LA RIVOLUZIONE DEL VINO NATURALE
LORELLA REALE
Siamo nella sala conferenze di un prestigioso hotel della capitale per una degustazione verticale, ossia l’assaggio di più annate del medesimo vino, dieci in questo caso, di una blasonata azienda toscana. Pochi minuti dopo che i calici sono stati versati, alcune persone abbandonano turbate i loro posti e le parole che rimbombano nell’aria sono “inconcepibile”, “tutte uguali”, “una tragedia”.
Per capire cosa è successo, è necessario ripercorrere un lungo pezzo di storia, agricola e sociale, che però ci tocca tutti/e, sia esperti ma anche semplici enofili. Il vino è infatti presente nella storia dell’umanità da 11.000 anni: succo della Madre Vite per i Sumeri, simbolo del patto tra Dio e popolo eletto, preziosa merce di scambio nel mondo greco e indice di potere tra i Romani che impiantavano vigneti solo dove intendevano restare. La bevanda, che nasce dal misterioso processo della fermentazione dell’uva e scalda viscere e cuore, secondo i reperti archeologici, quindi, ci accompagna fin dal Neolitico e ha sempre rappresentato un elemento culturale potente, perché è l’unico prodotto agricolo ad averne le potenzialità. Ma è soltanto oggi, nel terzo millennio, che con il movimento dei vini naturali, il vino, o meglio un certo tipo di vino detto “naturale”, è diventato icona di una contestazione planetaria, di una forma di resistenza etica ed ecologista, economica e culturale.
Ora la vicenda è complessa e una premessa potrebbe rivelarsi utile: ciò che le persone cercano nel vino è di certo diverso e vario, piacere, esaltazione di un piatto, il potenziamento di un mestiere, un hobby raffinato, talvolta stordimento. Ma anche in tutte queste varianti, di propensioni e desideri, c’è una cosa sempre comune: tutti/e desideriamo che il vino che stiamo per bere o stiamo acquistando sia buono. Però quando, esattamente, un vino è buono? e cos’è buono in un vino?
Negli anni Settanta, prima in Francia e subito dopo in Italia, da sempre i più importanti paesi produttori di vino, alcuni viticoltori iniziarono a contestare l’uso di pesticidi per coltivare la terra – nel loro caso, i vigneti -, sostenendo che i residui dei pesticidi nel prodotto finale, e gli additivi usati di conseguenza in cantina, non potessero portare a un buon vino, sia per gusto che per qualità. Fu così che questi primi coltivatori si misero a produrre vini che chiamarono “naturali”, senza pesticidi e additivi, rispondendo a due esigenze impellenti, una etica e una di qualità. Poi, nel giro di alcuni decenni, si unirono a loro in vari continenti, nuovi produttori, stavolta spesso provenienti da altre professioni, giornalisti, intellettuali, matematici, avvocati, traduttori, farmacisti, che ribattezzati new rural, si spostavano dalle città a vivere in campagna per creare le loro cantine. Non c’è dubbio infatti che il movimento dei vini naturali, come scrive la giornalista Alice Feiring nel suo libro Vino naturale per tutti, vada inserito sotto un cappello più grande, ossia la pubblicazione, nel 1962, di Primavera silenziosa della biologa e zoologa statunitense Rachel Carson. Carson denunciò, per la prima volta, gli effetti devastanti e letali di Ddt e pesticidi in tutti i terreni in cui venivano usati, allora gli Stati Uniti istituirono una commissione che, in gran parte, approvò le scoperte della biologa, contribuendo a plasmare una neonata e crescente consapevolezza ambientale. Ma per valutare la portata della denuncia di Carson, in tutto il mondo industrializzato, bisogna capire che cosa era successo prima.
Dopo il secondo conflitto mondiale le sostanze chimiche, usate per la costruzione delle bombe, che erano avanzate, vennero riciclate in agricoltura, fu così che nacquero i primi erbicidi e pesticidi (organoclorurati, nitrati, fosfati e diserbanti). Questa produzione, si alimentò anche dopo il secondo conflitto mondiale e, successivamente, con la guerra in Vietnam. La storia dell’agricoltura, da quel momento, prese un corso radicalmente diverso rispetto al passato, paradossalmente noto come “Rivoluzione verde”. Con questi prodotti, si prometteva agli agricoltori una produzione elevata, talvolta al di là della vocazione dei terreni per certi ortaggi o piante da frutto, ma soprattutto una produzione al di là del clima. Cosa accadde? La struttura biologica dei terreni, con l’uso dei pesticidi, iniziò a cambiare, fu compromessa la vitalità dei suoli e delle piante, a cui si cercò di sopperire e si sopperisce tutt’oggi con altri prodotti in mano a poche multinazionali, in una catena infinita di rimedi, come ha sottolineato il viticoltore e giornalista Piero Riccardi in Riprendiamoci il cibo, connessa a ulteriori disastri da curare. Oltre a questo, fu inevitabile inquinamento dei terreni, dell’aria e dell’acqua. Ma, nel caso della viticoltura, ci fu un’ulteriore conseguenza: l’uva, così coltivata, iniziò a non fermentare più spontaneamente come nei millenni precedenti, nacquero allora i lieviti di laboratorio, gli additivi per sistemare i vini in cantina, e divennero necessarie figure di tecnici di cantina e consulenti esperti. Tuttavia, appunto, Primavera silenziosa aveva suonato un allarme potente che finì per coinvolgere anche questo settore, dove altrettanto memorabile e scioccante fu la dichiarazione della coppia di ingegneri agronomici Claude e Lidia Bourguignon, noti per i loro studi sulla microbiologia dei terreni, secondo i quali gli effetti dei pesticidi erano più che evidenti nei vigneti francesi: “C’è più vita nel deserto del Sahara, che in una qualsiasi vigna della Borgogna!”
Ora, il punto dirimente da chiarire in questa storia era e resta ancora un altro. Se infatti è facile immaginare che i nostri antenati non avessero intuito che il succo dolce dell’uva sobbolliva trasformandosi in vino grazie alla presenza di lieviti nell’aria – e non a caso l’attribuivano a divinità o a personaggi leggendari come Noè -, meno noto è il fatto che la comprensione di questo processo, fondamentale per la produzione del vino, fu realmente possibile a metà dell’Ottocento, con gli studi di Louis Pasteur. Solo allora, si cominciò a capire che ciò che rendeva un vino ben fatto nonché quella bevanda straordinariamente capace – e per questo unica al mondo – di esprimere un terroir (il rapporto speciale che lega un vitigno a una zona, al clima dell’anno, alle caratteristiche minerali del suolo e alla mano sapiente del suo viticoltore) era in gran parte dovuto proprio all’azione dei lieviti, sempre tanti e diversi, nelle fermentazioni spontanee, per zone e cantine. E, dunque, un processo ineguagliabile con l’uso di una singola famiglia di lieviti artificiali di laboratorio da inoculare nell’uva raccolta. Questo, era dunque un elemento cruciale, a cui però non si prestò subito attenzione.
Nel corso di più quarant’anni, dagli inizi della rivoluzione verde, la coltivazione dei vigneti con i pesticidi, e l’uso necessario di un lievito da laboratorio, hanno portato così alla produzione di vini meno espressivi, vini omologati e non più unici, ma assimilabili in un certo senso ad altre bevande create con ricette precostituite, che addirittura con scuole, linguaggi, guide e premi, alimentano l’idea di un vino modello, dettato dalla moda del gusto mainstream, a cui le cantine possono aspirare con l’aiuto di consulenti ben pagati. Un vino, insomma, che oltre a fare piazza pulita di quella formidabile e unica potenzialità dell’uva di essere ‘di terroir’, annulla il valore della biodiversità nei vari paesi, che è data dai vitigni autoctoni, di cui l’Italia, ad esempio, ne conta ben 545 tipi, tra cui Sangiovese, Nebbiolo, Cesanese, Malvasia Puntinata, Trebbiano e che ci si aspetta diano vini dai sapori diversi. Negli anni Settanta, in Francia, alcuni produttori lavorarono perciò ai primi esperimenti per fare di nuovo un vino ‘senza’: senza lieviti artificiali, senza nutrimento dei lieviti, senza additivi. Si racconta che quando Marcel Lapierre, nella regione del Beaujolais, subentrò alla gestione dell’azienda di famiglia e si accorse di detestare il suo stesso vino, si recò da Jules Chauvet che, scienziato e vignaiolo, si diceva che avesse capito come tornare a fare vino senza l’uso di additivi, e quello che Lapierre scoprì fu che Chauvet praticava innanzitutto una agricoltura biologica ante litteram. A partire da loro due, altri produttori, con tenacia e coraggio – dato che venivano denigrati e additati come pazzi – li seguirono. E una storia simile, quasi parallelamente, si verificò in Italia, attorno al viticoltore friulano Josko Gravner, che dopo un viaggio in California dove aveva assaggiato dei vini che gli ricordavano i suoi, capì che non voleva più fare a Oslavia un vino massificato come quello che aveva visto fare in America, e che lui stesso stava facendo. E’ qui dunque che si può collocare uno spartiacque definitivo, tra vini “convenzionali”, prodotti con l’uso di pesticidi in vigna e additivi in cantina e i vini “naturali”, prodotti con agricolture che vietano l’uso di pesticidi, e con conoscenze botaniche, biologiche ed enologiche.
In generale, i vini naturali sono vini frutto di agricoltura biologica o biodinamica, e sono ottenuti in cantina senza aggiungere né togliere nulla. Al contrario, i convenzionali, che costituiscono tutt’oggi più dell’80% dei vini prodotti nel mondo, sono realizzati aggiungendo e sottraendo cose, sono infatti il risultato di una fermentazione realizzata aggiungendo lieviti di laboratorio che apportano alcuni profumi e sapori precostituiti; possono essere rifiniti ulteriormente in cantina, secondo il modello di vino che si ha in mente, regolandoli in acidità con l’aggiunta di acido tartarico o deacidificandoli con carbonato di calcio; oppure, ancora, abbassando o alzando il grado alcolico; aggiungendo o smussando tannini; illimpidendoli con colla di pesce per renderli brillanti, filtrandoli per renderli immutabili. Perciò, se teniamo ancora una volta presente che l’uva è l’unico frutto in grado di ‘leggere un terreno’, allora si capirà perché i vini naturali hanno sapori che alcune generazioni di bevitori non hanno mai sentito. Ma si capirà altresì perché solo un’uva così prodotta può offrire vini ‘di terroir’ e dar conto di un’annata, rispetto a un’uva che, colpita e depotenziata con l’uso di pesticidi, è soltanto capace di dare vini in cui, come i degustatori scontenti alla verticale dell’hotel romano, si registrerà, se attenti, un livellamento di sapori e una drammatica prevedibilità.
E c’è ancora altro che il vino naturale mette in rilievo. In Sorsi letterari. Vino naturale come utopia, il mio contributo alla ricerca di un nuovo linguaggio necessario per dar conto del vino naturale, dove traccio un parallelo tra vini di viticoltori italiani ed esteri e testi letterari, ho scritto che “il vino è l’unico testo, tra i prodotti che inseriamo nel nostro corpo per alimentarci, che coglie e fotografa e racchiude un luogo, una mano, un vitigno, come forse soltanto una fotografia o una pagina di letteratura potrebbero fare – fermo restando che queste ultime non possiamo assaggiarle. Né le ingeriamo, né le odoriamo.” Con il vino naturale, si rimette allora non soltanto al centro l’eccezionalità dell’incontro tra il calice e la sensibilità di chi assaggia fatta di emozioni, memoria, cultura, ma il vino torna anche a essere, come in passato, un alimento, che con i suoi polifenoli e antociani (l’alcol è solo la sua tredicesima parte), e nessun residuo di pesticida, può di nuovo farci bene. “Per ora la dicitura vino naturale resta un compromesso lessicale, non riconosciuto dalla legge, sul cui significato non tutti concordano”, scrive l’editore e sommelier Samuel Cogliati Vini naturali. Che cosa sono?, che appunto “si prefigge di indicare un vino prodotto in modo rispettoso dell’ambiente e salutare per chi lo consuma; ma anche, di conseguenza, di qualità migliore e ben connotato.” E’ questo il vino che è il simbolo di una protesta più profonda, a cui partecipa chi lo produce, chi lo vende e chi lo acquista.
“Wine on the table” by valeuf is licensed under CC BY 2.0.
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