LA CURA E L’UMANITÀ DELLE MACCHINE INTELLIGENTI
MAURIZIO BALISTRERI
Il pensiero che la cura possa essere somministrata da macchine sempre più intelligenti non è paradossale. La ragione più semplice è che esistono già macchine intelligenti in grado di assistere le persone in alcune attività quotidiane e che, in altri termini, si prendono cura di noi e dei nostri bisogni. Il livello di assistenza fornita dai robot della cura dipende dalle loro capacità e dagli scopi per cui vengono progettati: possono servire ad aiutare le persone anziane e disabili a svolgere attività come la pulizia della casa, la prenotazione della spesa o di un pasto o prendere un farmaco. Ma basta fare una ricerca su qualsiasi motore di ricerca per trovare anche immagini di robot della cura in grado di imboccare i pazienti, immergerli nella vasca per il bagno o portarli in giro per l’ospedale. Altri robot possono aiutare il personale medico nelle strutture sanitarie ad affrontare particolari dilemmi morali oppure a distribuire i farmaci ai pazienti e nella raccolta dei loro dati personali. Ci sono poi robot, come quelli usati nelle case di cure o negli ospedali, progettati semplicemente per fare compagnia alle persone fragili e intrattenerle con giochi o storielle divertenti. La maggior parte di loro avrà il più delle volte anche uno schermo (più o meno grande) che permette alle persone di collegarsi in qualsiasi momento con un familiare o con l’operatore sanitario.
Siamo soltanto all’inizio di una rivoluzione silenziosa che sta piano piano trasformando il volto della medicina da un’attività esclusivamente umana in una pratica sempre più affidata a macchine intelligenti. Tuttavia, non sono pochi a pensare che i robot non potranno mai sostituire completamente l’attività umana in un ambito così speciale e importante come quello della cura. Non si mette in discussione la possibilità che macchine sempre più intelligenti possano essere impiegate con successo in attività ripetitive e che non richiedono particolari capacità o preparazione. Quello che si afferma è che, a differenza di tante altre attività, la cura è una pratica esclusivamente umana e che di conseguenza non è possibile affidarla completamente ad una macchina. Chi difende questa posizione spesso pensa che le macchine non possono essere all’altezza delle cure complesse e dell’assistenza personalizzata di cui hanno bisogno le persone più fragili. Il problema, però, non è meramente tecnico e legato ad una scarsa ‘intelligenza’ delle macchine. Se la questione fosse meramente tecnica si potrebbe rispondere facilmente alla loro obiezione. Si potrebbe affermare, infatti, che il problema tecnico (relativo all’incapacità delle macchine di confrontarsi con cure complesse) esiste oggi, ma domani potrebbe essere facilmente superato, perché con lo sviluppo scientifico e tecnologico potremmo avere macchine sempre più intelligenti. Non soltanto intelligenti quanto gli esseri umani, ma anche molto più intelligenti, superintelligenti. Ad ogni modo, chi afferma che cura è un’attività esclusivamente umana non solleva un problema tecnico, ma difende una posizione metafisica, cioè, l’eccezionalità umana, ovvero sia l’idea che gli esseri umani abbiano un posto speciale nel mondo (o siano qualcosa di eccezionale), in quanto ci sono cose (attività, pratiche) che soltanto noi saremmo capaci di compiere.
Generalmente coloro che credono che la cura sia incompatibile con qualsiasi attività di macchine intelligenti siano convinti che affidare la cura alle macchine implichi sempre l’abbandono terapeutico. Nell’ambito della medicina, quando si parla di abbandono terapeutico si intende in genere la scarsa (o non) attenzione dell’operatore sanitario nei confronti del paziente e dei suoi bisogni. In questo caso, invece, quando si parla abbandono terapeutico si far riferimento alla preoccupazione che i pazienti (persone fragili e malate) possano essere affidati completamente alle macchine e non abbiano più, pertanto, la possibilità di confrontarsi e relazionarsi con gli esseri umani. Ad esempio, in un articolo di qualche anno fa Robert Sparrow affermava che si può immaginare che più i processi di meccanizzazione della medicina vanno avanti più assisteremo sempre più ad una sostituzione degli operatori sanitari con macchine intelligenti (ovvero sia, carebot). Alla fine, scriveva Sparrow, si potrebbe arrivare anche alla situazione in cui i residenti di una casa di cura passano gli ultimi anni della loro vita, presi in carico ed curati completamente dalla macchine, senza avere più l’opportunità di vedere, incontrare o parlare in presenza con un essere umano. Si può essere d’accordo con Sparrow che uno scenario di questo tipo sarebbe veramente terribile (cioè, non sarebbe minimamente possibile descriverlo come un buon esempio o ‘modello’ di cura) e che passare una vita (o una parte di essa) senza alcuna possibilità di costruire o coltivare relazioni umane importanti con altri esseri umani sarebbe incompatibile con una vita ‘buona’. Tuttavia, non è facile capire il suo ragionamento e perché l’impiego di macchine sempre più intelligenti nell’ambito della cura dovrebbe avere come risultato necessario l’abbandono terapeutico. Non soltanto non cadiamo in alcuna contraddizione logica se pensiamo a macchine sempre più intelligenti che lavorano in medicina – gomito a gomito – con gli operatori sanitari ‘umani’ ma possiamo avere ragioni pratiche per promuovere la ‘convivenza’ tra le macchine e gli operatori. Del resto, la collaborazione delle macchine intelligenti potrebbe permettere agli operatori sanitari di offrire un’assistenza medica e di cura più efficiente (come ad esempio una maggiore precisione e velocità nella diagnosi e nel trattamento dei pazienti, nonché una riduzione degli errori) e allo stesso tempo, la presenza degli operatori umani potrebbe assicurare un maggior controllo sulle operazioni quotidiane di queste macchine e sulla appropriatezza delle loro attività di cura. Inoltre, anche se ipotizzassimo che in futuro questo tipo di collaborazione possa diventare inutile perché le macchine superintelligenti potrebbero sostituire completamente gli operatori umani, questo non significherebbe necessariamente che i pazienti sarebbero condannati all’abbandono. Al contrario, esse potrebbero avere maggiori opportunità di coltivare relazioni sociali perché con l’aiuto delle macchine intelligenti esse potrebbero più facilmente superare o limitare quei problemi, come ad esempio quelli motori, visivi, uditivi o di comunicazione o/e dipendenza), che impediscono loro di essere autonomi o limitano le loro opportunità di socializzazione. In ogni caso, poi, anche se una persona è assistita e curata da una macchina intelligente i propri cari o familiari possono avere voglia o interesse a continuare a prendersi cura di lei: anzi, il fatto che la cura e l’assistenza siano somministrate, a tempo pieno, dalle macchine intelligenti potrebbe permettere loro di prestare più attenzione alle sue necessità relazionali e personali.
Qualcuno, però, potrebbe ancora obiettare che qui, a prescindere da quali siano le capacità delle macchine, nella loro cura manca comunque qualcosa di fondamentale (e non sostituibile), il ‘tocco’ umano, e che, per questo, sarebbe inappropriato chiamarla ‘cura’, perché sarebbe un’attività diversa. Cioè, si può anche ammettere senza difficoltà che macchine sempre più intelligenti potrebbero un giorno essere in grado di compiere le stesse azioni che noi, umani, siamo capaci, di compiere, ma questo non significa che una macchina sarebbe capace di compiere un’attività di ‘cura’. Tuttavia, è discutibile che la cura possa essere dispensata soltanto da una mano umano o che comunque la cura umana sia sempre, per sua ‘natura’, superiore a qualsiasi tipo di cura immaginabile. Io, ad esempio, non faccio fatica ad immaginare che, in particolari condizioni di fragilità o di bisogno, preferirei essere curato da una macchina intelligente piuttosto che da una persona. Il punto non è tanto che mi sentirei a disagio a dipendere completamente da un’altra persona e di aver bisogno di lei per qualsiasi tipo di attività che riguarda la cura e la fisiologia del corpo (certo, le macchine intelligenti potrebbero anche assicurarmi un maggior rispetto della mia ‘intimità’) quanto piuttosto che non mi piacerebbe imporre ad un’altra persona un tipo di attività, sicuramente impegnativa e faticosa, che potrebbe essere svolto facilmente da una macchina intelligente.
Non sono sicuro, poi, che in questo caso la cura mancherebbe necessariamente del ‘tocco’ umano. Secondo Steve Fuller è un errore pensare che l’appartenenza alla specie umana sia una questione meramente biologica e che sia pertanto riducibile al fatto di possedere un certo tipo di costituzione: a suo avviso chiunque superi il test di Turing dovrebbe essere considerato un essere umano. In altri termini, sarebbe soltanto un pregiudizio pensare che le macchine, anche se intelligenti, siano qualcosa di ontologicamente diverso dagli esseri umani e che, di conseguenza, l’attività di cura (la ‘cura’) possa essere dispensata solamente da chi appartiene alla nostra stessa specie. Non sono sicuro che Fuller abbia ragione, ma sono d’accordo con lui che dovremmo smettere di pensare che gli esseri umani siano speciali e ontologicamente superiori a qualsiasi altra entità) e avere il coraggio di imparare a guardare le cose da un’altra prospettiva, meno antropocentrica. Se impareremo a farlo, ci accorgeremo che le macchine intelligenti e la loro attività (inclusa quella di cura e di assistenza) possono essere molto più umane di quanto finora abbiamo pensato.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Cura/Incuria Endoxa maggio 2023 Maurizio Balistreri