L’INFERNO IN TERRA
PEE GEE DANIEL
Grondo sangue come fa l’acero con la sua sciropposa linfa quando arriva la bella stagione. Sembra lo stia trasudando, come Cristo ai Getsemani, invece è tutta emoglobina altrui a inzaccherarmi.
È da così tanto tempo che vado avanti con ’sta carneficina che il primo sangue che mi è schizzato contro ormai mi si è indurito addosso come una vecchia giacca in cuoio. Menomale che c’è sempre del sangue fresco a ravvivare il mio pauroso aspetto attuale col suo brillio, mentre proseguo senza più un minimo di strategia dentro l’asfittica trappola per ratti in cui si è velocemente tramutata questa filiale di periferia, che avevo imbucato tot ore fa con la pia intenzione di ficcarci poco poco il naso dentro, risolvere la rapa in un flash e scarpinare via con il malloppo in spalla, facendo perdere le mie tracce in un amen.
Si sa che le cose il più delle volte prendono una piega tutta diversa dai nostri preventivi. E così chissà da quanto mi trovo infognato qua dentro a farmi largo tra metronotte, clientela, sportellisti e direzione bancaria con due ferri smatricolati in mano presi dal magrebino del mio palazzo prima e, ora che ho finito i confettini di piombo, con un paio di aguzzi tagliacarte scippati da una scrivania, perso in un ammazza-ammazza senza più scopo. La situazione mi ha preso la mano. Ok, all’inizio mi sono visto costretto, quando quel panzone in divisa ha tirato fuori dalla fondina la sua Glock, poi non posso negare di averci cominciato a prendere gusto.
Trasento scoccare il mezzodì dalla chiesa che c’è a due isolati di distanza. Uff, se passa il tempo quando ci si diverte… Proprio al dodicesimo rintocco, ecco che fa irruzione la Madama. Come farne a meno? Hanno approfittato che mi ero distratto un attimo a ricamare a punta di tagliacarte un secondo sorriso tra orecchio e orecchio, un dito sopra il pomo d’Adamo, al vice-direttore culo lardoso, che non voleva saperne di giochicchiare sul manometro della cassaforte dicendo che intanto era inutile ché le casseforti ci hanno l’apertura a tempo… Appena me la do riesco giusto a sgattaiolare via attraverso il corridoio, ma è una fuga da fiato corto… Odo gli sbirri piedipiattarmi alle terga, sempre più da presso, sempre più da presso, mentre infilo un cateto dopo l’altro di ’sto corridoio fottuto, come una cavia dentro il labirinto in plexiglas, finché non mi è chiaro che di qui non me ne cavo fuori, quando, dopo una schiera di porte chiuse a chiave, mi affaccio su un percorso che si conclude con una parete bianca senza appelli.
“Fermati, sei fritto!” mi ribadisce la sbirraglia alle mie spalle. Non posso darle torto. ’N c’ho voglia di porgere i polsi per farmi ammanettare, ’n c’ho voglia di essere strattonato e intampato in macchina e portato fino in questura, ’n c’ho voglia della perquisa, dell’interrogatorio, delle notti in gattabuia, ’n c’ho voglia delle lunghe attese, del giusto processo, degli anni da scontare al fresco, della scarcerazione, del ritorno alla mia schifida vita. Preferisco finirla in bellezza. Come Richard Gere nel finale di quel noto film. E allora, una decina di metri prima di sbattere la faccia al muro, mi volto di scatto verso i miei pedinatori, con un avvitamento cardanico: le gambe in avanti, il busto a retro. Pongo le mani a pistola, faccio finta che sparo, quelli, l’appuntato, il maresciallozzo e l’agente semplice, presi dalla foga, rispondono al finto fuoco con quello vero, scaturito dalle loro tre Berette d’ordinanza. Ognuno di loro mi scarica addosso tutto il caricatore. Tre caricatore da una dozzina di proiettili cadauno. Mi riducono un colabrodo. Le prime pallottole sono come l’urto di un camion in corsa concentrato in un pezzo di piombo grosso quanto un ditale, il resto è tutto un Fuoco di Sant’Antonio che mi brucia la carne, sinché non sento il mio corpo che casca giù, all’indietro, senza resistenze.
Mentre già i sentimenti mi si vanno smorzando e attendo di concludere la commedia col patatrac della mia nuca contro il pavimento, l’urto non avviene. Non finisco di cadere, mai. Anzi, è come se il corpo mi facesse un giro di 360°, alla fine del quale, sballottato ma nuovamente vigile, mi ritrovo dritto in piedi dentro uno scenario affatto diverso.
È un ambiente strano quello che ora mi circonda. Un suono liquido mi intasa le orecchie, mentre cerco di guardarmi attorno. Una specie di caverna artificiale, ecco. Qualcosa di posticcio, così, a occhio. Del genere: trattoria turistica ricavata in un’antica spelonca. Ma più parco a tema, a giudicare dalle dimensioni.
Un semibuio fosforescente rischiara debolmente la misteriosa location in cui, chissà come, sono finito. Non sono solo, questo mi è evidente sin da subito. Avverto delle presenze ingombrare lo spazio che mi ospita e come dei sospiri grugnenti.
Quando timpani e pupille si abituano al nuovo ambiente, sento sempre più distintamente dei gemiti, seguiti da urli soffocati, provenire da una distanza che non saprei misurare neppure approssimativamente.
A un certo punto, mentre sto ancora sbirciando in quella mezza oscurità, il cuore mi si ferma (sempre che un muscolo cardiaco ancora ce l’abbia): mi accorgo all’improvviso di un certo numero pari di occhi verdastri e maligni puntati su di me. Sembrano oscillare a mezz’aria, come tanti minuscoli fuochi fatui. Finché, con un ulteriore sforzo, vedo prendere forma intorno a quegli sguardi beffardi certe creature ricoperte di viscide squame cangianti, con squarci dentati al posto delle bocche e lunghe orecchie appuntite che svettano come antenne sopra i crani oblunghi.
La visione mi atterrisce. A tal punto da eseguire spontaneamente un balzo all’indietro. Questo mi fa cozzare contro qualcosa di alto e rigido che emana un forte fetore acidulo. Alzo la testa, girando contemporaneamente gli occhi, e mi accorgo di un energumeno altrettanto mostruoso che mi osserva dall’alto in basso: “Forza, signore, è il turno suo!”. E sfiatando ciò, mi sospinge in avanti con una delle sue grinfie artigliate.
È così che mi ritrovo a pochi centimetri da quella che ha l’apparenza di una raccapricciante corte penale. Quello che dà l’idea di essere il giudice monocratico mi richiama a sé con uno scatto del lungo indice verrucoso: “Sterna Giulio, dico bene? Nato il? A?”. Le mie risposte vengono annotate su una pergamena bruciata agli angoli da quattro fiammelle che non estinguono né consumano la materia.
“Scusate, ma… d-dove sono?” balbetto intimidito.
“E c’è bisogno di chiederlo?” sbotta allora l’essere panciuto alla mia destra, reso ancor più brutto da una riccia peluria che ne buca le squame. I compari suoi sghignazzano, invitandomi con ampi gesti delle braccia a guardarmi meglio intorno.
“Bando alle ciance, ora!” taglia corto quello a capo del consesso plenipotenziario, “Ce ne sono parecchi dopo di lei. Passiamo a comminarle la pena eterna, così ella verrà tradotto al suo reparto e noi si potrà procedere nell’ingrato compito…”.
Quello con un becco adunco e frusto in mezzo alla faccia gommosa si alza, mal reggendosi sulle zampe posteriori retroflesse. “Sterna Giulio, da quanto ci comunicano ella giunge testé a noi dopo aver disseminato un numero di cadaveri che si aggira intorno alla mezza dozzina a fronte di una rapina non riuscita. Dunque, dunque, dunque… Il caso è piuttosto semplice: assassinio plurimo più avidità… Mmm… Per lei si affaccia un soggiorno senza fine mai presso il reparto 18, stanza 10, piano 45 della presente struttura. Si goda l’illimitato pernottamento…”.
Un paio di braccia mi sollevano per le ascelle, mi trascina via di schiena. “Il castigo perenne consiste nell’immersione dentro le acque ardenti, bersagliato da continue frecce acuminate” sento ancora precisare con tono monocorde dal terzo giudice, contraddistinto da due grossi tumori ossei che gli svettano sopra la fronte. “Certo che ogni tanto un riammodernamento a queste pene bisognerebbe pur darlo. Così come sono fanno tanto immaginario medievale…” lo origlio commentare a bassa voce, rivolto ai compari.
“Ehi! Frena, frena, frena…” imploro, mentre la mia scorta si fa sempre più impaziente. “È tutto così profondamente ingiusto! Io neanche ci dovrei stare, qui dentro…”.
“Sì, va bene, è così che dicono tutti…” glossa la creatura cornuta, ma il giudice al centro lo zittisce: “Calma, calma. È pur vero che ogni dannato ha diritto a un’ultima autodifesa”.
La mia corsa si arresta e io vengo gettato in avanti ginocchioni. “Avanti, Sterna, dica la sua!”.
“Io… beh io… non mi merito questo… voglio dire, io tutto questo l’ho già vissuto… ho già scontato tutti i miei peccati… ancor prima di compierli… preventivamente si può dire”. I loro occhietti porcini, a queste mie parole, sembrano ravvivarsi di interesse.
“Come sarebbe?” mi chiedono in coro.
“Io ho già vissuto l’inferno. L’inferno in terra, intendo”.
“Sarebbe a dire?”.
Alzo l’anulare sinistro e lo indico con l’indice dell’altra mano: “S-sono… sposato!”.
“Ah” reagisce la creatura pelosa. Appare turbata. “E… da quanti anni?”.
“Cinque e mezzo” rispondo.
“Un po’ pochini per farli equivalere a un’eternità di laceranti penitenze, non crede?”.
“Sì, ma trascorsi con la più grande rompipalle in circolazione, ve lo posso assicurare. Cinque anni accanto a lei sono come… come un intero ciclo di punizioni quaggiù…” mi giustifico. “Sono stati anni di tribolazioni. Rimproverato sempre e comunque, qualunque cosa facessi, alla stregua di un bambino ritardato… Mai nulla di quello che facevo andava bene. A sentire lei, sono solo un buono a nulla. Il peggio reietto di questo sporco mondo. Tanto per dire, la rapina di stamattina, giù alla banca, chi credete mi abbia portato a farla? Sì, esatto: lei! È un’infinità d’anni che mi dice che non so alzare soldi a sufficienza, che siamo sempre a corto di denaro, che i lavori che trovo sono robe da sfigato a salario minimo, che non ci possono assicurare una vita decente. E tutto questo mentre quella se ne sta sdraiata tutto il giorno sul divano a grattarsi costantemente il didietro… Così, a inizio settimana mi sono detto: vedi che li trovo ’sti maledetti testoni. Così tanti e tutti insieme da far chiudere il becco almeno per un po’ a quell’insoddisfatta piantagrane. Ecco com’è andata…”.
Il capo dei giudici si raddrizza sul sedile. Il mio caso deve aver destato la sua attenzione, da come sta lì a fissarmi, con un’espressione che oserei definire attraversata da una qual partecipazione emotiva. “E dica, Sterna, qual è il nome della sua… aspra metà?”.
“Guenda… Oddio, Guendalina… Guenda è come la chiamano quei suoi amichetti scemi con cui ama trascorrere le ore libere, cioè, in pratica, quasi tutte le ore in cui è sveglia…”.
“Mmm… Guendalina… E, di cognome?”.
“Guernacci”.
“Guernacci, Guernacci, Guernacci eh…”. Con aria assorta il tipo dalle zampe retroflesse inizia a scartabellare un faldone che finora aveva tenuto tra i piedi palmati. “Eureka! Guernacci Guendalina! Poteva comunicarcelo subito. Questa non è una semplice noia, questa donna è un lungo indice insabbiato spinto su per il deretano! Già ce l’abbiamo annotata. Posto d’onore prenotato presso il Girone dei Grandi Cagacazzi. È da anni che siamo in attesa. È già tutto pronto”.
“Guernacci Guendalina… mmm… è giunta voce anche qua… Carattere uterino, voglia di vomitare le proprie personali frustrazioni contro i pochi che ancora le stiano vicino e le diano retta, insicura, egoista, invidiosa, gretta, priva di qualsiasi senso dell’umorismo? Conosciamo, conosciamo. Quelli sono i peggiori di tutti. Per loro abbiamo riservato le più penose mortificazioni”. Una risata chiassosa e sinistra rimbomba contro le pareti di roccia levigata.
“Ella è libero di andare dove più gradisce, Signor Sterna. La sua condanna infernale viene obliterata causa precedente espiazione…”.
“Grazie, grazie di cuore, signori giudici” mi commuovo mentre la stretta intorno alle mie braccia si allenta e i due energumeni che mi avrebbero dovuto scortare sino all’eterno bagno penale mi invitano all’uscita con un accenno di sorriso.
Prima di dirigermi all’intaglio di luce laggiù, mi soffermo un attimo ancora, mi rivolgo per un’ultima volta alla postazione da cui il trio infernale emette i propri inappellabili verdetti: “E, di grazia, Vostri Onori, così, per curiosità, qual è la punizione prevista per gente come… la mia signora?”.
“Gli ospiti dell’apposito padiglione vengono assicurati a un seggiolone tramite un sistema di lacci e catene e presi letteralmente a pesci in faccia. Se a ogni colpo non ringraziano lieti per il colpo inferto loro, si passa a percuoterli con pesci di taglia sempre maggiore e dalla consistenza sempre più coriacea” mi informa con distacco professionale il tizio con le zampe retroflesse.
“Severo ma giusto” è il mio commiato.
ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA Endoxa Maggio 2022 Inferno Pee Gee Daniel