IL VICINO E IL LONTANO: L’UMANO AMBIVALENTE

telescopioRICCARDO DAL FERRO

Abbiamo gettato il nostro occhio più avanzato oltre i confini di quel che ritenevamo possibile, ma al tempo stesso non sappiamo che guardare al nostro ombelico, indaffarati come siamo a dare importanza alle piccolezze dei nostri drammi quotidiani. Non è un caso che l’umanità abbia lanciato il James Webb Telescope verso lo spazio infinito, al fine di osservare le prime luci dell’espansione siderale, proprio mentre i problemi “terreni” quali la pandemia, l’elezione di un Presidente della Repubblica (e i conseguenti giochi di palazzo) e l’inflazione correlata al costo dell’energia occupano la nostra mente riportandoci prepotentemente con i piedi (e le gonadi) per terra.

Che l’essere umano sia una corda tesa tra il finito e l’infinito, tra lo spazio siderale e il quartiere di casa, tra l’anelito all’immortalità e la caducità di ogni cosa, non saremo certo noi ad affermarlo per primi. Anzi, la filosofia lo ribadisce da millenni: da Eraclito a Nietzsche, da Platone a Kierkegaard, la tensione esistenziale che permea la nostra vita è chiara anche agli occhi del pensatore più distratto.

Ma forse mai come oggi quella tensione si è manifestata in modo tanto concreto, tanto reale.

Da un lato abbiamo i traguardi di un sapere scientifico e ingegneristico come mai ne abbiamo visti finora. Un’opera d’arte che diventa telescopio, grande come un campo da tennis, progettata per fotografare le primi luci dopo il Big Bang, le galassie e le stelle più antiche dell’universo, dandoci letteralmente una finestra su cui affacciarci per vedere l’alba di ogni alba: il James Webb Telescope è molto più di un marchingegno sparato nello spazio al fine di fotografare il vuoto cosmico poiché, perlomeno simbolicamente (ma neanche troppo), è il trionfo dello spirito di esplorazione che ha permesso all’umanità di diffondersi, capire, imparare, trasformarsi, evolvere e sopravvivere nel corso della storia. Il JWT è il prodotto definitivo (ma non finale, almeno speriamo) di un percorso che fin dalla notte dei tempi ci ha portati col naso all’insù per capirne qualcosa in più di quel telo oscuro che sta sopra le nostre teste e che in realtà circonda ogni cosa.

Una missione suicida (per quanto una macchina possa tentare il suicidio) che ha costretto scienziati e ingegneri ad accartocciare un sistema incredibilmente complesso di leve e specchi, come se fosse un origami, per poterlo proiettare verso il cielo dentro un razzo supersonico e farlo poi dispiegare nel vuoto dello spazio, quando ormai, in caso di malfunzionamento, ogni possibile intervento umano sarebbe stato inutile. Il JWT è una scommessa cosmica di proporzioni immani, non solo perché sono ben 300 i possibili fallimenti meccanici e ingegneristici che possono portare al fallimento della missione, ma soprattutto perché migliaia di persone hanno lavorato per decenni (alcuni per trent’anni!) alla buona riuscita di questa follia scientifica che ci lascia ancora oggi col fiato sospeso (infatti, il JWT deve viaggiare ancora per qualche giorno prima di giungere al punto di orbita denominato “L2”, dove inizierà a stabilizzarsi al fine di cominciare la sua missione, ma finora tutto è andato bene: gli specchi e lo scudo termico sono dispiegati e se volete qualche info in più guardate qui: https://www.ilpost.it/2021/12/25/james-webb-space-telescope-lancio-spazio ).
Tutto questo allo scopo di mandarci foto ad altissima risoluzione delle prime luci dell’universo, grazie allo spettro infrarosso che permetterà al telescopio di individuare elementi cosmici altrimenti invisibili all’occhio umano, e non solo a causa delle incommensurabili distanze.

Ma chi siamo noi davvero, di fronte a questa straordinaria ambizione?
Siamo al tempo stesso quelli che si scannano nei parlamenti e sui social network per il rincaro delle bollette, per il temporaneo Green Pass, per un tennista poco avvezzo a seguire le regole che una comunità si dà al fine di proteggere le persone a rischio? Siamo gli stessi talmente impauriti dalla pandemia da non voler più uscire di casa, desiderare di rimanere sempre nel bozzolo accoccolato del nostro salotto, nello smart-working eterno che di “smart” ha poco e del “jerk” ha moltissimo? Siamo i consumatori indomiti di prodotti d’intrattenimento a profusione che hanno sostituito allo zapping il “binge-watching” e sono perfettamente rappresentati da quella frase pronunciata nel film “The Network”: “At least leave us alone in our living rooms!” Siamo gli stessi individui che desiderano “cancellare” ogni cosa ricordi anche solo alla lontana un trauma, una forza indesiderabile, al punto da produrre un nuovo revisionismo storico che prende oggigiorno il nome di “cancel culture”, la quale si permette di eliminare con un colpo di spugna le grandi conquiste della nostra civiltà mal sopportando l’idea che ogni grande impresa porta con sé grandi colpe e responsabilità? Siamo gli stessi che di fronte alle parole che ci danno fastidio mettono in campo un piccolo esercito di asterischi, perché la parola “stupro” ci offende e quindi deve diventare “st*pro”? Siamo i sensibilini del nuovo millennio, i suscettibili che non vogliono nulla che li disturbi, gli inventori della propria identità che però si dimenticano di ricordare le radici della loro reale identità? Siamo così debolucci, ridicoli e piccoli al punto da dover adottare il sarcasmo come unica via interpretativa della realtà, e così dobbiamo rispondere con i “meme” alle grandi tragedie e le grandi conquiste del nostro tempo, diventando infine irrilevanti?

Ho sempre trovato incredibile e ironica l’ambivalenza dell’essere umano, questa sua tensione tra le cose grandi e le cose piccole, il suo perdersi da un lato verso i sogni di un futuro impossibile e dall’altro nell’ombelico dei propri autismi politici e sociali. Da un lato il coraggio di spingersi oltre i confini di ciò che gli altri ritengono normale e familiare, dall’altro la pusillanimità di rinchiudersi nei bozzoli di cristallo edificati al fine di proteggersi dai dardi del mondo. Da un lato l’energia per esplorare ciò che sta oltre la collina, dall’altro la debolezza di rimanere indietro, per paura e sotterfugio, mandando avanti prima gli altri.

La verità è che noi siamo il frutto di questa coesistenza e per quanto i “social justice warrior” della nostra epoca tentino in ogni modo di proiettare un’immagine angelicata di se stessi o di coloro che vogliono “proteggere” grazie all’attivismo (di volta in volta le comunità di colore dal razzismo, gli adolescenti disforici dalla transfobia, le donne dal sessismo, et cetera), nessun essere umano è “una cosa sola”: non siamo totalmente proiettati al di là di noi stessi perché siamo anche pavidi protettori dei nostri privilegi; non siamo semplicemente innocenti dal punto di vista etico, siamo anche macchiati da invidie, sopraffazioni e soprusi intentati contro altri più deboli; non siamo meramente vittime delle circostanze, siamo spesso le circostanze d’altri e i nostri gesti, le nostre parole e idee producono vittime laddove vorremmo vedere i cattivi.
Non siamo solo l’occhio verso dio del James Webb Telescope, siamo anche il rancore pandemico che serpeggia verso il vicino di casa, siamo la fastidiosa presenza che fa la morale a chi se la vive meglio di noi, siamo l’ombelico esistenziale da cui non sappiamo distogliere lo sguardo. Non siamo solo coloro che votano i bravi e buoni perché sono bravi e buoni, siamo anche coloro che augurano il peggio possibile a chi non la pensa allo stesso modo, siamo quelli che si inalberano perché qualcuno ha un’opinione diversa sul nostro film preferito, siamo gli stessi che sbraitano sul web quando si trovano di fronte a un interlocutore che non incontra la nostra simpatia. Siamo questo e siamo quello, siamo il nostro sguardo più lontano proiettato verso il cosmo e siamo il prurito che ci costringe a soffermarci sulle nostre piccolezze. Siamo questo e siamo quello, siamo i nostri sogni verso cui tentiamo di proiettarci e siamo i nostri incubi che non ci permettono di essere all’altezza dei nostri pensieri più alti.

Siamo noi stessi la crisi di civiltà che incarniamo.

Se non accettiamo una volta per tutte questa ambivalenza, se non comprendiamo l’ambiguità di fondo che ci permea, se continuiamo a rifiutare tutto quello che di noi non ci piace, che contraddice l’idea innocente che vogliamo proiettare di noi, finiremo per diventare irrilevanti, prima agli occhi del mondo e poi ai nostri stessi occhi.
A quel punto, dovremo sperare che lo sguardo del JWT guardi solo lontano dalla Terra perché, con la sua straordinaria risoluzione, se puntasse verso di noi mostrerebbe tutta l’inconsistenza delle nostre fantasie. E ci farebbe vergognare dello specchio lanciato sopra di noi.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA tecnologia

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