LA RESPONSABILITÀ COME CURA PLANETARIA NELL’EPOCA DELLA TECNICA
PAOLO PICCOLELLA
Nel romanzo Il superstite di Carlo Cassola il protagonista è un cane, Lucky, che sopravvive ad un disastro nucleare che ha ucciso gli esseri umani. Tra questi è morto anche il suo padrone e anche il suo amico gatto con cui era solito giocare. Rimasto solo, Lucky, inconsapevole dell’accaduto e disorientato su cosa fare, cerca di sopravvivere in un mondo dominato dal silenzio e dall’assenza di vita. Lo scrittore italiano non è stato certo il solo a dare forma narrativa al peggior scenario possibile dell’apocalisse atomica. Già nell’immediato secondo dopoguerra anche la filosofia aveva tematizzato lo stesso pericolo estremo. Si pensi a come Günther Anders avesse ammonito il mondo dalla possibile catastrofe, soprattutto come testimone tanto della Shoah quanto dello sgancio delle bombe atomiche sul Giappone. In modo meno apocalittico, ma pur sempre pieno di inquietudine, anche Martin Heidegger e Arnold Gehlen misero in rilievo la dinamica ipertrofica della tecnica rispetto alla capacità sempre più ridotta nell’uomo di saperla utilizzare senza lasciarsene sopraffare. Sono numerosi nel XX secolo gli intellettuali che hanno approfondito la questione della tecnica e i suoi possibili esiti distruttivi da Russell a Arendt, da Jünger a Horkheimer, da Huxley a Orwell, da Foucault a Flusser, per nominarne solo alcuni. Pochi tra questi, però, hanno cercato non solo di sviluppare un’analisi della tecnica come “problema” ma hanno anche aperto vie di riflessione se non con la pretesa di risolvere la questione almeno con lo sforzo di affrontarlo in modo più propositivo. Tra questi ultimi vi è di certo il filosofo tedesco, poi naturalizzato statunitense, Hans Jonas. Per un’intera vita (che ha attraversato gran parte della parabola novecentesca, nato in Germania nel 1903 e morto a New York nel 1993) la sua indagine gli ha permesso di riflettere su moltissimi campi specifici collegati al tema più generale di una tecnologia ormai onnipervasiva: intelligenza artificiale, clonazione, organismi geneticamente modificati, fecondazione assistita e modifiche genetiche, armi atomiche, cambiamenti climatici, inquinamento della biosfera, alterazione degli equilibri ambientali fino al rischio dell’estinzione di tutte le forme di vita esistenti, compresa quella umana. Questi sono solo alcuni dei campi di possibilità aperti dalla recente tecnologia considerati da Jonas. Tali questioni prospettano all’umanità una terra ancora incognita quando non piena di rischi o di conseguenze nocive. La fase attuale dell’umanità e quella della storia della terra sono così strettamente legate l’una all’altra da aver indotto molti scienziati e studiosi ad utilizzare il termine “antropocene” per designare come una nuova era geologica quella iniziata da qualche decennio. Come ci invita a riflettere Jonas, il momento attuale, se da un lato evidenzia la più alta concentrazione di esseri umani sulla terra rispetto a qualsiasi altra epoca del passato, rischia, dall’altro, di mettere in questione l’esistenza stessa della vita, anche quella umana, sul nostro bel pianeta. Non bisogna essere profeti di sventura né indovini o maghi per rendersi conto dell’impatto sconvolgente che le nuove invenzioni tecniche possono avere sull’intera biosfera e sulla specie umana. Già diversi decenni fa, almeno a partire dagli anni Settanta del Novecento, il filosofo Hans Jonas aveva focalizzato la propria riflessione sulla necessità di costruire un’etica della responsabilità planetaria per una civiltà così intensamente tecnologizzata. L’allievo di Husserl e di Heidegger fu in grado di trasformare i concetti astratti della fenomenologia e della metafisica dei maestri in figure quanto mai attuali di una nuova etica della cura. Soltanto che, per rendere feconde quelle astrazioni in un mondo in profonda trasformazione, doveva ripensare la Sorge (cura) heideggeriana così come la coscienza husserliana in termini non esclusivamente umani dal lato di ciò che è oggetto della cura stessa. Se è inevitabile che il soggetto curante sia l’uomo, ciò non vale più dal lato dell’oggetto: non solo l’essere umano ma anche piante, animali, l’intera biosfera con le sue risorse indispensabili alla vita e alla prosecuzione di tutte le specie sul pianeta diventano oggetto di un rapporto di cura da parte di chi detiene la responsabilità della possibile distruzione mediante l’impatto del progresso tecnologico. Il primo aspetto di discontinuità dell’etica jonasiana rispetto a tutte le etiche del passato è il suo tentativo di essere un’etica non antropocentrica. Certo, dal lato del soggetto che agisce è inevitabile che sia sempre l’uomo colui che si prenda cura del mondo. Ma dal lato dell’oggetto della cura, Jonas propone un’etica non antropocentrica: anche piante, animali, paesaggi naturali, oceani e montagne, l’intera biosfera, meritano tutte le attenzioni e le azioni necessarie alla loro preservazione anche, ma non esclusivamente, nell’interesse dell’umanità stessa e della possibilità di una sua vita dignitosa in futuro. Un’etica della cura nella versione proposta da Hans Jonas deve rompere però decisamente con tutte le etiche della passata storia della filosofia. In primo luogo, non deve essere più un’etica che pone al centro il solo individuo nel “qui e ora” e nel presente; l’etica della responsabilità come cura della terra deve essere concepita in una dimensione planetaria, cioè deve considerare un soggetto collettivo, la moltitudine delle azioni degli uomini nella loro interconnessione. Essendo cambiata la natura dell’azione umana in base al più intenso intervento tecnologico in tutti i campi, deve cambiare anche la considerazione etica collegata a tali azioni. Per questo, come ci dice il filosofo tedesco-statunitense nel suo saggio più importante Il principio responsabilità (1979), occorre costruire un modello di etica che si preoccupi molto meno delle intenzioni in base alle quali ci comportiamo rispetto alle conseguenze delle nostre azioni. La nota distinzione tra etica dell’intenzione e etica della responsabilità non è un’invenzione jonasiana ma era stata già proposta da Max Weber. Soltanto che il sociologo tedesco l’aveva pensata soprattutto nella sfera politico-sociale. Ora Jonas la riprende dando alla dimensione del respondeo un’eco planetaria e non esclusivamente politica, bensì anche etica e ontologica. Jonas si rende conto della complessità dell’agire dell’uomo dato il carattere cumulativo delle nostre azioni altamente tecnologizzate e caratterizzate da una forte ripetitività. Accendiamo continuamente le nostre automobili, i nostri impianti di riscaldamento, i nostri condizionatori e molti altri strumenti di confort, di produzione o di trasporto non facendo attenzione al fatto che solo a lungo termine e in un tempo prolungato è percepibile o misurabile l’effetto inquinante o alterante di quello che facciamo. Anzi, siamo così abituati a un ritmo di vita sistematicamente legato ai mezzi tecnologici che non ce ne curiamo più. Gli effetti di tali azioni rimangono per lo più latenti o, qualora emergano dalle nostre previsioni scientifiche, preferiamo non soffermarci a riflettere sulle implicazioni delle nostre azioni quotidiane, perché troppo impegnativo sarebbe il livello dei cambiamenti sul nostro tenore di vita per poterne attenuare gli effetti. Il cambiamento dell’azione umana, si potrebbe dire andando anche oltre quella che è la riflessione jonasiana, è ormai così radicale che appare del tutto obsoleta la distinzione aristotelica tra “azione” nel senso dell’atto etico in sé e per sé e “produzione” di qualcosa di concreto attraverso la poietica. Aristotele aveva fondato su tale differenza tra i due tipi di atto umano la nota distinzione tra scienze pratiche (tra cui l’etica e la politica) e scienze poietiche (tra cui la poetica, la retorica e le tecniche in genere). Nell’epoca della tecnologia globale assistiamo certamente ad una ipertrofia della produzione di cose per mezzo dei mezzi tecnici e nel contempo ad una correlativa impotenza di fatto delle scienze pratiche rispetto alla loro capacità di dominare razionalmente il senso dell’azione etica dell’uomo. Detto in altri termini, per la quantità di questioni nuove che la tecnica sottopone alla nostra attenzione, necessitiamo di un’etica rinnovata che assuma la sfida per un compito così ampio e decisivo. Un’etica che sappia dominare la grande complessità delle sfide planetarie, ovvero un’etica della cura per l’intera biosfera.
Ora, una tale etica, ci invita a pensare il saggio di Jonas già dal 1979, oltre a non essere più una forma di cura di tipo esclusivamente antropocentrico, deve anche prendere le distanze da due atteggiamenti esistenziali e da due sentimenti contrastanti, entrambi presenti nel mondo intellettuale novecentesco di fronte ai problemi posti: la disperazione impotente e la speranza utopica illusoria. Il primo atteggiamento era per Jonas incarnato da Heidegger dal punto di vista filosofico. Per il maestro di Friburgo la tecnica appariva ormai una sorta di destino ineluttabile ed era fatica sprecata pensare di dover costruire una qualsiasi etica per dominare il processo di destinazione della tecnica stessa. Questo processo era ormai scritto nel destino metafisico dell’Occidente, per cui “soltanto un Dio ci può salvare”. Ma Heidegger era solo un insigne rappresentante filosofico di un atteggiamento emotivo ed esistenziale ben più ampio e diffuso, che Jonas aveva riscontrato in molti suoi coetanei nel periodo tra le due guerre mondiali e anche in seguito. La disperazione blocca l’azione, o forse sarebbe meglio dire un certo pessimismo esistenziale, perché in fondo la disperazione di chi si sentiva “sull’orlo dell’abisso” aveva pur sempre spinto Anders e Russell a battersi fino all’ultimo fondando un movimento internazionale a favore del disarmo atomico. Ma d’altro canto, anche l’atteggiamento opposto, fondato su una fiducia eccessivamente ottimistica sul potere della scienza-tecnologia, risulta dannosa e ne vanno prese le distanze se si vuole costruire un modello di cura responsabile per il mondo di domani. Jonas, a tal proposito, identifica con questo tipo di mentalità quello che definisce il “paradigma baconiano di utopia”, cioè l’idea che a partire dal filosofo inglese del Seicento tende a connotare gran parte della modernità occidentale: l’uomo deve dominare sulla natura e lo può e lo deve fare attraverso la scienza applicata e la prassi tecnologica. Lo deve fare a proprio esclusivo e pieno vantaggio, tanto da far dire a Francis Bacon che “la natura va violentata”. Ma a questo atteggiamento utopico Jonas accomuna anche il marxismo come massima espressione a lui contemporanea del “Prometeo scatenato” della tecnica moderna. Per marxismo Jonas intende ne Il principio responsabilità soprattutto la sua attuazione concreta nei sistemi socialisti del mondo sovietico che avrebbero idolatrato anche più dell’Occidente capitalista la capacità quasi redentrice della tecnologia salvo poi svuotare completamente il disegno emancipatore a favore dell’umanità. Una volta caduti i regimi sovietici nell’est, tuttavia, il discorso di Jonas non perde di significato e d’attualità perché la desertificazione della natura a causa dello sfruttamento delle risorse e dell’uomo sull’uomo rimane presente nelle dinamiche del mondo capitalista proprio su quelle stesse basi del paradigma baconiano.
Prese le distanze tanto dalla disperazione paralizzante quanto dalla speranza utopica e illusoria, la responsabilità come cura del pianeta e delle condizioni per una sua abitabilità per il futuro, Jonas propone due paradigmi esemplari che possono esprimere al meglio il senso profondo dell’attività umana della cura. Si tratta dell’esempio del genitore e di quello dell’uomo di Stato o politico. Jonas è convinto che i due esempi siano i più adatti a farci comprendere il rapporto di chi cura rispetto a chi è bisognoso di cura. Il genitore, soprattutto se lo si considera nei primi anni di vita del proprio figlio, incarna quei caratteri che l’etica della responsabilità per il futuro deve necessariamente mettere al centro dell’azione morale. Si tratta dell’asimmetria tra il soggetto responsabile, il genitore, e l’oggetto della responsabilità, il bambino. Tale asimmetria è un tratto assolutamente caratterizzante il rapporto di responsabilità tra chi cura e chi è oggetto della cura. Ulteriore elemento fondamentale risulta per Jonas la dimensione del futuro con la quale il genitore ha a che fare in tutte le azioni del presente: il genitore compie tutto quello che è in suo potere e dovere fare per il figlio nell’ottica della crescita e del divenire adulto del figlio stesso. Allo stesso modo, sarebbe eticamente responsabile che anche il politico, o come Jonas preferisce dire “l’uomo di Stato” (come a voler sottolineare il bene comune e non di parte cui dovrebbe guardare chi si occupa di politica) dovrebbe avere come oggetto della propria cura la dimensione del futuro delle generazioni che ancora non esistono. Se l’analogia istituita da Jonas tra modello genitoriale e modello politico ha fatto storcere il naso a qualche lettore che vi ha visto un tratto paternalistico nel sottofondo politico, va detto che tali esempi vanno presi per quello che sono, cioè analogie, e che servono più a rendere evidenti alcuni caratteri del rapporto di cura e di responsabilità che a proporre e giustificare un certo modello politico effettivo. L’altro tratto caratteristico di un rapporto di cura, ammette Jonas, sia del genitore sia del politico, risulta il fatto che in entrambi i casi si tratta di un rapporto totalizzante con l’oggetto della cura stessa. Un rapporto totalizzante significa che tanto al genitore quanto all’uomo di stato deve stare a cuore la salvaguardia della condizione fondamentale per l’adempiersi di ogni altra possibilità. La responsabilità, e con essa ogni forma di cura per l’altro, si configura come apertura originaria e fondativa a tutte le possibilità date all’uomo. Come Jonas argomenta “estremizzando si può dire che la possibilità che si dia responsabilità è la responsabilità preliminare”. Inoltre, si tratta di un rapporto di cura totalizzante per il proprio oggetto perché tanto il politico quanto il genitore devono provvedere tendenzialmente a tutti gli aspetti dell’oggetto della propria cura, tanto i bisogni corporei e materiali quanto gli aspetti culturali, educativi e, in senso lato, spirituali.
Per evitare che la terra diventi desolata come nel romanzo di Cassola e non accada che sia solo un ricordo la bellezza del creato di un tempo, occorre che si sviluppi il senso profondo di un’etica della cura e della responsabilità. Come bene illustra lo stesso Jonas, se non ci convince del tutto la cogenza di un dovere che abbiamo verso le generazioni future, perché non siamo direttamente responsabili delle generazioni future, siamo però “responsabili verso l’idea dell’uomo, che è tale da esigere la presenza delle sue incarnazioni nel mondo”. Le dimensioni della responsabilità sembrano allora allargarsi su una ideale linea del tempo orizzontale verso il futuro e le generazioni di quegli uomini e di quegli esseri viventi che ancora non vediamo ma anche, seguendo una sorta di linea ascensionale, verso l’immagine ideale dell’uomo la cui integrità è pur sempre nelle nostre mani.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Cura/Incuria Endoxa maggio 2023 Paolo Piccolella