PSICOPOTERE E BATTAGLIA PER L’ATTENZIONE: TEMPI E FORME DELL’INTELLIGENZA SOCIALE PER UNA CURA POSTPANDEMICA
FERDINANDO MENGA
I. Dalla crisi pandemica che stiamo attraversando da più di un anno a questa parte abbiamo tratto diversi insegnamenti. In particolar modo, essa ha acceso i riflettori sull’aspetto della vulnerabilità condivisa e, di conseguenza, sull’importanza di dar fondo a nuove strategie d’intelligenza collettiva in grado di proporre, in vista di una ripartenza, forme di cura davvero efficaci e tali da consentire un risanamento delle enormi ferite inflitte al tessuto sociale.
Vi è, in particolare, un aspetto intergenerazionale del tema che va sottolineato, giacché, come si è ben presto palesato sotto gli occhi di tutti, i soggetti che si sono mostrati maggiormente vulnerabili sono stati, da un lato, gli anziani e, dall’altro, i più giovani. La pandemia, in effetti, ha colpito, come non mai, la fetta più anziana della popolazione, non soltanto vedendola prima protagonista per numero di decessi dovuti alle complicanze causate dal virus, ma anche nei termini di una ancor più aspra limitazione subita nell’accesso ai pur minimi spazi di socializzazione consentiti. Ma anche i più giovani, come pure sappiamo, sono stati gli altri soggetti che hanno maggiormente sofferto delle misure di contenimento del contagio: soprattutto a causa della didattica a distanza e della clausura domestica, costoro hanno subito una pesantissima interruzione della vita sociale; elemento, questo, più che mai indispensabile, in tale età, per la formazione e il mantenimento di un equilibrio psico-fisico degno di tal nome.
Se mi soffermo, però, qui sulla sottolineatura di tale aspetto intergenerazionale è per tener fermo il seguente punto di partenza: la percezione più diffusa e trasversale della crisi pandemica, sia che si sia rivolta all’impatto sulla coorte degli anziani, sia che si sia concentrata invece su quello a carico dei più giovani, ha sempre e comunque condotto alla medesima richiesta di una pratica di cura nei termini di un ripristino dei piani di vita interrotti o, se vogliamo, di un ritorno allo status quo improvvisamente venuto a mancare. Insomma, in tale domanda di cura ne è andato e ne va preminentemente di un’esigenza di ristabilimento del presente perduto. Non a caso, uno dei primi lemmi con i quali si è prospettata la ripartenza post-pandemica è stato quello di recovery, che, appunto, rinvia esattamente all’area semantica del ri-stabilirsi o ri-mettersi da uno stato di sofferenza.
La domanda che tuttavia si può lanciare, proprio a partire dalla considerazione dell’evento pandemico corrente, è tale da spingere anche in un’altra direzione temporale: quella che vede la vulnerabilità e anche la correlata richiesta di cura doversi orientare non soltanto a un ripristino delle vite dei presenti, ma anche al futuro e, con esso, ai destini degli assenti – con tutta la loro non meno importante esigenza di vivere su questo pianeta una vita degna d’essere vissuta.
Questa seconda dimensione si è senz’altro rivelata meno immediata alla diffusa percezione collegata all’esperienza pandemica. Eppure, essa risulta non meno essenziale della prima. Probabilmente, nell’epoca post-Covid tale piega della questione si imporrà quale vera e propria posta in gioco della lezione che dovremmo imparare dalla pandemia.
Se consideriamo, in effetti, che le cause innescanti lo stato d’emergenza attuale non sono per nulla casuali ed estemporanee, ma sono invece di matrice indubitabilmente antropica e, quindi, tali da incidere pesantemente – e, forse, irreversibilmente – su un equilibrio di sistema del pianeta oramai compromesso, ben si capisce allora che la vulnerabilità dei soggetti in gioco e la concomitante domanda di cura non può riguardare più esclusivamente gli individui presenti, ma anche, se non soprattutto, i soggetti futuri e attualmente assenti.
Ma, di qui, diparte, appunto, l’interrogativo riguardo a quanto l’intelligenza collettiva attuale – con tutti i suoi dispositivi: etici, istituzionali, economici – sia in grado di accogliere e dare risposta a tale esigenza di cura a lungo termine; risposta, questa, oramai non più rinviabile visti gli effetti sempre più devastanti che l’atteggiamento usurpatorio degli umani contemporanei provoca ai danni del futuro del pianeta e dei suoi abitanti potenziali.
Secondo il filosofo ambientalista statunitense Stephen Gardiner, lo stato in cui versa l’intelligenza sociale corrente rispetto alla percezione della gravità di tale problematica è pressocché avvilente: nonostante le apparenze, in effetti, l’atteggiamento generalizzato che lui registra è quello dell’effettivo perpetrarsi di un endemico esercizio di “tirannia dei contemporanei” tutto teso a dare priorità al presente e a scaricare l’onere di decisioni che impongano sacrifici e riconversioni dello stile di vita sulle spalle dei posteri. Quadro, questo, reso ancora più fosco dalla prospettiva di Dale Jamieson, secondo cui, anche volendo realizzare un cambio di tendenza nelle odierne politiche ambientali, arriviamo comunque troppo tardi: le sorti del pianeta quale ambiente abitabile per l’essere umano sono irrimediabilmente compromesse. Simile è anche la conclusione avanzata da Roy Scranton, per il quale l’unica cosa che ci resta da fare è venire a patti col fatto che “siamo ormai fottuti” e che possiamo soltanto “imparare a morire nell’Antropocene”.
Come che stiano le valutazioni sulla gravità della situazione attuale in relazione ai destini del pianeta, in quanto segue, non voglio tanto soffermarmi su di esse, quanto invece intendo dare rilievo a una piega diversa della riflessione: seguendo l’analisi del filosofo francese Bernard Stiegler, intendo, in effetti, concentrarmi su alcuni dei motivi che spiegano la genesi stessa di tale “presentismo” che domina l’attenzione vitale della società contemporanea. Secondo la visione di quest’intellettuale scomparso di recente, l’attuale e imperante preoccupazione per il presente non è tanto dettata da reazioni emergenziali contingenti – come quella comprensibilmente registrata a causa dell’evento pandemico ultimo –, quanto piuttosto riflette un modus essendi più generalizzato e radicato nel tessuto delle comunità del nostro tempo. Per quest’autore si tratta, in effetti, di ricondurre il primato dell’oggi, che pervade i nostri spazi sociali e istituzionali, al precipitato di quel disegno pervasivo inaugurato dal paradigma moderno della tecnica e che, più di recente, trova la sua forma amplificata – e addirittura esasperata – nel dispositivo tecnologico-capitalistico-finanziario di stampo planetario. Ciò che un tale paradigma afferma e produce è, difatti, il necessario occultamento di un’autentica apprensione per il futuro a tutto beneficio del predominio unilaterale dell’esistente basato sull’esclusiva e costante affermazione di un presente serializzato ed eternizzato; presente che, in quanto tale, può conoscere solo sue estensioni, prosecuzioni, riproposizioni, ma non un’intelligenza etica, politica e sociale genuinamente orientata a cogliere interpellanze di ampio raggio.
II.
Passare velocemente in rassegna alcuni motivi fondamentali della riflessione stiegleriana può risultare allora di particolare interesse. Al netto di sostanziali semplificazioni di un discorso assai articolato e complesso, che non posso qui estensivamente presentare, quanto Stiegler tende a mostrare di determinante è che la caratteristica dominante delle società contemporanee è esattamente quella costituita da un’alleanza fra dispositivo tecnologico-industriale e capitalitisco-finanziario, mediante cui viene a prodursi una determinata configurazione del corpo sociale e dei soggetti che lo compongono segnatamente funzionale a un’accentuazione ancor più marcata del primato del presente. La connotazione distintiva di tale corpo sociale è quella che lo vede ruotare attorno alla figura del consumatore, il quale unicamente realizza e garantisce, proprio sulla base dell’inarrestabile dinamica d’assunzione e dissipazione dei prodotti, il dominio costante della ciclicità del breve termine e dell’eterno ritorno del presente. Ciclicità che, poi, nella temperie di una società, come quella attuale, dominata dalla “governamentalità algoritmica” dei big data e della data economy, finisce per raggiungere la forma di uno strapotere dell’“automatico”. Con la sua velocità impareggiabile, la società automatica/automatizzata finisce per fagocitare totalmente le vite dei soggetti e vanifica qualsiasi loro tentativo di protendersi e consolidarsi in costruzioni psichiche durature e prospettiche.
Quello che, però, Stiegler parallelamente ci comunica di altrettanto rilevante riguarda i motivi concomitanti che co-producono e co-incidono in questo quadro. Ed è qui che entra in gioco appieno la questione dell’intelligenza.
Il primo grande motivo è rappresentato dal fatto che la costruzione del paradigma or ora evocato passa esattamente per una “politica di formazione dell’attenzione”. Si tratta, per l’appunto, di quella che il nostro autore definisce nei termini di una vera e propria “battaglia per l’intelligenza”, la cui posta in gioco è precisamente la “captazione” e la “conquista” dell’attenzione, sulla cui base soltanto è possibile giungere alla formazione e stabilizzazione dell’individuo singolo e della transindividuazione collettiva funzionali alla configurazione del corpo sociale – nel nostro caso specifico, della società consumeristica e automatizzata tipica del capitalismo avanzato.
È per questo motivo che Stiegler, in linea con l’obiettivo di spiegare fino in fondo, sulla base di suddetta battaglia, come si giunga alla costruzione di una compagine collettiva, in generale, e a quella capitalistico-industriale, in particolare, non può che mettere in campo il meccanismo strutturale stesso che vi interviene alla base: cioè quello di appositi “dispositivi psicotecnologici” che, mossi dalla direzione di un determinato “psicopotere”, sono votati precisamente alla “cattura” delle menti e, con ciò, al conseguimento del risultato di rendersi “cervelli disponibili” allo scopo di fondo preposto.
Ciò detto, il punto fondamentale, per Stiegler, sta proprio in questo: oggigiorno, ad aver vinto tale battaglia psicotecnologica per la formazione delle intelligenze è esattamente il “marketing” e il mega-apparato dell’“industria dei programmi” audiovisivi, digitali e finanche algoritmici. Avendo preso il sopravvento, questi ultimi non consentono più la costruzione di un’attenzione degli individui orientata alla durata e al consolidamento critico dei saperi sociali, così come non permettono neppure la cura di un legame collettivo davvero basato sul lungo termine, ma, in ragione dell’obbedienza alla logica del consumo inarrestabile, conducono invece una politica psicotecnologica dell’attenzione chiaramente votata a un continuo sviamento e depotenziamento dell’attenzione medesima al fine di realizzare un concreto ed esteso asservimento all’imperativo di preoccupazioni schiacciate sull’istantaneo.
III.
Da queste segnalazioni, non è difficile intuire, perciò, come il grande contendente sconfitto in tale battaglia – come ci segnala Stiegler – sia, anzitutto, l’intero apparato finora deputato a prendersi cura della formazione degli individui e delle loro intelligenze: ovvero, l’istituzione scolastica ed educativa in generale. Come pure non è difficile comprendere quanto la strategia psicotecnologica atta a conseguire tale risultato non possa che aver operato frantumando proprio i capisaldi su cui suddetta istituzione ha fino a oggi poggiato: la preoccupazione per la trasmissione al futuro dei caratteri costitutivi del sapere comune e, di conseguenza, il mantenimento di un saldo senso di responsabilità del mondo adulto verso le giovani e future generazioni.
È precisamente in tal senso che Stiegler tiene a sottolineare quanto la strategia sempre più estensiva e globalizzata del marketing, capace addirittura di colonizzare, con l’industria televisiva e di internet, l’intero ambito della trasmissione culturale, ha conseguito il suo successo proprio incidendo sulla confusione dei rapporti intergenerazionali – infantilizzando sempre più gli adulti e iperresponsabilizzando i più giovani – e così minando alle fondamenta ogni possibile pratica di cura sociale degna di tal nome, cioè votata a un’attenzione capace di guardare oltre il breve termine e il semplice presente.
Non sorprende, pertanto, se conclusivamente il soggetto adulto contemporaneo, secondo Stiegler, rispecchi perfettamente la figura dell’individuo menefreghista e irresponsabile completamente funzionale alla riproduzione continua del consumo, alla pratica inarrestabile del degrado, nonché endemicamente avviluppato in un’incapacità di prestare attenzione all’avvenire e cura dei posteri.
IV.
Ne consegue che un’interrogazione radicale sull’evento pandemico, in linea con le considerazioni appena svolte, non dovrebbe arrestarsi soltanto a una ricerca concentrata sul rinvenimento dei migliori strumenti di cura e sulle più efficaci strategie di ripresa rispetto alla situazione presente, ma dovrebbe sollecitare altresì una seria indagine sull’estensione stessa dello spazio d’accoglienza a cui le misure di recovery intendono applicarsi. Insomma, raccogliendo tutto il tenore di senso finora espresso, la domanda che dovrebbe campeggiare è la seguente: cura sì, ma per l’indigenza di chi? A quali soggetti, in ultima istanza, dovrà essere concesso di far parte della schiera di quei titolari di vulnerabilità, a cui l’azione di recovery si impegna a rispondere?
La replica a tale interrogativo, come si può intuire, non può che invitare a un’opzione politico-culturale che tratti la crisi pandemica come un evento che ci sollecita a guardare non più soltanto ai presenti e al presente. Proprio perché esperienza diffusa e pervasiva che ci ha esposti a un legame di fragilità condivisa, la pandemia, insomma, dovrebbe dissuaderci dal proseguire lungo la scia di un atteggiamento predatorio ai danni del pianeta e a detrimento dei futuri.
Peggio ancora, la crisi pandemica attuale non dovrebbe essere utilizzata nemmeno come espediente per un atteggiamento istituzionale che mette nuovamente tra parentesi le esigenze dei posteri a motivo di un’emergenza dal carattere eccezionale, tale da imporci di dare assoluta precedenza agli indigenti di oggi. La logica della “situazione eccezionale”, che giustifica con buona coscienza – e con le proverbiali migliori intenzioni – una politica della procrastinazione si rivela un pendio scivoloso tanto seducente, quanto pericoloso.
La situazione d’estesa e condivisa difficoltà che stiamo vivendo a livello planetario dovrebbe spingerci, invece, a un cambio radicale di paradigma. Insomma, l’esperienza di trasversale precarietà, che stiamo affrontando, dovrebbe condurci non a sospendere, ma ad approfondire, piuttosto, l’alleanza tra i vulnerabili di oggi e i vulnerabili di domani.
V.
E per far questo, sempre secondo Stiegler, vi è soltanto la possibilità del perseguimento di un “rivolgimento radicale” di carattere etico votato alla realizzazione di una intelligenza o “saggezza” tutta nuova: una saggezza che, opponendosi esattamente alla “hybris planetaria” contenuta nella macchina tecnologico-industriale contemporanea asservita al consumo e all’incuria, si impegna a proporre invece una pratica del sapere in cui “pensiero [pensée]” e “prendersi cura [pansée]” si tengono assieme, confluendo in un atteggiamento responsabile che si trascende autenticamente verso il futuro.
Per Stiegler, si badi bene, si tratta, però, nello specifico, non di aspirare a un impossibile e neppure auspicabile congedo dal dispositivo tecnologico tout court, quanto piuttosto di trasfigurarlo dall’interno, contrapponendo così al suo portato tossico quale pharmakon negativo – l’autore parla a proposito proprio di una “farmacologia negativa, cioè passiva” –, un potenziale lenitivo a esso altrettanto correlato, sì da farlo figurare nei termini di una vera e propria “farmacologia positiva, cioè attiva”, capace di curare il corpo sociale e addirittura di “reincantare il mondo”.
È esattamente lungo la linea di tale imponente rivolgimento culturale volto alla cura della società e della terra che Stiegler inserisce, nel suo ultimo libro, l’azione di protesta che i giovani d’oggi stanno attuando a livello globale, trasmettendo così una grande “lezione” ai loro predecessori e al loro atteggiamento predatorio e usurpatorio nei confronti dell’avvenire.
In particolar modo, a prescindere dalla simpatia o ritrosia che si possano provare nei confronti di Greta Thunberg e dei vari movimenti dei Fridays for Future, il punto che non si dovrebbe con troppa facilità aggirare della loro protesta è proprio il portato di radicale messa in questione della temporalità presentistica che sembra scandire l’agenda delle democrazie contemporanee. Queste giovani e questi giovani si fanno portavoce, in fondo, di un cambio di rotta per l’intelligenza collettiva: quella che si rende capace di prendersi cura del futuro, ispirandosi a una vera e propria tele-morale, da cui dipendono i destini del pianeta.
La COP26 di Glasgow rappresenta senz’altro un rinnovato banco di prova per saggiare se e quanto la nostra intelligenza sociale abbia imparato a sintonizzarsi sulle lunghezze d’onda di tale etica di lunga gittata.
“Global-Warming-from-Factory-Smoke-Stack-Pollution” by Captain Kimo is licensed under CC BY-NC-ND 2.0