LA DEVIANZA CHE CI MANCA (UN CONFRONTO FILOSOFICO E SOCIOLOGICO)
SILVIA D’AUTILIA
LUCA NEGROGNO
È la mattina del 1° maggio 2021. È il secondo in pandemia di Sars-Cov2. Qualche giorno fa avevo ricevuto un WhatsApp da Luca. “Silvia scriviamo qualcosa insieme”. Anche se il suo messaggio è stato di poche parole, so che si riferisce al momento corrente e ho la presunzione di percepirne la profondità, ovvero il senso di disagio rispetto al presente.
Mi viene in mente una frase bellissima e folgorante che ai tempi del dottorato avevo letto ne La maggioranza deviante di Franco Basaglia. “Si vive la realtà prodotta come realtà reale, e la scienza non fa che fornire giustificazioni e verifiche pratiche dell’irrealtà del prodotto.” In quel saggio Basaglia si riferisce nella fattispecie alle categorie diagnostiche prodotte dalla psicopatologia a seconda dei tempi e delle convenienze sociali, ma è nel contrasto “realtà prodotta” versus “realtà reale” che il pensiero basagliano può essere riattualizzato. Per capirne il senso possiamo concretamente fare riferimento alla facilità con cui, nella presente situazione epidemica, un nuovo tessuto normativo sta letteralmente stravolgendo la vecchia fisionomia del vivere in comunità non senza contraddizioni e storture. Anzi, la velocità e la facilità con cui il distanziamento sociale, in tutta la sua polivalenza ed eterogeneità, si è imposto come norma comunitaria così sacra e inviolabile da essere divenuta sinonimo di civilizzazione, hanno finito per occultare le difficoltà derivatene e ignorare la realtà effettivamente vissuta dalla popolazione già ai margini e di cui si riconferma la marginalità appunto.
Posto che una comunità tenuta in regime di isolamento poteva forse durare qualche mese, pare evidente che, dopo più di un anno, la conformazione più veritiera assunta dal distanziamento sociale è quella del distanziamento di classe, a beneficio di chi oligarchicamente controlla invece buona parte dei capitali mondiali e durante la pandemia ha letteralmente moltiplicato le sue ricchezze. Provare a capire se su questa nuova configurazione sociale ci abbia scommesso qualcuno, come si sa, è materia di complottismo ai giorni nostri, tuttavia pare sempre più chiaro che il nuovo assetto sociale aggradi particolarmente i piaceri e le tasche dei pionieri della vita on demand e dell’e-commerce a colpo di click. La regola prudenziale è limitare le interazioni sociali, affettive, lavorative, economiche, scolastiche e culturali, affinché il prossimo, vale a dire quello che anche io sono agli occhi di un altro, sia sano e salvo. In sintesi questo ci dice il nuovo arsenale di regole antiCovid. E a questa norma deve tendere e ispirarsi costantemente la nostra nuova quotidianità.
Norma è un nomen omen. La sua etimologia dice tutto: in latino norma è la squadra, ovvero lo strumento utile a misurare gli angoli di 90 gradi. Fin dall’etimo si può dunque intuire quali effetti matematico-geometrici produca questa parola nella società: il destino di chi è a norma è quello di stare perfettamente nella regola; viceversa chi se ne discosta è un fuori-norma, un deviante.
Fin dall’inizio del saggio Franco Basaglia accosta la grande proliferazione di norme comunitarie alla vita politica dei paesi più sviluppati: quanto più la crescita economica avanza e progredisce tanto più occorrono regole comunitarie chiare e definite nelle quali inquadrare i vari soggetti sociali della macchina produttiva. I saperi umanistici hanno presto raccolto questa richiesta politica: la sociologia ha preso a occuparsi della figura del deviante e la medicina invece dello psicopatico. Così, attraverso la codificazione di questo materiale di studio, si realizza e completa il sogno normativo, che ha, da sempre, come primo obiettivo la delineazione di demarcazioni sociali nette.
Il fascino della norma non risiede tanto nell’identificazione della devianza quanto nella continua riconferma da parte di quest’ultima. Il rapporto norma-devianza è quello di una referenziazione reciproca attraverso un apparato di saperi e discipline che volta per volta ridisegnano questi confini e stabiliscono chi li abita. Ma non è mai quello di un incontro e di una compenetrazione dialettica: la norma, nel predisporre i suoi limiti, prende contemporaneamente le distanze da quel che norma non è. È la stessa dinamica che ne La genealogia della morale Nietzsche descrive rispetto alla nascita e alla formulazione dei giudizi sociali. Secondo il filosofo è sempre attraverso un certo “pathos della distanza” tra chi sta in alto e chi sta in basso che prendono forma i valori morali. In ogni società, non solo la facoltà di giudizio è sempre appannaggio di chi è superiore, ma occorrono delle vere e proprie rivoluzioni per invertire questo modello, finché un alto e basso si ripristina di nuovo e così via. I nobili sono tali proprio in virtù della loro facoltà di forgiare opposizioni tra buoni e cattivi e di produrre giudizi culturali che costruiscano una precisa configurazione sociale.
Quanto sia caro anche a Basaglia questo tema dell’imposizione dell’ideologia dominante sui dominati lo vediamo attraverso la citazione di Talcott Parsons, il quale ne Il sistema sociale si occupa della cultura elaborata dalle classi dominanti a discapito di una “controcultura” delle classi dominate. Queste ultime produrrebbero una visione della realtà non solo fuorviante ma anche da biasimare e perseguire. Giusto e sbagliato sono valori riflessi dal rapporto tra egemoni ed egemonizzati. Ed è attraverso la strategica demonizzazione della fazione subalterna e della sua produzione valoriale e culturale che si negano e ignorano le motivazioni reali alla base di queste dicotomie sociali. In questi mesi, non abbiamo forse visto tutti lo strumentale accostamento di chi criticava i lockdown o le misure restrittive a una certa analfabetizzazione o mancanza di istruzione? Il deviante è deviante de facto, in semplice ragione della sua lontananza dalla norma, mai in ragione dei bisogni cogenti che lo fanno distanziare dalla norma. E d’altronde non ci deve e non ci può essere alcun interesse ad analizzare questo aspetto perché nel momento in cui la norma tende l’orecchio verso il fuori-norma, in quello stesso momento s’indebolisce e smarrisce la sua funzione prescrittiva.
Ce lo ha insegnato molto bene questa pandemia: nuove regole sono irrotte nella nostra società, hanno agito da reset sul vecchio dando vita a una nuova normalità che si è pian piano imparato ad accettare, introiettare e persino quasi ad apprezzare. È il nuovo che avanza e, come nell’evoluzionismo darwiniano, naturalmente seleziona chi sopravvive. La novità agisce sempre come una forza livellatrice: non sarebbe appunto un nuovo se non producesse giudizi sociali su chi al contrario ancora desiste, non si adatta e cerca come può d’interrogarsi, spinto, nella maggior parte dei casi, da bisogni materiali urgenti di cui non è nemmeno possibile rimandare la discussione. Eppure ci sono sempre tanti altri buoni propositi sull’agenda politica per non abbassarsi a sentire le ragioni di chi non riesce a prendere parte al gioco e viene per questo giudicato come merita. Ma in fondo il vero fine del giudizio non è e non è mai stato di per sé la critica ma l’irrobustimento ulteriore del disegno normativo, e quanto più la diversità si fa marcata tanto più si riconferma il dominio della normalità: è a questo che nel tempo sono sempre servite tutte le devianze.
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Dopo aver letto queste parole di Silvia ho maturato l’impressione che la pandemia avesse come generato un campo di tensione in cui si delineano nuove ipotesi di lettura della realtà e delle retoriche conflittuali. Un campo particolarmente interessante per leggere questa forma di innovazione tecnica e vedere bene il ruolo che la norma ha in essa è il “disagio psicologico”, preferibilmente attribuito alla condizione giovanile, che sarebbe l’effetto, scientificamente rilevabile e tecnicamente affrontabile, della situazione che stiamo vivendo.
Ciò che la definizione di “disagio psicologico” immediatamente oscura è l’apprezzamento della dimensione storicamente determinata, percorsa da conflitti di potere, di ciò che viene fatto apparire come “naturale” e, come contrasto alla bestialità della forza del virus, di ciò che appare come una necessaria strategia istituzionale di fronteggiamento.
Per capire cosa intendiamo con questo rapporto tra “bestiale forza naturale” e “strategia istituzionale di fronteggiamento” prendiamo l’esempio del lockdown, esempio controverso perché la capacità di metterlo in discussione sembra in questo momento appannaggio della destra e di chi si colloca dalla parte degli “incontrollabili istinti individualistici”. Non c’è alcun buon motivo “tecnico-scientifico” per limitare i contagi preferendo il divieto di circolare tra le 22 e le 5 piuttosto che attraverso la chiusura di fabbriche, magazzini, hub e centri di servizi che lavorano su beni non necessari. Tuttavia, assunta l’immutabilità del sistema di produzione e distribuzione della ricchezza, il lockdown appare come dato ispirato da intrinseca razionalità scientifica in risposta alla necessità naturale. Così, si costruisce una nuova forma di vita collettiva, si attua una espropriazione di spazio e tempo “pubblico” funzionale ad una accumulazione di profitti. Questo è un esempio perfettamente calzante di realtà prodotta, con tanto di giustificazioni sciento-paternalistiche, che contrasta e confligge con la realtà reale del paragone di Basaglia evocato da Silvia.
Come al solito, si tratta di una scelta politica, la cui storia, come dice Marx nel libro I del Capitale sull’accumulazione originaria (che è sempre presente, è sempre tra noi) sarà scritta negli annali dell’umanità con lettere di fuoco e sangue, e io ne ho una minima percezione pensando a mia madre che non vedo da circa un anno perché in questo momento si trova in una regione arancione. L’appiattimento della sicurezza sulla blindatura dello spazio pubblico, sulla dimensione domestica, sulla chiusura nel privato delle relazioni familiari (a quanta violenza, anche sistemica, ha esposto?), l’intoccabilità della produttività, l’incapacità di pensare un mondo diverso, rispettoso della cura e delle relazioni, sono il segno della mancanza di un’alternativa di pensiero a sinistra, dove domina in modo del tutto acritico la visione del “buon” controllo biopolitico. E si dovrebbe chiedere, sempre pensando a Basaglia come fa Silvia, che sinistra è una sinistra che non vede più la dimensione politica della tecnica e della scienza, ma ne fa un’ideologia di gestione, fornendo il quadro di una violenta ristrutturazione capitalistica.
Nella forma del Reale prodotto dall’ideologia tecnica preposta a gestirlo (e quindi a metterlo in forma) ogni problema, se c’è, diventa tecnico-scientifico, preferibilmente psicologico, un problema degli individui e della loro “resilienza”, collocandosi in quella tradizione di interiorizzazione del controllo che le discipline psy hanno svolto da quando si sono assunte il compito di gestire l’ambigua emancipazione dell’uomo dalla sua irrazionalità. Il disagio, così interpretato, non è mai una questione esistenziale e sociale, che spinga a mettere in questione i modi in cui collettivamente organizziamo le nostre vite e le nostre relazioni, ma uno “stress test” in cui la resilienza individuale è la controparte di una politica che si legge solo come “sfida”, come un’ortopedia del reale. Il lockdown, invece di essere l’attimo di sospensione e presa di distanza, da cui poteva emergere una diversa configurazione degli assetti economici e delle priorità sociali e sanitarie, ha solo dimostrato questo: con le privazioni si sceglie chi sopravvive, il welfare non riscatta ma conferma il ruolo dei marginali, dei malati, dei disadattati. Sul bisogno di immaginare un diverso modo collettivo di vivere nessun “esperto di disagio” ha messo a disposizione la propria competenza. Abbondano invece le ingiunzioni agli individui e alla loro responsabilità. Non scivolare nel disagio oggi significa aver preventivamente adoperato una razionalizzazione delle proprie risorse emotive, psicologiche ed economiche prima che il prossimo uragano arrivi a testare nuovamente le nostre capacità resilienti.
I nuovi tecnici hanno sempre l’opportunità di acquisire un ruolo innovativo nell’organizzazione sociale, svecchiandola e collocandosi rispetto ad essa come “nuovi funzionari del consenso”. Gli psicologi, che oggi rivendicano un’ampia politica di voucher garantiti dal governo e in cambio dichiarano, per voce del loro Ordine Nazionale, che “la politica non è più un fattore di stress da quando c’è il governo Draghi”, sono un buon esempio di questa dinamica, un esempio tra tanti. Le nuove professioni che svolgono il ruolo di funzionari del consenso non mettono mai in discussione “tecnicamente” il modello complessivo di gestione di problemi sociali, l’esistenza della “norma”. L’incombente ondata di progetti, esperti e professionisti per gestire il nuovo disagio ha sempre, sullo sfondo, il carcere, le REMS, l’internamento in qualche istituzione totale, la delega a un sistema penale, la rappresentazione del “paziente difficile”, prodotto delle carriere devianti che si svolgono nei meandri della cronicità indotta dai servizi e dalla malaria urbana, qualcosa insomma che faccia pendere il baricentro della responsabilità fuori dal campo professionale del nuovo tecnico e di fronte a cui si possa dire “questo non è un caso di mio interesse”. Così funziona la norma: si sposta e si evolve, conquista nuovi campi, cambia per riprodursi uguale a se stessa nei suoi obiettivi primari.
Nella prima metà degli anni ’70 Basaglia lo vede confrontando la situazione nordamericana a quella italiana: laddove il capitalismo ha superato il modello fordista si va affermando un’ampia classe improduttiva, non più oggetto di internamento e invalidazione “a vita”, secondo la versione medico-carceraria della norma produttiva, ma destinata ad essere gestita da nuove istituzioni della devianza, flessibili come le biografie che si vanno affermando e collocate nelle “agenzie del territorio”, sociali-inclusive, pur se in contesti urbani che vanno sempre più esplodendo di contraddizioni, in una sorta di “manicomio a cielo aperto”.
Oggi, che è primo maggio e i sindacati, sponsorizzati in piazza da Eni, parlano del lavoro come cura, mentre non si parla mai di quanto i contagi da Covid si siano diffusi nei luoghi di lavoro e mentre tutto il lavoro, retribuito e non retribuito, di produzione e di riproduzione, è stato privatizzato e riconsegnato agli individui e alla loro “resilienza”, credo che liberarsi da questa ottica del lavoro produttivo come norma che pervade ogni campo della vita sia la cosa più basagliana che potremmo fare. Oggi, che, dopo la crisi del Covid, lo scenario sociale esibisce una distanza tra classi sempre più grande e insormontabile, vanno elevate quelle mancanze che i soggetti vivono a nuovo vero motore della critica sociale. E oggi, infine, che il dominio della normalità sostanzia e conferma il ruolo dei tecnici e del loro sapere (ancora più degli anni in cui scriveva Basaglia) il problema della devianza andrebbe posto al centro della discussione per le domande che improrogabilmente pone a tutta la società.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA SOCIOLOGIA Endoxa maggio 2021 Freaks/Devianze Luca Negrogno Silvia D'Autilia