“LONTANO DAGLI OCCHI, LONTANO DAL CUORE” – EDITORIALE

14518623025_62dc76599e_bFERDINANDO MENGA

Quali corpi vissuti e viventi abitiamo luoghi. Quali corpi fisici, corpi materici tra altri corpi, occupiamo spazi. Nel primo caso, possiamo dire di essere (un) corpo; nel secondo, di avere un corpo. Ricorrendo all’ausilio della lingua tedesca – e non senza qualche licenza di semplificazione –, potremmo far passare questa distinzione, asserendo che mentre la prima prospettiva indica l’esperienza corporea quale esperienza di un Leib, la seconda si riferisce piuttosto a quella del corpo in quanto Körper.

Secondo il filosofo Maurice Merleau-Ponty – e buona parte della tradizione fenomenologica che lo precede e lo segue – è la dimensione dell’essere un corpo – insomma, quella pratica di corpo vissuto – a rappresentare la modalità originaria con cui interagiamo col mondo. In altri termini, è solo a partire dal punto cieco della prospettiva che ognuno di noi incarna, e che nessun’altra o nessun altro può occupare al nostro posto, che ogni soggetto realizza la propria relazione col mondo e prende – per così dire – le “misure” con i vari ambiti d’esistenza.

Evidentemente è entro questa prima dimensione che ha autenticamente senso parlare di vicinanza e lontananza quali possibilità prodotte e percepite dal nostro abitare concreto i mondi-della-vita. Insomma, per dirla in termini ancora più semplificati, è in ragione del fatto che ho costituito la mia relazione col mondo secondo questa o quest’altra declinazione corporea – quale precipitato di tale o talaltro insieme di vissuti – che posso giungere a valutare oggetti o soggetti vicini piuttosto che lontani – come pure posso giungere a lamentarmi, per esempio, che qualcuna/o mi stia troppo addosso, oppure mi faccia percepire distanza nonostante la stretta di un abbraccio.

Ad altra configurazione di fondo rimanda invece la seconda dimensione. Questa, infatti, lungi dall’originarsi a partire da un punto cieco personale e insostituibile, implica esattamente il contrario: impone cioè che ciascuno si guardi da fuori e si metta in relazione con gli altri elementi che popolano lo spazio secondo una modalità neutrale, anonima, standardizzata e interscambiabile. Come si può intuire, una tale dimensione rinvia al modo tipico attraverso cui l’approccio teorico-scientifico e anche l’orientamento tecnico-strumentale si intrattengono col mondo.

Si badi, però, non che qui si tratti di prediligere in modo esclusivo l’una piuttosto che l’altra declinazione d’esperienza. Essendo esseri costantemente inseriti nell’interregno di Leib e Körper, noi non possiamo fare a meno di nessuna delle due dimensioni.

Così, se per un verso risulta indubbio che la modalità primordiale di abitabilità del mondo si struttura a partire dalla corporeità concreta, è altrettanto vero, per l’altro, che è solo grazie al processo d’astrazione scientifico-tecnologico tipico della modernità che, per esempio, si è resa possibile l’espansione stessa dei nostri campi d’esperienza. In effetti, è stato unicamente tramite tale processo di evaporazione dei luoghi concreti e mediante la formalizzazione e omogeneizzazione degli spazi che si è effettivamente realizzata la relativizzazione dei punti di vista tradizionalmente tramandati e, di conseguenza, si è sviluppato il cammino d’emancipazione rispetto alla visione gerarchizzata distintiva della civiltà premoderna – visione notoriamente fondata su una connotazione immediatamente sostantivizzata degli ambiti vitali e sull’aderenza pressoché ontologica dei soggetti ai contesti di provenienza. Un tale passaggio da una forma di localizzazione inscindibilmente ontologico-qualitativa, come quella medievale, a una forma geometrico-quantitativa, di matrice moderna, è peraltro plasticamente riscontrabile – come ci mostra in modo assai suggestivo Jordan Branch nel suo The Cartographic State – proprio nella progressiva evoluzione delle rappresentazioni cartografiche.

Ma ciò detto, è, d’altra parte, nondimeno importante registrare anche la direzione opposta del rapporto, dal momento che neppure la misurazione più standardizzata o la formalizzazione più anonima dello spazio può evitare di riflettere la configurazione pratico-vissuta dell’esistente che ne sta alla base. Un tale ordine delle cose si manifesta non appena si rileva quanto proprio l’atteggiamento tecnico-scientifico caratteristico della modernità non possa essere inteso come un’opzione caduta improvvisamente dal cielo, ma rimandi piuttosto, esso stesso, a una determinata e concreta riorganizzazione epocale di matrice storico-sociale di relazione col mondo. E qui la concretezza si palesa precisamente nel fatto che l’affrancarsi dai luoghi vissuti tramite la formalizzazione dello spazio e la misurazione del mondo rinvia a un processo per nulla neutrale, ma piuttosto tutto fattuale di omogeneizzazione e neutralizzazione. Stando a quanto riscontrava Heidegger, in effetti, relazionarsi tecnicamente col mondo implica anzitutto partire dalla premessa di averlo già inteso, secondo una prospettiva assolutamente pratica, quale rex extensa dal carattere uniforme tanto disponibile al nostro sguardo teoreticamente orientato, quanto sottoponibile al nostro dominio operativo.

Su quanto, poi, il compimento di questo grande processo di trasformazione epocale sia stato necessariamente coadiuvato anche da un’alleanza con la logica del capitale, che giunge al pieno dispiegamento contemporaneo nell’economia di stampo globalizzato-finanziario, è questione su cui non abbiamo bisogno qui di intrattenerci. Per approfondimenti al riguardo, basti partire dagli scritti di Karl Marx fino ad arrivare a quelli più recenti di Thomas Piketty, senza dimenticare, al contempo, il passaggio per le suggestive pagine (de La grande trasformazione) di Karl Polanyi, come pure – volendo riferirci a un’analisi tutta nostrana – per le acute riflessioni del giurista Pietro Barcellona (specialmente quelle contenute ne L’individualismo proprietario).

Quello su cui dobbiamo però soffermarci, per tornare al nostro tema, è esattamente la gerarchizzazione che la considerazione or ora evocata implica entro la relazione tra lontananza e vicinanza. Sì, perché il punto è effettivamente questo: quale configurazione di un rapporto vissuto e concreto col mondo all’insegna del dominio teorico e dello sfruttamento funzionale, l’atteggiamento tecnico-scientifico (con tutti i suoi addentellati) non può che prediligere il registro della prossimità in quanto intimo riflesso dell’accessibilità diretta dei luoghi e immediato stare-a-disposizione delle cose. E, d’altro canto, sempre il medesimo atteggiamento non può che rifuggire contestualmente il regime della lontananza quale contrassegno dell’indisponibilità al dominio.

Peraltro, si rende piuttosto semplice rintracciare l’esito ultimo di un tale atteggiamento generalizzato nell’epoca attuale, proprio nel momento in cui si connette lo sprigionamento estremo della tecnologia avanzata con l’inarrestabile processo di mondializzazione che ha messo in moto, e la cui logica più intima, in effetti, altro non rivela che l’aspirazione profonda a rendere ogni luogo del globo disponibile e dominabile e, di conseguenza, occupabile sotto il segno di una prossimità sempre riscontrabile e di una lontananza via via revocabile.

Nonostante gli innumerevoli vantaggi collegati alla realizzazione di una tale aspirazione, molteplici sono pure le ripercussioni prodotte dalla prioritizzazione della prossimità che essa persegue. Il contraccolpo più evidente si manifesta nel fatto che un progetto titanico del genere, data la provenienza concreta, storica e finita a cui comunque rimanda, può mantenersi in vita solo attraverso un inarrestabile processo all’insegna della volontà di potenza, ovvero mediante una dinamica di paranoica autoaffermazione e il concomitante esercizio di persistente obliterazione violenta di tutti gli elementi e le esperienze che, di volta in volta, ne lasciano affiorare la matrice contingente. Esso culmina, così, in una mastodontica operazione di tendenziale uniformazione del mondo che può perpetuarsi solo al prezzo del continuo tentativo di allontanamento e rimozione – o meglio, di ricacciamento nella latenzadi altri mondi possibili.

Oggigiorno, questi mondi altri che tentano invano di affacciarsi al mondo assumono la consistenza eterea di molteplici tracce marginalizzate e oscurate, come quelle che popolano le tante e variegate periferie del nostro pianeta globalizzato; oppure si tratta di tracce che non riescono nemmeno per un momento ad affiorare, restando subito sepolte come puntini invisibili lungo le rotte migratorie di deserti lontani o inabissate in quell’enorme cimitero liquido che ormai è diventato il Mediterraneo. Oppure ancora tali tracce assumono la forma ancor più evaporata di mondi a venire che mai avranno possibilità di giungere all’esistenza quali ambienti di vita ospitali a causa della predatoria cecità degli umani di oggi e della loro incapacità di praticare una morale a misura delle generazioni future. E neppure possiamo omettere di ricordare, in tale contesto, le tracce invisibili dei milioni di animali non-umani ogni giorno fagocitati nella gigantesca macchina di una mattanza che si consuma nascosta e inarrestabile per poter soddisfare i bisogni dell’umano dominatore.

Quali che siano le forme concrete di tali espulsioni nella latenza (o operazioni di messa a debita distanza), in tutti i casi sembra valere sempre e comunque la medesima logica di un “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” (per riprendere il titolo di una celebre canzone di Sergio Endrigo), ovvero il riproporsi di quel meccanismo di occultamento diagnosticato molto bene già da Nietzsche più di due secoli fa, allorché fa pronunciare al suo Zarathustra la seguente – semplice e, a un tempo, raggelante – considerazione: «I più lontani devono scontare il vostro amore del prossimo; e già quando siete radunati in cinque, deve sempre morire un sesto».

Quello attuale, peraltro, potrebbe risultare un momento assai propizio per rinnovare un’analisi per nulla scontata su come il rapporto tra vicinanza e lontananza possa essere calibrato e vissuto. L’esperienza pandemica che stiamo attraversando, difatti, almeno una qualche perplessità pare consegnarcela al riguardo: sì, quantomeno l’interrogativo che si intrufola nello spazio tra l’ubriacatura tecnologicamente alimentata di un’onnipresenza che ci sembrava pressoché garantita e la traumatica interruzione delle più quotidiane e consolidate esperienze di prossimità che, nostro malgrado, abbiamo dovuto imparare a registrare.

Certamente, queste pagine sono riuscite a raccogliere soltanto un possibile percorso di decifrazione della questione: assai più ricche – e intriganti – chiavi di lettura potranno essere senz’altro rinvenute nei contributi che compongono questo numero.

“124/365 chi ha scritto ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore’ è solo tanto lontano dalla verità..la verità è che non ha capito niente!” by FotoCla. is licensed under CC BY-SA 2.0

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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