DE CURA REI PUBLICAE: PER LA LEGGIBILITÀ DELLA DITTATURA ROMANA
ANDREA RACITI
“Il diritto – la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo” Nietzsche, Frammenti postumi 1882-1884
1. Leggere l’inattuale
La comprensione dell’essenza di un fenomeno storico è condannata ad uno statuto paradossale: la sua realizzazione si compie in un gesto che si colloca oltre la scienza storica e le sequenze fattuali da essa elaborate, pur restando, ad un tempo, confitto strenuamente in esse. La comprensione storica essenziale si muove, in un certo senso, entro una coimplicazione tra trascendenza sulla e immanenza alla scienza che costituisce come tali i fatti storici, la storiografia.
Lo sapeva bene Marc Bloch. Questi, nel suo Apologia della storia o il mestiere dello storico, non si limita a ribadire l’esigenza del ruolo meramente descrittivo, ricostruttivo, quindi, imparziale che caratterizzerebbe quella che Burgio, ne Il sogno di una cosa. Per Marx, ha definito come «l’essenza contemplativa del rapporto con il passato» che pare contrassegnare – prima facie – in senso assai riduttivo lo storico blochiano, all’insegna di un rigetto di qualsiasi giudizio di valore sul passato.
In realtà, come rileva a ragione lo stesso Burgio, Bloch si spingeva ben oltre l’asfittica apologia della cosiddetta “imparzialità storica”.
Infatti, nella stessa opera, lo storico francese non esitava a scrivere che i quesiti che spingono lo storico a iniziare qualsiasi indagine, non solo sarebbero dettati da prospettive ereditate dalla tradizione, dal senso comune e, soprattutto, dai pregiudizi comuni – in questo senso, «non si è mai tanto ricettivi come quando si pretende di non esserlo» – ma anche che siffatta ammissione della subordinazione della prospettiva storica all’angolo visuale proprio dell’indagine si regge sulla – ed è governata dalla – coscienza della realtà storica intesa come il presentarsi di una «quantità quasi infinita di linee di forza, tutte convergenti verso un medesimo fenomeno». Per questo, chiosava Bloch, a un principiante non si può dare consiglio peggiore di quello di attendere, in una sorta di atteggiamento di mistica sottomissione scientifica, «l’ispirazione del documento».
Vorrei tentare di tracciare qui, o meglio, di introdurre al possibile sguardo sulla traccia di una delle infinite linee storiche, ovvero la dittatura romana propria dell’età repubblicana, in quanto linea privilegiata convergente verso il fenomeno eminentemente storico, e, come tale, a noi già-sempre presente, del dicere ius, ossia della rivelazione-apparizione del diritto in quanto esperienza fondamentale della storia dell’Occidente, e, ormai, con la compiuta penetrazione universale e omogenea di quest’ultimo, del pianeta. Insomma, è possibile ipotizzare che, a partire da una meditazione filosofica sull’essenza storica della dittatura romana, sia pensabile giungere a riconoscere i tratti fondamentali del volto di quella struttura fondamentale dell’Occidente, la cui Vollendung tecnica si inizia solo nel nostro tempo a intravedere, che è il diritto nel suo legame inscindibile e ineludibile con il potere.
Se quanto affermato è corretto, forse, nel nostro tempo potrebbe aprirsi la via alla leggibilità dell’inattualità quantomai presente e imperante del senso storico essenziale che la dittatura romana ha per noi, ovvero per la nostra epoca quale momento la cui storicità è data dal riferimento incontrovertibile alla dialettica dell’eternità dell’annientamento, al contempo, dell’essente come tale e di ogni essente determinato.
È opportuno far presente alcune considerazioni storiografiche essenziali. La cura rei publicae cui si fa qui riferimento, non è certo assimilabile alla cura et tutela rei publicae universa che si intestò Ottaviano (Augusto, dal 27 a.C.) quando, dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), egli consolidò sempre più il proprio principatus negli anni successivi (in particolare dal 27 a.C. al 4 a.C.).
Bisogna tentare perciò un’operazione interpretativa che si collochi al livello del trauma storico-politico che pervade la domanda posta da Tacito nel libro I degli Annales:«(…) quanti restavano, dunque, di quelli che avevano visto la Repubblica?»
- «Ultimum auxilium»
La cura rei publicae di cui parliamo è quella propria del diritto costituzionale romano che va dal lungo processo di genesi della Repubblica (510-509 a.C. fino al 367 a.C. ca.), già da Tito Livio e Cicerone ritenuto massimamente avvolto nell’oscurità e nell’incertezza, fino alla fine del III secolo a.C. (202 ca.). La dittatura, nella fase più matura e consolidata dell’ordinamento repubblicano, viene ritenuta la magistratura straordinaria par excellence, che incarna più di ogni altra carica politica (dignitas) l’istituto gius-pubblicistico della cura, ossia un particolare tipo di potestas concernente un potere (imperium) parimenti civile e militare (pur con una forte accentuazione di quest’ultimo aspetto) affatto illimitato, esorbitante perciò senz’altro dalle competenze attribuite ai magistrati ordinari (consoli, pretori, censori, etc.) e conferito al fine di assolvere per un tempo limitato un determinato compito, che presentava perlopiù i caratteri di un Notstand (stato di necessità).
Gli elementi essenziali della dittatura repubblicana erano i seguenti:
1) durata massima della carica di 6 mesi, dunque temporalmente più ristretta di quella annuale tipica delle magistrature ordinarie (con l’eccezione dei 18 mesi di durata prevista per i censori); in ogni caso, la dittatura cessava prima della scadenza naturale nell’ipotesi in cui il dictator avesse adempiuto il suo incarico (o se la situazione di necessità per cui era stato nominato si fosse estinta) prima dello scadere dei 6 mesi;
2) il dictator non veniva eletto dalle assemblee popolari, cioé né dai comitia centuriata (come avveniva per consoli, pretori, censori, edili curuli, etc.) né dai comitia tributa (come nel caso dei tribuni della plebe, degli edili plebei, dei questori), né infine dai concilia plebis, bensì era nominato da un console su proposta del Senato;
3) la straordinarietà della dittatura era testimoniata anche dalla collegialità diseguale della carica, poiché il dictator, a differenza di tutte le magistrature ordinarie, non era affiancato da un collega con eguali poteri che potesse far valere il proprio diritto di veto (ius intercessionis) contro le sue azioni, ma nominava un comandante della cavalleria (magister equitum) a lui subordinato;
4) durante la permanenza in carica, il dictator era munito di un imperium illimitato su ogni affare e circostanza, militare o civile che fosse (imperium militiae ac domi) – omne imperium, secondo il De re publica di Cicerone –, tant’è che il suo operato non solo non era soggetto al potere di veto dei tribuni plebis ma – cosa ancora più radicale dal punto di vista costituzionale – i suoi provvedimenti di carattere penale contro i cittadini non erano soggetti al diritto d’appello al popolo (provocatio ad populum).
In tal senso, ricorda Livio nel suo Ab Urbe condita:«sine provocatione dictaturam esse», il che comportava una sorta di potere di vita e di morte (ius vitae ac necis) senza limiti su chiunque, tale che, come nota Cristofori nella Storia romana, rendeva la dittatura anche un utile strumento per il controllo della plebe.
5) Il dictator viene nominato nella stragrande maggioranza dei casi al fine di costituire un comando militare unificato in caso di guerra, ma anche per la repressione di una sommossa civile (tumultus); più raramente, come rileva Nicolet in Rome et la conquête du monde méditerranéen, per finalità di tipo elettorale (convocazione dei comizi), religiose o per una lectio Senatus (revisione della lista dei senatori) urgente.
La dittatura repubblicana, quale magistratura straordinaria adottata come rimedio estremo (ultimum auxilium) della cura rei publicae, tramonta via via nel corso del III secolo, tant’è che, a ragione, la storiografia pressoché unanime non considera vere e proprie dittature né quella di Fabio Massimo “Cunctator” del 217 a.C. (non nominato dal console, bensì eletto dai comizi centuriati e affiancato da un magister equitum non subordinatogli, ma che assunse pari rango al suo) né, a maggior ragione, quella dittatura rei publicae constituendae assunta da Silla nell’82-79 a.C. e quella di Cesare, dictator perpetuus nel 44 a.C. (le ultime due sono mere usurpazioni manu militari dei poteri assoluti, quindi cariche ottenute al di fuori e contro l’assetto repubblicano, e che, pertanto, della dittatura mantengono a mala pena il nome, come nota giustamente Nicosia nei Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma).
Una volta fissato tale quadro storico-politico della dittatura – uscito anche dal tornio definitorio della giurisprudenza romana di età imperiale, come testimoniato dall’opinione di Pomponio (II sec. d.C.) sulla dittatura, riportata nel Digesto –, essa si presenta a prima vista quale istituto costituzionale caratteristico di una lunga fase della storia della Repubblica, confinato entro certe frontiere cronologiche (fine VI-III sec. a.C.).
- Il ricordo del tramonto
Tuttavia, è necessario scendere più a fondo nella questione che sta alle spalle di questo quadro. Infatti, già da un punto di vista puramente storiografico, la dittatura non è affatto riducibile ai connotati della straordinarietà che abbiamo appena esposto. Anzi, il carattere straordinario della dittatura, si giustifica solo se questa viene pensata alla luce del rango e della funzione originaria e fondatrice che gioca per lo stesso processo di formazione della res publica dopo la violenta soppressione della monarchia ad opera dell’aristocrazia patrizia, cui segue il conflitto patrizio-plebeo che, dalla secessione della plebe sull’Aventino (494 a.C.), almeno fino alla promulgazione delle leges Liciniae-Sextiae (367 a.C.) e della lex Ortensia (287 a.C.), costituisce la fucina che conduce, attraverso il lungo periodo di tribunato militare consulari potestate (444-367 a. C.), alla comparsa del praetor maximus fino ai praetores-consules e, infine ai due consules supremi comandanti militari, distinti dal praetor urbanus quale sommo responsabile della iurisdictio, come mostrato da Arangio Ruiz nella sua classica Storia del diritto romano.
Secondo una solida linea interpretativa sostenuta nella storiografia romanistica, il dictator, chiamato perlopiù in origine magister populi, dopo la caduta del regnum (510 a.C.), sarebbe stato nient’altro che il modello paradigmatico della magistratura repubblicana. Infatti, posto che non pare possibile dar credito alla tradizione letteraria romana che presenta il consolato e tutte le istituzioni repubblicane nate belle e pronte, perfezionate in sommo grado già subito dopo l’abbattimento della monarchia, secondo il già citato Nicosia si può sostenere quanto segue:«(…) anche sotto il profilo linguistico il sostantivo (…) magistratus, derivante dal più concreto magister, si presenta come il portato di un processo di astrattizzazione e spersonalizzazione, mentre il prototipo, o meglio l’archetipo, della figura e della categoria astratta di magistratura sembra doversi individuare precisamente nel magister populi, che anche nel nome appare come la prima incarnazione concreta del capo repubblicano».
Ancorché tenendo conto e prendendo le mosse da questa accreditata ipotesi di storia costituzionale, l’analisi può spingersi alla ricerca di nessi ancora più originari. L’archetipo, prima incarnazione concreta del magistrato repubblicano, di cui possiede, come una sorta di concentrato istituzionale, tutti i caratteri fondamentali, diffonde il suo specifico charássein, il suo “imprimersi”, ossia la sua costante presenza stabilmente fissata nella coscienza storico-giuridica romana, nelle magistrature repubblicane che a partire dal magister populi traggono vita e che da essa, in quanto sorgente di energia politica, dal punto di vista ontologico-sociale, sono determinate.
Si può sostenere, allora, che l’essere sociale della res publica sia determinato dall’essenza del dictator in quanto in esso il Romano pervenne, tra la fine del VI e il V secolo a.C., alla coscienza storico-giuridica della rottura del precedente ordine costituito – il regnum – istituendo una dignitas la quale, per lungo tempo, lungi dall’essere una magistratura meramente “ordinaria” e prima di fissarsi nella fattispecie definita dalla prassi costituzionale della magistratura “straordinaria” per antonomasia, si presenta piuttosto come la rappresentazione della coscienza dell’annientamento eterno di ogni pretesa di un ordinamento giuridico-politico di permanere eternamente nel divenire storico. Anzi, la dittatura incarna, anche quando è ridotta a straordinario ultimum auxilium della res publica matura, la presenza di tale coscienza, che, una volta caduta nell’oblio storico, che si manifesta con il progressivo tramonto della dittatura repubblicana, cessa di rifornire di energia politica l’ordine repubblicano (II-I sec. a.C.). Nel magister populi si raccoglie l’essenza storica della res publica, poiché nella dittatura appare storicamente la coscienza stessa del tramonto del regnum, che non viene meramente annientato, ma viene conservato-in-quanto-nulla, ovvero rimembrato nella dittatura (e, da e attraverso di essa, in tutte le successive magistrature repubblicane) come testimonianza del processo di dissoluzione dell’essenza di ogni ordine costituito.
La dittatura repubblicana è il ricordo, l’anamnesi del regnum in quanto ne è la morte: si istanzia in essa la manifestazione storica del processo attraverso cui la coscienza concreta del Romano riconobbe se stessa in quanto res publica, ossia come negazione del regnum, il quale divenne quel negato che, sottoposto al riesercizio costante della negazione-violenza giuridica, si convertì in un positivo, ossia nel contenuto che, in virtù della sua negazione, generava energia politica per la sussistenza dell’ordinamento repubblicano. La dittatura come ricordo non ha alcun carattere psicologico, bensì esclusivamente quello ontologico-sociale della coscienza della generazione eterna della realtà giuridico-politica mediante la dialettica che si auto-produce nello stare (histemi, histáno) della congiunzione (˄), cioè l’a-relazione, come relazione di una non-relazione tra eternità dell’essente come essere dell’annientamento (definibile «Destino») ed eternità del nulla come annientamento dell’essere (definibile «destino»).
Questo rappresentarsi, quindi, questo auto-riconoscimento della scissione-unità di Destino e destino costituente il Soggetto o Intelligenza universale, è oggetto di quella che in altri lavori apparsi su questa rivista (cfr. La retta via della devianza, Per una metemsomatosi politica, Prossimità accidentale) ho chiamato metafisica dell’eccezione, il cui sapere non è altro se non l’oggetto di ciò che viene prima di – perché più che fondare, s-fonda – ogni possibile ontologia e ogni possibile storia, ossia la filosofia dell’essere accidentale o Symbebekós, che è l’apparire stesso, assolutamente immanente e, al contempo, trascendente, rispetto all’incontrovertibile riconoscersi e rappresentarsi reciproco di Destino e destino, in quanto contenuti positivi generati eternamente dall’assoluta negazione reciproca.
- La dialettica e il nome
Alla luce di questa dimensione del discorso, si rivela insufficiente il contenitore concettuale a cui Carl Schmitt riconduce l’esperienza storica della dittatura romana, che egli reputa l’exemplum costituzionale più limpido della fattispecie della dittatura commissaria, forgiata dal giurista tedesco nel saggio del 1921 intitolato La Dittatura.
Infatti, Schmitt traccia una summa divisio all’interno della categoria generale “dittatura”, tra 1) dittatura commissaria, cioè quella che malgrado tutti i poteri eccezionali si mantiene tuttavia essenzialmente nel quadro dell’ordinamento costituzionale esistente e nel quale il dittatore è incaricato in modo costituzionale di svolgere determinati incarichi finalizzati alla salvaguardia della costituzione stessa; 2) la dittatura sovrana, la quale serve allo scopo di produrre un ordinamento del tutto nuovo mediante la soppressione violenta (di solito, rivoluzionaria) dell’ordinamento previgente.
Ma, come abbiamo visto, la dittatura repubblicana romana non ha mero carattere commissario, non si riduce ad una fattispecie di mandato costituzionale per la salvaguardia della res publica, come di certo non è neanche riconducibile sic et simpliciter all’ipotesi della dittatura sovrana. Infatti, in quanto essa esprime, manifesta e istanzia l’origine stessa della res publica, essa è, in un certo senso, sia commissaria che sovrana, e, dunque, ad un tempo, né l’una né l’altra.
La dittatura romana può dirsi autenticamente origine, solo e soltanto perché rivela storicamente, in quanto immediatezza contingente, particolare, determinata, la dinamica oppositiva tra la contingente, particolare e determinata contraddizione che si dischiude nel passaggio dal regnum alla respublica in quanto luogo in cui traluce l’eterna contraddizione universale tra la posizione di un ordinamento storico in quanto già-stato all’atto stesso del suo attuarsi e della finalità storica, che sorge dall’interno del primo, quale ordine giuridico-politico potenziale non ancora attuato. L’origine esprime già-sempre quella che Hegel nella Scienza della Logica definisce come determinazione oppositiva, da intendersi come quella contraddizione particolare che si costiuisce come il luogo della realizzazione di una contraddizione universale.
Pertanto, la dicotomia schmittiana svela la propria insufficienza interpretativa nella comprensione filosofica – pur rimanendo corretta e pregevole, da un punto di vista gius-pubblicistico – della dittatura romana classica, perché rifiuta e, in fondo, misconosce tout court il sistema della contraddizione, ovvero la dialettica, che, se fosse stata utilizzata da Schmitt, gli avrebbe consentito di distinguere e articolare in una scissione-unità, come parte integrante di una teoria filosofica della dittatura, ciò che Badiou definì, in Teoria della contraddizione, la logique des places – concernente la struttura della contraddizione – e la logique des forces – relativa alla tendenza che mostra la struttura stessa come negazione di se stessa.
Se è vero che, in forza della sua stessa contingenza storica, la dittatura repubblicana è una forma politica che incarna la coscienza del contenuto speculativo che abbiamo prima succintamente esposto, attraverso la contraddizione particolare e determinata che sta alla base della dittatura stessa (ossia quella tra regnum e res publica), adesso bisogna mostrare come ciò si incardini nello stesso nome della dittatura, che non è una pura e semplice “creazione” linguistica convenzionale né, al contrario, aprioristica, di un termine, bensì la stessa rivelazione-apparizione storica, nella coscienza giuridica romana, del diritto stesso in quanto dicere ius.
«Dictatura» è la parola con cui il Romano nomina l’incarnazione politica del dicere stesso quale fondamento della res publica. La res publica realizza ciò che il regnum ostacolava: il dicere stesso, che, per il Romano, nella misura in cui si rivolge al fondamento della res publica, non può che consistere nella rivelazione-apparizione, come il mostrarsi dell’essenza del mondo attraverso il diritto, che viene instaurato dal dicere del dictator.
Benveniste, nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, delinea il nesso inscindibile che tiene saldate insieme la greca dike (“giustizia”), derivante dal verbo deiknumi (“mostrare”, “far apparire”) e il latino dico, da cui iudex, e tutti i composti dicere ius, multam dicere, diem dicere: tutte queste forme hanno in comune la radice *deik-. Il nesso che il linguista intravede tra i due sensi, prima facie non collimanti, di “dire” e “mostrare”, in cui si dividono le famiglie derivanti dalla radice *deik-, viene individuato nel fatto di mostrare con autorità di parola ciò che deve essere: dike e dicere indicano dunque l’auto-apparire in quanto tale dell’ordine eterno nel tempo, lo stare incontrovertibile dell’alétheia come disvelamento dell’essere nella dialettica destinale come sintesi che congiunge, nella scissione, l’eternità dell’essente come preannuncio, realizzazione e comprensione dell’essere dell’annientamento in a-relazione con l’annientamento dell’essere.
Il dicere ius instaurato politicamente dalla dittatura, indica la coscienza dell’essenza di questo rapporto raggiunta dal Romano nella res publica, che si fa ars boni et aequi, ossia, come insegna Severino in Destino della necessità, nient’altro che quella techne che si costituisce come predisposizione preliminare dei mezzi necessari per raggiungere lo scopo del dominio nell’ambito contingente della comunità politica. L’ars, intesa come tecnica del dominio fondata sulla verità dell’essente e sulla sua dialettica manifestante l’accadere stesso della sintesi destinale nell’essere accidentale (Symbebekós), è il luogo in cui si apre la dimensione storica come determinazione della e rimando alla verità come eterno s-fondamento di ogni ordine giuridico-politico esistente.
Nella dittatura, quale istituto instaurante il dicere come dicere ius, si manifesta la metafisica della volontà di potenza che, come scrive Nietzsche, fissa come eterno un rapporto di potenza momentaneo. In questa dinamica, nel cui alveo si dispiega la dittatura repubblicana quale punto di convergenza e di coimplicazione supremo tra imperium e ius in connessione alla verità intesa romanamente come rectitudo e iustitia, si impernia storicamente quanto Heidegger afferma nel Parmenide a proposito di tale questione:«Imperium è l’ordine, il comando. Nel medesimo ambito essenziale dell’imperiale, cioè di ciò che è retto dall’ordine (das Gebothafte) ed è conforme all’ordine (das Botmäßige), scaturisce il diritto romano, ius-iubeo, che significa «io comando». Il comando è il fondamento essenziale del potere, ed è per questo che in modo più adeguato e chiarificatore traduciamo imperium con Oberbefehl, «comando superiore». L’essere-sopra è proprio del potere, ed è possibile solo in virtù del costante rimanere-sopra nella modalità del costante sopraelevarsi. Quest’ultimo è l’actus autentico dell’azione imperiale».
Tuttavia, lungi dall’accettare la tesi heideggeriana che riduce la concezione romana sopra esposta ad una delle massime manifestazioni della dimenticanza o oblio dell’essere (Seinsvergessenheit) e dell’alienazione dell’essenza della svelatezza-alétheia-Unverborgenheit, mi sembra invece evidente come nella dittatura romana della res publica si palesi una forma di coscienza storica dell’essenza stessa della dialettica diritto-potere (ius-imperium); coscienza che lo stesso Heidegger intuisce quale cifra della romanitas, pur senza fare alcun riferimento all’istituzione dittatoriale.
Solo nella comprensione essenziale della dimensione della cura rei publicae appare il vincolo che contiene e congiunge nella medesima dialettica storia e verità.
Dove la storia è cura della verità. La verità, custode della storia.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Andrea Raciti Cura/Incuria Endoxa maggio 2023