GIUSTIZIA E CURA

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Il titolo di questo breve contributo accosta due concetti fondamentali per la riflessione filosofica, i quali sono stati messi in relazione fra loro in modi diversi. Non ho certamente la pretesa di dare una definizione esaustiva del concetto di giustizia e di quello di cura. Mi limiterò a offrire alcuni spunti di riflessione e alcune informazioni relative ai concetti di giustizia e cura e alla loro relazione. Quindi tenterò di mettere in luce come prospettiva della giustizia e prospettiva della cura, che spesso sono state contrapposte, possano essere considerate complementari laddove di giustizia si parli nell’orizzonte forgiato dal costituzionalismo (inter)nazionale, ovvero da quel progetto politico e giuridico al quale dobbiamo le costituzioni postbelliche, come quella italiana, e l’attuale sistema di tutela dei diritti umani a livello internazionale.

Per introdurre al modo in cui intendo riflettere sulla giustizia, vorrei richiamare le considerazioni di un importante filosofo del diritto del Novecento – Alf Ross – esponente della corrente del realismo giuridico scandinavo. Egli rifiuta il richiamo alla metafisica da parte della scienza giuridica e guarda al diritto come a un fenomeno sociale che può essere studiato attraverso un approccio empirico. In Diritto e giustizia (1958) Ross, riferendosi alle principali concezioni di giustizia che sono state forgiate dalle diverse culture etiche, politiche e giuridiche, sottolinea come si possano individuare due concezioni fondamentali della giustizia.

La prima, più antica, che potremmo definire “materiale”, secondo la quale quella di giustizia è una idea autoevidente, un principio universale al quale il diritto deve conformarsi. È questa l’idea del giusnaturalismo, dall’antichità ad oggi. Essa considera inoltre la giustizia come una virtù: diritto e morale si sovrappongono. Sul piano del contenuto della giustizia, questa tradizione di pensiero ha dato vita a diverse concezioni del giusto e dell’ingiusto.

In un secondo senso, l’idea di giustizia può essere considerata come il riferimento a un dato puramente formale, come una esigenza di regolarità o razionalità del sistema giuridico, per cui ogni decisione deve essere il risultato dell’applicazione di una norma generale. La giustizia è così perlopiù stata connessa all’idea di eguaglianza, la quale, tuttavia, laddove non sia intesa in senso assoluto, ovvero tale da disconoscere ogni differenza, è un concetto relativo che può essere definito secondo criteri diversi: a ciascuno secondo il merito; a ciascuno secondo il lavoro; a ciascuno secondo il bisogno; a ciascuno secondo la capacità; a ciascuno secondo il rango o la condizione. Si capisce dunque come tali criteri – e la nozione di giustizia che ad essi è collegata – possano essere in contrasto fra loro e dare vita a ordinamenti giuridici (e sociali) molto diversi. Proprio per questo motivo, nella riflessione politica, giuridica ed etica sono state sviluppate diverse teorie della giustizia (e diversi modi di concepire l’uguaglianza).

Per Ross non si può guardare alla giustizia in astratto, ma ci si deve interessare alle interpretazioni che ne sono state date nelle diverse culture politiche e giuridiche che informano la coscienza degli operatori del diritto e quella dei cittadini. Non posso qui farne un excursus, vorrei tuttavia mettere a fuoco come in epoca contemporanea si sia in molti casi assistito a una divaricazione fra il dibattito filosofico-politico e filosofico-giuridico sull’idea di giustizia, che ha avuto in molti casi un carattere normativo e fortemente astratto, e le concezioni della giustizia che hanno informato il diritto in azione (o diritto vivente).

Fra le teorie della giustizia di maggior successo dobbiamo certamente annoverare quella proposta da John Rawls in A Theory of Justice (1971) e successivamente rielaborata in diversi suoi scritti.  Questa teoria può essere considerata come il punto di riferimento intorno al quale è ruotato il dibattito etico, filosofico politico e filosofico-giuridico sull’idea di giustizia a partire dalla fine del Novecento. Rawls, com’è noto, ha proposto una concezione neocontrattualista della giustizia, volta a individuare una procedura che consenta di fissare i principi di giustizia e di stabilire regole di priorità tra essi. Egli ha immaginato una posizione originaria nella quale gli individui sono soggetti a un “velo di ignoranza” riguardo alla loro posizione sociale, identità, concezione del bene, condizione socio-economica, propensione al rischio. Ciò consentirebbe loro di accordarsi su principi equi. La giustizia ha in questo senso un carattere innanzitutto procedurale: procedure giuste portano a individuare principi giusti. Questa concezione della giustizia è stata sottoposta a numerose critiche che non posso qui ripercorrere. Quella di cui voglio occuparmi è la critica sviluppata dall’“etica della cura”, una critica che è in realtà molto più ampia, poiché ha riguardato l’individuazione di principi di giustizia astratti e universali, affidandosi a procedure formali.

Introduco dunque brevemente alcune riflessioni sulla prospettiva della cura.

Il concetto di “cura” ha radici molto antiche: dal mito di cura narrato da Igino nel II secolo, che fa di Cura, divinità femminile minore, colei che plasma l’uomo dalla terra, alla “cura di sé” studiata da Michel Foucault nella sua Storia della sessualità, intesa come cura del corpo e cura dell’anima, alla cura del prossimo e delle anime nella tradizione cristiana, fino alla cura dell’altro nella filosofia moderna e contemporanea, vi è un filone della cura che attraversa tutta la filosofia occidentale.

Oggi perlopiù il termine cura è evocato nella riflessione filosofica per indicare non solo la sollecitudine e la preoccupazione per l’altro/a, ma anche una serie di attività, di pratiche quotidiane che consentono la “riproduzione sociale” (e la riproduzione umana tout court). Queste attività, a lungo confinate nella sfera privata e delegate alle donne, prendono spesso anche il nome di “lavoro di cura”. Si tratta in primo luogo delle attività domestiche di cura dei figli, della pulizia, del benessere delle persone. Sono attività considerate spesso come routinarie e prive di valore, ma che sono legate a due dimensioni fondamentali della vita e della società: la condizione della interdipendenza fra gli esseri viventi e quella della loro vulnerabilità ontologica. Tali condizioni erano state occultate dalla tradizione filosofico-giuridica e filosofico-politica moderna occidentale, in particolare dal contrattualismo, che ha costruito il mito della sovranità statale sull’idea che i cittadini siano individui autonomi, in-dipendenti, oscurando la centralità della relazione e costruendo uno schema verticale per cui, una volta stipulato il pactum subjectionis, l’individuo è posto direttamente in rapporto con il sovrano. È il sovrano che ne tutela la vita, nella concezione hobbesiana, e, in quelle liberali, in particolare in Locke, anche la sfera privata, la libertà personale e la proprietà che lo definiscono come soggetto.

Le attività di cura e la sollecitudine stessa, che identificano invece un soggetto “inclinato” sull’altra/o, come ha messo in luce Adriana Cavarero, sono state rimosse dalla sfera pubblica, che è divenuta il luogo del contratto e della decisione sovrana. Ciò non significa che l’idea dell’interdipendenza e della vulnerabilità siano state cancellate – in fondo è su queste idee che si fonda tutta la tradizione cristiana – ma esse sono state tenute sullo sfondo, come dimensioni originarie della politica, che la forza dello Stato – e per certi versi anche la forza della Chiesa come istituzione – è in grado di contrastare. Esse sono in realtà state gestite concretamente dal lavoro di cura svolto dalle donne.

Non è dunque un caso che a riportare al centro del dibattito politico – e delle teorie della giustizia – la nozione di cura, allargandone via via il significato fino a ricomprendere quella che Elena Pulcini ha chiamato la “cura del mondo” (cura delle relazioni fra esseri umani, degli animali, dell’ambiente, della bellezza dei beni storico-artistici, della democrazia, etc.), siano state alcune pensatrici femministe, legate appunto all’“etica della cura”.

Solitamente si distingue fra prima e seconda scuola dell’etica della cura, ma è più corretto parlare di “etica della cura” e di “teoria politica della cura”. Quest’ultima ha preso le mosse dalla prima, superandone alcuni limiti. Fra le più influenti teoriche dell’etica della cura va annoverata Carol Gilligan, il cui saggio, In a different voice, pubblicato nel 1982, inaugurò un dibattito ricchissimo che ha attraversato diverse discipline. Gilligan si occupa di psicologia evolutiva. Il libro muove da una critica al suo maestro, Lawrence Kohlberg, che aveva collegato la maturità morale alla capacità di assumere una prospettiva imparziale e distaccata, secondo principi che potremmo definire di giustizia astratta. Gilligan mostra come le ricerche di Kohlberg siano viziate dal fatto che, nello studiare lo sviluppo psicologico, egli ha adottato un approccio neutro rispetto al genere. Così, quando, attraverso indagini empiriche, ha rilevato che le ragazze erano più attente alle relazioni interpersonali e più legate a un’idea di bontà come dedizione agli altri, rispetto ai coetanei maschi, Kohlberg è giunto alla conclusione che le donne non completerebbero il processo di maturazione psicologica. Soltanto gli uomini riuscirebbero a maturare pienamente, giungendo ad assumere un punto di vista distaccato, che li porterebbe a giudicare le azioni morali in base a principi universali e astratti.

Gilligan ritiene invece che la voce femminile dell’etica vada presa in considerazione come una voce non immatura, ma diversa, in grado di risolvere i dilemmi etici mettendo al centro il mantenimento delle relazioni interpersonali. Per essersi riferita a un modo di ragionare femminile, è stata accusata di essenzialismo, ma in diversi scritti ha chiarito come già in In a different voice non pensasse all’etica della cura come a un’etica naturalmente femminile, ma come al modo di porsi moralmente cui le donne erano state socializzate per secoli, anche in nome del loro destino di madri. A partire dalla storia delle donne – e dalla cultura e dalle competenze che esse hanno sviluppato – l’obiettivo di Gilligan è dunque proporre non un’etica femminile, ma un’etica femminista cui anche gli uomini possono essere socializzati. Questa analisi ha avuto un enorme successo anche perché è parsa in grado di andare oltre le discipline psicologiche per criticare appunto le fortunatissime etiche della giustizia liberali, in primo luogo quella di Rawls cui ho prima accennato. Il richiamo dell’etica della cura ha dunque riguardato la necessità di porre l’interrelazione e le emozioni al centro della politica e del diritto, criticando la divisione fra sfera pubblica e sfera privata, fra principi generali e condizioni situate.

La contrapposizione fra “etica della cura” ed etiche liberali della giustizia ha avuto una significativa valenza critica, ma, a mio avviso, ha anche depotenziato l’etica della cura, che è così stata sottovalutata sia nell’ambito degli studi politici che, ancor più, in ambito giuridico. Se ne sono accolti in parte – a dire il vero molto ridotta – gli spunti critici, ma non si è considerato che essa in realtà porta con sé un progetto di società, quasi una rivoluzione antropologica, che non può che avere una enorme importanza anche per la politica e per il diritto.

Più di recente, soprattutto grazie all’opera di Joan Tronto, che ha avuto una grande risonanza internazionale ed è stata recepita in ambiti disciplinari e professionali molto vari, ma anche grazie ai nuovi movimenti femministi, soprattutto a quelli originati in America Latina, il tema della cura è stato rilanciato come un tema eminentemente politico.

Si è così sviluppata la “teoria politica della cura”, che ha mostrato l’importanza che la cura riveste nelle nostre società, sia come approccio etico in grado di valorizzare le differenze e rispondere ai problemi della interdipendenza in modo più soddisfacente rispetto al neocontrattualismo e ad alcune etiche liberali, sia per la sua capacità di evidenziare come quello dell’equa distribuzione del lavoro di cura sia uno dei principali problemi di riconoscimento e redistribuzione – e dunque di giustizia – che abbiamo oggi a livello globale.

La cura è infatti l’architrave sulla quale si basano le società umane. Essa, come detto, è necessaria alla “riproduzione sociale”, ma pesa in modo del tutto sproporzionato sulle spalle delle donne ed è un’attività non pagata o sottopagata e svalutata socialmente. La teoria politica della cura non ne invoca tuttavia solo una più equa distribuzione per ragioni di eguaglianza (di genere ma anche fra le classi sociali, fra nord e sud del mondo, etc.). Sottolinea anche come le attività di cura, se equamente distribuite e non relegate alla sfera della famiglia patriarcale (o neopatriarcale), ci consentono di vivere bene (eu zen), di vivificare la democrazia e di realizzare l’inclusione sociale promessa negli Stati costituzionali di diritto.

Fatta questa introduzione, necessariamente sommaria rispetto alla vastità dell’argomento, vorrei ora mostrare come la prospettiva della cura, invece che essere contrapposta alla giustizia, com’è accaduto nel dibattito intorno alle etiche della giustizia liberali à la Rawls, possa essere considerata come complementare alla specifica concezione di giustizia che è stata proposta dal costituzionalismo (inter)nazionale, ossia da quel progetto politico e giuridico che si è sviluppato sia a livello nazionale che internazionale nella Seconda metà del Novecento, cui dobbiamo il consolidamento o la ricostruzione degli Stati di diritto dopo il trauma dei totalitarismi. Il costituzionalismo (inter)nazionale ha ispirato non solo le costituzioni postbelliche, ma anche il sistema internazionale dei diritti umani e il processo di decolonizzazione. Esso ha cioè plasmato la nostra cultura politica e giuridica. Ciò è molto importante, poiché, se, come detto, adottiamo una concezione realista dell’idea di giustizia, dobbiamo constatare che questa nozione dipende dalle diverse culture che ne hanno individuato il contenuto. Nelle democrazie costituzionali contemporanee, e particolarmente in Europa, si tratta appunto di un’idea che rimanda all’ordine simbolico forgiato dal costituzionalismo e da questo tradotto in norme positive.

La nozione di giustizia si collega dunque alla storia degli Stati costituzionali di diritto e alla centralità che in essi hanno assunto determinati principi giuridici, i quali di volta in volta sono precisati, ridefiniti, vivificati dalla interpretazione, secondo un processo diacronico che è continuamente in divenire.

È allora opportuno evidenziare come il costituzionalismo (inter)nazionale del dopoguerra abbia innovato rispetto alla tradizione del diritto liberale moderno, proprio perché ha posto al centro del sistema giuridico e politico non il soggetto astratto della tradizione illuminista – costruito in realtà sul modello del cittadino, maschio, bianco e proprietario – ma la persona, ovvero il soggetto situato, riconosciuto nelle diverse fasi della vita, con le differenze di cui è portatore e nelle diverse condizioni economiche e sociali in cui si trova. Questa dimensione del costituzionalismo è rafforzata dalle pratiche interpretative che operano costantemente una ulteriore contestualizzazione. Fra i principi cardine del costituzionalismo contemporaneo troviamo la dignità della persona, l’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale e la solidarietà.

Si tratta di principi che muovono dal riconoscimento della vulnerabilità umana e che guardano al soggetto come a una persona in relazione con gli altri. Individui e formazioni sociali sono inquadrati dal costituzionalismo proprio a partire dal nesso relazionale. L’idea stessa di solidarietà sociale si lega, come ha sottolineato Baldassare Pastore, a un’etica della responsabilità integrata attraverso l’idea di cura. Se dunque guardiamo al rapporto fra giustizia e cura nell’orizzonte forgiato dalla cultura giuridica del costituzionalismo (inter)nazionale che informa gli Stati nei quali viviamo, ci rendiamo conto che non solo cura e giustizia non si contrappongono, ma che sono due dimensioni complementari. Con una battuta potremmo dire che la giustizia ha bisogno di cura, poiché l’esercizio dei diritti, la democrazia e il pluralismo sono pratiche quotidiane che devono continuamente calarsi nella concretezza delle relazioni sociali. Allo stesso tempo, la cura ha bisogno di giustizia – e dunque anche della individuazione di principi astratti e universali che sono uno degli aspetti della dimensione giuridica – perché essa pone, come detto, problemi di equa distribuzione e reca con sé un’asimmetria, propria di molte relazioni di cura in cui chi offre cura non è sullo stesso piano di chi la riceve. Un’asimmetria che può dar luogo a conflitti o può risolversi in forme di paternalismo/maternalismo quando non di vera e propria violenza.

Perché le pratiche di cura prosperino, il sostegno del welfare è fondamentale. Vi è un nesso inscindibile fra cura e servizi sociali, così come fra Stato costituzionale di diritto e Stato sociale, poiché l’eguaglianza sostanziale fra i cittadini è il principio cardine dello Stato costituzionale di diritto e questa non può essere assicurata senza un forte supporto pubblico. La prospettiva della cura può allora essere sostenuta dal welfare, ma può a sua volta contribuire a rafforzarlo riformandolo, per eliminarne gli aspetti ancora fortemente patriarcali e disciplinari che abbiamo ereditato dal modello novecentesco. La proposta di alcune teoriche della cura è proprio quella di trasformare i nostri Stati sociali in veri e propri “Stati di cura”, nei quali siano valorizzate e sostenute le pratiche di cura e le comunità di cura che si sviluppano nella società, attraverso le diverse forme di mutualismo e cooperazione.

Per chiudere non posso che evidenziare come questa alleanza fra giustizia e cura, o meglio, fra teoria politica della cura e costituzionalismo (inter)nazionale, è resa ancora più urgente dall’attacco cui è oggi sottoposto il costituzionalismo (inter)nazionale da parte dell’alleanza (il più delle volte nascosta) fra progetto politico neoliberale e progetti sovranisti. Un’alleanza tesa a smantellare lo Stato sociale e a frammentare il tessuto sociale delle democrazie costituzionali, mentre le diseguaglianze dilagano. Il progetto politico neoliberale si basa sull’individualismo competitivo e predica la libera concorrenza, ma favorisce la concentrazione del potere economico e il consolidamento delle gerarchie sociali. Anche i progetti sovranisti si fondano sul consolidamento di diverse gerarchie (di genere, di appartenenza nazionale, etc.). Questa alleanza promuove una società dell’“incuria generalizzata” nella quale la solidarietà è definitivamente dissolta o reinterpretata nei termini ristretti di una solidarietà fra fratelli di sangue, un “legame ostile” che dà vita a quella che Achille Mbembe ha chiamato la “società dell’inimicizia”. Tale progetto – va ricordato – si salda con una concezione oligarchica del capitalismo e giunge sino a mettere a repentaglio la vita della nostra specie sulla Terra. Ad esso dobbiamo peraltro la crisi pandemica, con i suoi milioni di morti, dovuti anche al fatto che una parte significativa della popolazione mondiale non ha avuto un accesso tempestivo ai vaccini.

In questo quadro, difendere lo Stato costituzionale di diritto significa, come ha più volte sottolineato Luigi Ferrajoli, difendere il progetto politico dell’eguaglianza (sostanziale), ossia appunto una specifica concezione di giustizia. Mi pare che questa difesa possa essere rafforzata dall’adozione della prospettiva della cura che non solo invita a guardare all’effettività dei diritti e propone pratiche quotidiane di resistenza, ma evidenzia il ruolo delle “passioni” nella politica, invitando a sviluppare, come ha sostenuto nel suo ultimo libro Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale Elena Pulcini, una “paideia delle emozioni” che consenta di rafforzare empatia e solidarietà, aprendo la strada a una “democrazia della cura” (Tronto). Non è un progetto facile, né privo di conflittualità, ma credo che sia un progetto per il quale valga la pena impegnarsi.

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