio più grande e imponente del mondo greco antico, costruito dopo la storica vittoria contro i Cartaginesi che gli agrigentini riportarono a Imera nel 480 a.C. Certamente, qui come nelle altre tappe del suo viaggio in Italia, l’autore del Faust era alla ricerca di forme di bellezza classica di stampo winkelmanniano, che incarnassero l’ideale neoclassico di una serena superficie esteriore da cui si potesse evincere il profondo movimento interiore delle correnti passionali. Ma in questo luogo, in effetti, Goethe non trovò nulla di tutto ciò. Solo un campo di rovine si stagliava di fronte al suo sguardo anelante nuovi “Apollo del Belvedere”.

Sezioni di colonne infrante, sminuzzate, capitelli, pezzi di triglifo: un’immensa testimonianza di una distruzione completa, spietata, desolante, agli occhi di Goethe. Tutte le “forme della bellezza” cancellate per sempre dalla faccia della terra. E, in un certo senso, Goethe aveva proprio colto  nel  segno: presso l’Olympeion è un’intera visione edulcorata, aulica, asfissiante e asfittica della grecità che incontra definitivamente il suo limite estremo, il suo peras, e va in rovina.

Il concetto di rovina, rimosso dai terreni angusti dell’astrazione neoclassicheggiante, diviene concretamente esistente in questo luogo e libera la grecità dalla cattività museale in cui, a partire dalla fine del XVIII secolo, è rimasta sostanzialmente irretita fino ai nostri giorni. Il tempio in rovina non solo mostra il problema architettonico fondamentale, ma, al contempo e insieme a questo, disvela anche il problema storico fondamentale della struttura. L’Olympeion, pur inserito in un “circuito” inscritto nella logica del “museo a cielo aperto”, disattiva dall’interno questa logica per collocarsi nel cielo aperto dalle rovine che gli danno forma. Il dispiegamento della frammentazione architettonica che lo spettatore si trova dinanzi quando si trova nei pressi dell’Olympeion palesa già all’occhio la disgregazione del dio: il limite della grecità acquista forma nella sua rovina.

Tale limite è un peras che fa segno a noi vivi di un lyra, del confine tra noi e lo spirito greco: letteralmente è un de-lirio, uno sconfinamento della grecità nel nostro tempo, che così può contemplare il suo passato nella sua forma immortale (nel suo eidos), che è quella della rovina, fine e compimento del tempio greco. Quest’ultimo ci appare come la reale dimora del dio, del concetto concretamente esistente della grecità, non come un astratto simbolo di potenze “naturali”, bensì come il fondamento inconcusso governante un’intera comunità politica (polis), uno spazio del vivere e dell’agire in comune custodito dal suo nume e che, per preservare la sua essenza storica, custodisce il dio nella cella del tempio. Il dio va letteralmente rinchiuso nel tempio, bisogna impedirgli di fuggire se si vuol mantenere in vita la polis

In Der Ursprung des Kunstwerkes (L’origine dell’opera d’arte), Heidegger rende efficacemente l’idea del tempio greco come dimora del dio-custode della polis:”Attraverso il tempio, il Dio presenzia nel tempio. (…) L’opera-tempio è cio che innanzitutto compagina e, insieme, raccoglie attorno a sé l’unità di quelle rotte e relazioni in cui nascita e morte, sciagura e benedizione, vittoria e sconfitta, perseveranza e rovina, procurano all’essere umano la figura del suo destino”.

A questa considerazione heideggeriana, aggiungiamo questo: il destino (Geschick), la destinazione a cui un popolo storico adempie, diviene davvero Storia (Geschichte) nella misura in cui è giunto al suo limite, il peras-rovina che, nella frammentazione e attraverso la disgregazione rivela l’unicità accidentale (il symbebekòs) di quell’esperienza storica. E questa esperienza si manifesta come libertà assoluta da ogni Totalità, storica o meta-storica che sia, che così può rivelarla come totalità singolarizzata che si auto-garantisce nel mondo attraverso il dio custode-custodito, che, presenziando nel tempio, istituisce la polis come spazio delle vicende collettive umane.

Il tempio-rovina assolve alla stessa funzione e ha la stessa natura della casa ne Il cavallo di Torino: istituisce uno spazio del vivere insieme, in cui “nascita e morte, sciagura e benedizione, vittoria e sconfitta, perseveranza e rovina” si tengono insieme e, al contempo, tengono insieme gli uomini in una comunità. L’Olympeion si salva da un altro genere di rovina, quella decretata dal “museo a cielo aperto” a cui la generalità delle opere dell’antichità sono state consegnate. Un’annotazione di Ennio Flaiano, tratta dal Diario notturno, può essere utile per visualizzare la morta rovina turistica tipica del “museo a cielo aperto”:”Si ritiene che il Colosso di Rodi sia crollato durante un terremoto. Questa non è tutta la verità. Il Colosso di Rodi rovinò per le frasi che i turisti, insieme ai loro nomi, vi incidevano alla base e che, nei secoli, aumentando sempre di numero e di volgarità, ne minarono la resistenza. Il terremoto fece soltanto quel poco che restava da fare”.

  1. Ciuri di strata

Nel 1922 viene pubblicata la prima edizione di una silloge poetica in dialetto siciliano, composta da Francesco Guglielmino, poeta catanese, originario di una cittadina collocata sulle pendici dell’Etna che ancora oggi porta il nome di Aci Catena. La raccolta s’intitola Ciuri di strata, letteralmente “Fiori di strada”.

Amico e allievo di Giovanni Verga, al quale dedica una lirica nella sua raccolta, fu proprio Guglielmino a raccogliere la confessione del romanziere riguardante la sua incapacità di scrivere la Duchessa di Leyra, romanzo conclusivo del ciclo dei “Vinti” e  che mai avrebbe scritto perché sapeva far parlare la “gentuzza” ma non i nobili. La rovina dell’opera rende perspicuo quel resto inattingibile, quel limite che conferisce forma e senso all’intera produzione verghiana: l’autore de I Malavoglia è il cantore della “gentuzza”, non della società altolocata, e partecipa – istituendolo nelle sue novelle e nei suoi romanzi – al “nudo e schietto fatto” del destino ineluttabile dell’immobile eternità siciliana. Quella sorta di “barocco eterno” che segna il destino di Catania “ab urbe condita”, e di cui il barocco storico del XVIII secolo rappresentato dalla Cattedrale di Sant’Agata è solo un epifenomeno. Facciata di sgargiante, composita e rifulgente bellezza che custodisce il nulla-in-comune, l’impossibilità del ‘politico’, il vuoto metafisico degli interni dei grandi edifici catanesi che si rispecchia nel vuoto eterno dell’anima siciliana.

Forse, è proprio a partire da quel vuoto barocco, negli interstizi di quell’impossibilità che si può costituire la possibilità di un mondo-comune… Questo vuoto è un “fiore di strada”, come lo è anche quella confessione verghiana a Guglielmino. Ciuri di strata: minuscoli frammenti abbandonati tra le rovine di un’opera e custoditi  gelosamente da poesie scritte nel siciliano dei “pureddi” del popolo catanese. Una gelosia specificamente siciliana, che non ha nulla a che fare con lo stereotipo caricaturale costruito dai megafoni mediatici. La gelosia siciliana: gelosia come cura, meticolosa e a testa bassa, del campo, sudore del bracciante che si accumula tra i solchi tracciati con generosa e calibrata violenza sulla nuda terra. Tutto ciò, si potrebbe obiettare con apparente senso della realtà, è un mondo scomparso, non esiste  più. Non è altro che una cumulo di rovine nel nostro tempo, come l’Olympeion ad Agrigento, e che possiamo tutt’al più ammirare nostalgicamente nei vari “Musei della civiltà contadina”.

Certo, quel mondo è andato in rovina. Ed è proprio in questo senso che, solo ora, quel resto che pur sempre rimane inattingibile e proprio per questo è da noi vivi contemplato, visto nella sua essenza: nella discrasia rispetto a noi, nell’incolmabile differenza, noi vivi ci riconosciamo grazie ai nostri morti, grazie ai nostri ciuri di strata sbocciati tra le rovine. Non si allude qui a un passato migliore del nostro presente a cui dovremmo fare appello. Le rovine del passato, al contrario, esistono solo se noi le rendiamo tali, solo se noi ci poniamo radicalmente le questioni della nostra vita collettiva rispondendo all’appello del passato evocato dai nostri ciuri di strata. Essi testimoniano della strutturale ed endemica violenza che costituisce il nostro esser-uomo: ma questo non è un monito, non ci indica una regola del passato che noi dobbiamo adottare per la vita presente (quella “storiografia monumentale” di cui ci parla Nietzsche nella seconda delle Considerazioni inattuali).  Al contrario, le rovine ci mettono davanti agli occhi, ci pro-pongono, per la prima volta, il problema del passato come questione propria ed esclusiva del presente, tale che la nostra vita insieme, la nostra città, può porsi come “l’interrogazione del presente che proietta un’ombra sul passato”, come scrive Foucault quando definisce la sua “archeologia del sapere”.

I Ciuri di strata di Guglielmino mi appaiono come l’esempio più fulgido e umile, potente e dimesso – come lo sono le vere rovine – di questa realtà germogliante di nuova linfa. Questa raccolta di versi d’amore si apre con la lirica eponima che così ci presenta i “fiori di strada”: “ ‘N campagna, cantu cantu di li strati,/ ammenzu di li petri e li ruvetti,/ sutta l’irvuzza tennira ammucciati/ unni cu l’api runzunu l’insetti,/ ci sunu di ciuriddi in quantitati/ ca spissu ‘n coddu lu pedi ci metti/ ciuriddi ca non su’ mancu guardati,/ ciuri ca si li cogghi poi li jetti”.

Seguendo il ritmo della rima alternata del poeta, anche il mio discorso arriva alla sua rovina, in questi versi si presenta senza veli: fiorellini di campagna in gran quantità, che crescono agli angoli delle strade, tra pietre e rovi, nascosti sotto la tenera erba, dove api e insetti ronzano insieme. Questi fiorellini, spesso, li calpestiamo; fiorellini che non sono neanche guardati,  e che, se vengono colti, son subito gettati. Si dev’essere davvero una “tistazza stravaganti” (come si definisce Guglielmino in un altro verso di questa lirica), un tipo un po’ matto, per avvicinarsi a questa realtà così dimessa, emarginata, apprentemente indegna di qualsivoglia interesse, e ridotta a oggetto di analisi “scientifico-letteraria” nelle nostre accademie, quando  non è reputata una mera elucubrazione di “tistazza stravaganti”, non rispondente agli asfittici criteri delle metodologie di analisi socio-economiche… Viene così del tutto messa da canto quella che recentemente Agamben, in Quando la casa brucia, ha definito come “l’irrevocabile pertinenza della poesia alla sfera della politica”. Non è un caso che il filosofo reputi che proprio il dialetto sia l’idioma poetico par excellence, una sfera incontaminata e libera dalle regole del corpus grammaticale della lingua ufficiale. Il dialetto, e la poesia dialettale come quella dei Ciuri di strata di Guglielmino, è la lingua in rovina, ed è tra i  resti della lingua che il dialetto istituisce e delimita il luogo della libertà, il luogo dell’azione politica. A questa irrevocabile vocazione e pertinenza alla politica, viene contrapposta un’immagine della poesia dalle tinte briccone e “allegre”, di “svago”, di passeggero e insulso “piacere estetico” (a cui è strettamente connessa l’immagine, altrettanto falsa, del serioso studio accademicheggiante della poesia). Il tutto riassunto nella figura degli “artisti che ci fanno tanto divertire”, come qualcuno ha detto di recente. Tutto ciò è completamente avulso dalla poesia, intesa come momento sorgivo della città degli uomini. Essa, quale rovina operante all’interno del linguaggio, libera le potenzialità politiche degli uomini, ri-unendoli attorno ai “fiori di strada”, scatenando la capacità del linguaggio di gettare i ponti necessari sui quali transita la parola che fonda la comunità politica. In effetti, con l’esclusione del ‘poetico’ dall’ambito politico, si consuma al contempo l’esclusione del ‘politico’ dallo spazio cittadino.

Ai margini di questa doppia esclusione, possiamo aggirarci come fuggitivi tra le rovine, per incontrare ciò che non siamo, e custodirlo gelosamente nei fiori di strada. 

Immagine: “Rovine al tramonto” by torremountain is licensed with CC BY 2.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

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