IL PLAGIO COME PATOLOGIA DEL DESIDERIO MIMETICO

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FABIO CIARAMELLI

Le due possibili accezioni del plagio

Dando uno sguardo alla storia del termine “plagio” e del suo significato, così come essa è riportata ad esempio nella pagina elettronica dell’Accademia della crusca (o in quella ella Treccani), si viene a scoprire che il plagium nell’antica Roma era il furto di esseri umani e che plagiarius era chi si impossessava di schiavi altrui o tratteneva in schiavitù un individuo libero. Poiché in greco antico l’aggettivo sostantivato πλάγιον  significava sotterfugio, è plausibile che il furto di schiavi (o la riduzione in schiavitù di individui liberi) evocato dal plagio avvenisse attraverso l’inganno.

Benché la schiavitù, sia come fatto, sia come istituto giuridico, ci abbia messo moltissimo tempo per declinare, senza mai realmente scomparire, l’uso moderno del termine “plagio” prescinde dalla schiavitù e si fa risalire al poeta latino Marziale che, nel primo secolo dopo Cristo, definì plagiarius un tale che si era appropriato dei suoi versi e li andava leggendo in pubblico spacciandoli come propri.

La transizione dal furto di esseri umani al furto di opere dell’ingegno: ecco la base della prima accezione odierna del termine “plagio”. Interessante in questo senso un detto francese riportato dal vocabolario Treccani, secondo il quale “in genere i dizionari sono plagi in ordine alfabetico” (cosa in cui, a ben vedere, non c’è nulla di scandaloso, dal momento che all’estensore d’un dizionario non si chiede d’inventare nulla, ma solo d’inventariare le creazioni d’una determinata lingua).

 Esiste però anche un’altra accezione del termine “plagio”, inteso come sottomissione della volontà altrui da parte di chi esercita su di essa un ascendente tanto efficace da paralizzarne o limitarne fortemente la capacità d’autodeterminarsi. In quest’accezione, il plagio non consiste nell’attribuirsi in tutto o in parte un’opera non propria, ma nel manipolare la volontà e l’individualità altrui. In conclusione, nell’uso corrente, vittima d’un plagio è tanto chi ha subìto un furto letterario quanto chi è stato ridotto da altri in soggezione.    

Il desiderio d’imitazione come condizione di possibilità del plagio

La condizione di possibilità del plagio, nelle due accezioni del termine attestate dall’uso linguistico, è la struttura mimetica del desiderio umano. Ciò è particolarmente evidente nel caso del plagio letterario, quando chi spaccia per propria in tutto o in parte un’opera altrui è visibilmente mosso dal desiderio di conseguire attraverso una rapidissima scorciatoia il successo e la gratificazione raggiunti dall’autore preso a modello. Ma anche nel caso del plagio psicologico, l’ascendente esercitato dal plagiario, in tanto riesce ad aver presa sulla personalità del plagiato, in quanto lavora sul desiderio di quest’ultimo, riducendolo in soggezione, finendo cioè per estinguerne in tutto o in parte l’autonomia. Nei due casi emerge in primo piano l’attitudine del desiderio all’imitazione. Tale attitudine si radica nella strutturale ambiguità del desiderio stesso, cioè nella sua mancanza di linearità: e questo ci riconduce ai diversi significati dell’aggettivo greco plaghios che può tradursi con obliquo, trasversale, indiretto, ambiguo.

Che significa “patologia” del desiderio?

Su questa base, lungi dal concludere all’inevitabilità – e quindi allo sdoganamento – del plagio (conclusione mirante in realtà a minimizzare o giustificare attraverso fumosità teoriche comportamenti strumentali e abusivi che invece vanno semplicemente censurati), la struttura mimetica del desiderio consente di qualificare il plagio come “patologia del desiderio”. Con quest’espressione intendo riferirmi a una serie di modalità di esecuzione del desiderio che ne rendono impossibile la sopravvivenza. Parlare di patologia del desiderio non vuol dire, perciò, che nella nozione del desiderio sia contenuta una sua universale normalità prescrittiva e normativa. In altri termini, non è necessario partire da una concezione teleologica del desiderio umano, che lo subordinerebbe al raggiungimento d’un suo predeterminato obiettivo, per poter poi qualificare come patologica un’esecuzione del desiderio che l’avviti su sé stesso, condannandolo alla replicazione di sé che finisce e col distruggerlo. La struttura mimetica del desiderio mette in luce esattamente l’opposto. In altri termini, il desiderio umano, sprovvisto com’è d’un qualunque complemento naturale, non ha nessun oggetto predeterminato o a priori che possa soddisfarlo o esaudirlo. In altri termini è la società di volta in volta determinata che forgia il desiderio singolo, che lo orienta e lo educa, fornendogli oggetti e modelli. In tal modo, il desiderio psichico non può fare a meno della socializzazione, che però lo estroverte e lo mette in relazione con l’altro da sé. Senza la relazione sociale, cioè senza l’apertura del desiderio all’autonomia e imprevedibilità del mondo esterno, il desiderio sarebbe condannato alla stanca ripetizione di sé, cioè in definitiva alla morte psichica. Ed è esattamente in questa  trappola del desiderio autoreferenziale –  incapace di dare inizio a qualcosa di nuovo, di inedito, di irriducibile al già dato – che inciampa il plagio come  patologia del desiderio.

Nella sua autoreferenzialità il plagio prende il posto dell’imitazione

Sia che lo s’intenda come usurpazione di un’opera non propria, sia che vi si veda la riduzione in soggezione della personalità altrui, il plagio va ricondotto al desiderio mimetico, di cui però costituisce una realizzazione abusiva e patologica, che alla lunga finisce col rendere impossibile lo stesso esercizio del desiderio. La struttura mimetica di quest’ultimo è dunque alla base tanto dell’imitazione annientatrice dell’altro quanto della sua sottomissione che mira a distruggerne l’autonomia. Esattamente perché è proprio l’identità del plagiato che viene abolita tanto nell’assimilazione quanto nella soggezione, bisogna riconoscere che la stessa imitazione – anima del desiderio – risulta esautorata e dissolta dalla realtà stessa del plagio.

Più precisamente, nel plagio letterario, il plagiario, imitando il modello, lo fagocita, se  ne appropria, mira ad assimilarlo; nel plagio psicologico, invece, il plagiario si pone come modello che il plagiato dovrà imitare fino a perdere la propria individualità. Nei due casi, l’imitazione realizzata finisce col distruggere la dualità di dei termini, che però è ciò che la tiene in vita. Le due situazioni sono specularmente contrapposte, ma hanno una stessa conclusione: culminano nell’impossibilità dell’imitazione. Il plagiario nel primo caso è un parassita che vampirizza e assimila in sé il plagiato impossessandosi della sua opera ma mirando in definitiva a rendere in essa irriconoscibile il suo vero autore. Nel secondo, il plagiario manipola il plagiato, trasferendo in quest’ultimo la propria volontà e mirando ad annientarne l’individualità. Ciò che nei due casi finisce sempre col prevalere  è l’autoreferenzialità del desiderio, cioè la patologia di quest’ultimo, che comporta l’abolizione della relazione. Il desiderio mimetico si compie rendendo alla fine impossibile l’imitazione (e di conseguenza lo stesso desiderio) semplicemente perché nel plagio riuscito l’identità del plagiario trionfa a scapito dell’individualità e dell’autonomia del plagiato.

Imprigionato nell’immagine esaltata del proprio, che fa perdere a quest’ultimo la sua relazionalità, il plagio prende il posto dell’imitazione. Ed allora il desiderio, invece di dar inizio a qualcosa di nuovo di sua iniziativa, finisce con l’appagarsi della compiaciuta ossessione della propria identità che auto-perpetua.        

“La historia de un plagio…” by JesusDQ is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

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