PRENDERSI CURA DEL NEMICO
PIER MARRONE
Si dice che questi sono tempi di guerra e la cosa naturalmente risulta emotivamente vera per ciascuno di noi che vive in Europa e che non può ignorare i venti del conflitto che ha avuto inizio con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Ma è una constatazione sbagliata, perché ci sarebbe da chiedersi quali tempi non siano stati attraversati da conflitti. Sembra che la guerra e la violenza facciano semplicemente parte delle costituzione antropologica dell’essere umano e della sua natura gregaria. Forse nessuno di noi preso singolarmente è una persona vocata alla violenza e coloro che lo sono costituiscono una percentuale piuttosto piccola della popolazione generale. Queste persone spesso si trovano tra i cosiddetti individui borderline, la cui consistenza numerica è molto difficile da stimare, ma che alcuni studiosi collocano a una percentuale vicina al 6% della popolazione generale. Naturalmente ci sono delle questioni complesse che riguardano una precisa definizione di che cosa sia un disturbo borderline, ma penso che possiamo essere d’accordo che una persona che pianifica una strage in una scuola si candida senz’altro a far parte di questa comunità piuttosto ampia.
Se queste percentuali corrispondono a una descrizione abbastanza accurata della realtà, allora le misure di limitazione della circolazione delle armi sono misure razionali e da sostenere. Tuttavia, questi individui borderline, capaci di quelle che ci appaiono come esplosioni improvvise di violenza sono persone che sono in grado di manifestare la loro propensione alla violenza anche nei gesti individuali. Per questo ci appaiono diversi da noi, che la propensione alla violenza abbiamo appreso ad addomesticarla, anche attraverso le agenzie educative (la famiglia, la scuola, le associazioni sportive o professionali che frequentiamo nel corso della nostra vita), che contribuiscono opportunamente a sedare l’aggressività belluina che ognuno di noi più volte nel corso della propria vita vorrebbe, liberamente e senza il peso delle sanzioni possibili, esercitare. Questi individui, poi, non sono affatto individui irrazionali che hanno improvvisi raptus, ma come dimostrano numerose ricerche empiriche, tra le quali quelle pioneristiche del criminologo Lonnie Athens, pianificano i loro crimini e non sono affatto indifferenti alle conseguenze, soprattutto a quelle che potrebbero portarli in galera, conseguenze che intendono sempre evitare.
Cerchiamo allora di porre una questione maggiormente radicale: per quale motivo gli uomini hanno dei nemici, che sono degli altri uomini? Per quale motivo il nemico può assumere l’aspetto e incarnarsi in una figura generale e addrittura universale come accade durante le guerre, quando a essere nemici sono interi popoli? Una presenza così generalizzata della guerra non si riscontra in nessun altra specie animale e per questo tale domanda pare avere un’urgenza del tutto particolare e specifica, al punto che una risposta a tale quesito sembrerebbe investire la dimensione dell’umano in generale, costringendoci a dire qualcosa sulla nostra natura comune. È questa natura essenzialmente portata alla predazione, incapace di controllarsi sui lunghi periodi, sempre alla ricerca ansiosa di un nemico da combattere? A cosa serve un nemico? Perché a qualcosa deve pur servire, soprattutto se tu stai combattendo una guerra di conquista e stai aggredendo un qualche altro gruppo di esseri umani o addirittura un’intera nazione. Ma a che cosa precisamente? Perché non è affatto chiaro a che cosa serva consumare le proprie risorse, procurarsi nemici attuali o potenziali, procurare ferite e morti ai propri concittadini, che divengono vittime della violenza così come sono vittime della violenza coloro che abbiano la sfortuna di trovarsi nel centro o nelle immediate vicinanze di un conflitto. Non voglio certamente ricordare gli orrori della guerra, se non altro perché ci sono innumerevoli opere artistiche, dipinti, poemi, film, canzoni che la fanno in una maniera superba che io non sarei nemmeno in grado di immaginare.
La guerra non assolve solo questa funzione di procacciarsi delle risorse, che possono essere tanto i beni materiali di un’altra nazione, quanto semplicemente i suoi territori, a prescindere dalle risorse che vi possono essere. La guerra costruisce anche un’identità oppure conferma un’identità. Il patriottismo è in definitiva proprio questo: poter indicare che noi siamo noi a differenza di altri che possono essere solo che altri e che altri rimarranno per sempre, con varie sfumature certamente, ma che non consentiranno mai una loro identificazione con noi, a meno che la guerra non sia presentata come un guerra di liberazione o come la guerra che unificherà un’etnia, un’entità che si presume coesa dal punto di vista linguistico e culturale. Non è affatto difficile immaginare quante mitologie si possono spendere per consolidare queste credenze che spesso hanno esisti sanguinosi. Mitologie che assomigliano in molti aspetti importanti a dei culti religiosi con il riferimento a un passato mitico, che spesso si perde nella notte dei tempi, quando non erano certo disponibili documenti storici da studiare con l’obiettività dei ricercatori. Oppure, anche quando una qualche sorta di documento è disponibile, non è mai difficile trovare qualche ricercatore ansioso di darne un’interpretazione che confermi i mitologemi in cambio di qualche vantaggio di carriera.
Le identità sociali sono costruite, è perfino banale dirlo, ma uno dei momenti maggiormente intensi di questa costruzione è l’opposizione al nemico, colui il quale sta fuori dal nostro spazio immediato, ma che magari minaccia con la sua sola esistenza il nostro. È qui si incontra il cortocircuito con il momento religioso di aggregazione delle comunità. La comunità religiosa incontra il nemico nel capro espiatorio, che deve essere neutralizzato nel sacrificio, che è il probabile ricordo di un omicidio brutale poi ritualizzato nel racconto mitico. L’individuazione e l’uccisione del capro espiatorio sono momenti di aggregazione della comunità, che forse prima era un insieme privo di forme definite. Il rito sacrificale, così come la guerra, unisce i sentimenti, placa il pensiero critico della maggior parte di coloro che vi sono coinvolti direttamente o indirettamente, promette un futuro libero dal pericolo. Non è un caso che molte situazioni critiche siano esposte all’opinione pubblica nel linguaggio violento del conflitto, anche quando la violenza di un conflitto vero è invece assente: la guerra all’Aids, che ha permeato tutti gli anni Novanta del secolo passato, la guerra al Covid nell’epidemia appena trascorsa. E tutto questo con il corollario di accuse di tradimento, di scarsa prudenza, di incapacità di comprendere i sacrifici di chi è collocato oppure si colloca da sé medesimo nella prima linea di questa guerra immaginaria.
Si dice spesso che la violenza è irrazionale, ma alla sua pratica non si mancano mai di fornire delle ragioni dettagliate, anche quando la violenza non si configura come atto legittimo di guerra, bensì come reato. Nei nostri ordinamenti è presente l’istituto giuridico della momentanea incapacità di compredere e volere, sulla base del quale si stabiliscono attenuanti alla pena afflittiva che trovano la loro giustificazione in questa sorta di raptus folle che rende il criminale meno imputabile, ossia meno criminale. Ma anche se la violenza, individuando un nemico oppure un gruppo che sia nemico, ha sempre delle ragioni da esibire, che mescolano e esaltano molteplici ingredienti di autovittimismo, può dimenticarsene facilmente e sostituirle con altre altrettanto potenti, se il nemico contingente vi si sottrae. Rimane sempre la risorsa, nel caso della violenza politica, di individuare un nemico interno, una quinta colonna, un tradimento, che ha radici ancestrali nella malvagità stessa della colpa che il nemico sempre rappresenta. Per questo le ragioni della violenza non dovrebbero mai essere prese troppo sul serio, perché sono sempre fungibili a scopi diversi e perché sono sempre sostituibili con nuove e altrettanto crudelmente persuasive ragioni per chi è dentro al meccanismo della violenza, ossia potenzialmente per ciascuno di noi.
Questa violenza è propria solo del genere umano? Nelle sue articolazioni più complesse sembrerebbe che si debba dire di sì, ma nelle sua stratificazioni più ancestrali con ogni probabilità dobbiamo dare una risposta negativa, se è corretta l’osservazione di Konrad Lorenz ne Il cosiddetto male, che descrive un pesce che, privato dell’aggressività per il controllo del territorio da rivolgere verso i propri simili maschi, indirizza allora la propria violenza verso la sua famiglia distruggendola. Forse la violenza indirizzata verso vittime animali impedisce che venga rivolta verso altri esseri umani. Joseph de Maistre nel suo Eclaircissement sur les sacrifices acutamente nota che che potrebbe esserci sempre qualcosa di umano nella vittima animale (lo sguardo implorante, le grida, il soccombere rassegnato della vittima alla morte?), soprattutto quando è quella più domestica, quella più utile e prossima alla nostra vita quotidiana.
Il sacrificio è stato spesso definito come un atto di mediazione tra l’uomo e la trascendenza del dio (che pure non deve essere del tutto trascendente, ossia al di fuori della nostra esperienza, per essere sensibile al sacrificio). La vittima sacrificale placa la violenza della sua collera, ma la collera del dio chi l’ha davvero vista? Quello che gli uomini hanno sempre sperimentato è la propria collera e la propria capacità distruttiva nelle innumerevoli forme che la violenza può assumere. Viene allora da chiedersi a che cosa serva davvero questo sacrifico, un tempo sacrificio umano e poi animale e poi metaforico, se non a placare la nostra violenza. In che modo? Rinsaldando nel rito, nella ripetizione, nell’esaltazione dell’unione mistica dei fedeli (un’esperienza che a molti di noi è oramai totalmente estranea) l’identità di un gruppo nella fede, nella polis, nella nazione.
Quando l’Unione Sovietica è invasa dagli eserciti del Reich millenario nazista e tedesco, Stalin si appella alla madrepatria e fa riaprire le chiese ortodosse. Non chiede la sollevazione del proletariato internazionale, ma si rivolge a qualcosa di ancestrale. Infatti, quella che noi chiamiamo seconda guerra mondiale in Russia è conosciuta come Grande guerra patriottica. La patria è infatti l’idea dell’unione mistica dei morti e dei viventi, celebrata in tutti i pessimi inni nazionali, a cominciare dal nostro; “siam pronti alla morte” non significa che da questa comunità mistica si esce con la morte, ma, anzi, che con la morte ottenuta attraverso il proprio sacrificio vi si entra pienamente. Vi immaginate un appello analogo che faccia riferimento al proletariato internazionale? Probabilmente solo dove il socialismo e il comunismo si sono intrecciati con ideologie nazionaliste, come è accaduto in vari paesi e in più riprese nell’America Latina.
Il nemico è l’antagonista che può assumere gli aspetti disumanizzanti dell’Avversario rimanendo anche troppo umano, come è descritto nella seconda lettera ai Tessalonicesi, è colui che celebra l’apostasia e che in primo luogo non deve essere ascoltato, ma poiché i suoi poteri seduttivi sono forti, alla fine deve essere distrutto. In ogni guerra si trova qualcosa del genere: la trasformazione del nemico in qualcosa di radicalmente altro. Nella guerra che insanguina ora l’Europa e che continuerà a farlo ancora per chissà quanto tempo, con tutti gli strascichi di odio che resteranno come un tossico residuo ancora per molto tempo a venire, quando sopraggiungerà una qualche forma di pace, ci sono tutti gli elementi di questa ritualità sciagurata. L’idea della purificazione della popolazione ucraina da parte del fratello maggiore russo, la negazione della capacità di essere umani dei propri avversari, perché vocati alla missione di distruggere le popolazioni russofone con il costante richiamo della propaganda russa alla denazificazione dell’Ucraina, infine l’idea dell’evangelizzazione della popolazione ucraina oramai corrotta da anni di propaganda nazista, che per poter rientrare nell’alveo russo, che è l’unico che dà senso alla sua esistenza, avrà bisogno di molti decenni di rieducazione.
Clausewitz notava acutamente che nelle guerre l’aggressore vuole la pace, l’aggredito vuole la guerra. I crimini che si perpetuano in guerra hanno anche la funzione decisiva di forgiare un sentimento di unità, che nelle religioni arcaiche è ben epitomatizzato dal sacrificio al centro dei riti decisivi per la comunità. È quanto nelle sue ricerche René Girard ha chiamato violenza mimetica, perché la violenza innesca un richiamo che si propaga come un’onda negli esseri gregari come noi siamo. La violenza di gruppo è, lo si sa, la più pericolosa perché è molto più difficile da spegnere di quella individuale. Senza pensare alla guerra, si pensi alla violenza delle tifoserie di calcio, che si scatenano a partire dal simbolismo aggregativo di uno stemma e di una maglia. Si tratta di un fenomeno del tutto incompresibile senza la nostra propensione al gregarismo e all’imitazione. Del resto, il fenomeno del tifo sportivo è stato paragonato tanto alla guerra quanto alla religione, dimostrando la correttezza dell’intuizione di Girard. Ma se sono molti gli indizi che mostrano la persuasività della teoria mimetica della violenza, del suo incanalarsi nel sacrifico religioso dove il capro espiatorio è addirittura divinizzato per impedire la disgregazione della comunità attraverso il sacrificio vicario di un individuo, cosa ha impedito al nostro mondo umano di dissolversi? Cosa gli impedisce di dissolversi quando questa dissoluzione è finalmente da quasi ottanta anni alla portata di mano grazie alle bombe nucleari? Cosa impedisce a una società di dissolversi in un bagno di sangue costante?
L’intuizione di Girard è felice per quanto riguarda le società arcaiche, ma non è altrettanto solida per quanto riguarda le moderne istituzioni. Del resto, Girard deve continuamente evocare una violenza che non solo è costante nel mondo umano, ma che non fa altro che accrescersi e che queste affermazioni si presentino senza l’ausilio di un solo numero a documentare la sua tesi, induce a più di qualche sospetto. Numerose ricerche mostrano invece che da decenni la violenza è in costante diminuzione nel mondo, nonostante il numero scellerato di conflitti ancora in corso. Questo fatto incontestabile merita certamente più della riflessione che posso offrirne qui, la quale deve, tuttavia, partire da un dato: la violenza è maggiormente controllata dove c’è tendenzialmente un solo attore legittimamente delegato al suo esercizio monopolitistico. Questo attore lo chiamiamo Stato, ma potremmo anche chiamarlo agenzia di protezione dominante in un determinato territorio, dove batte moneta, legifera, ha un suo esercito. Ovviamente ci sono spesso dei contendenti dello Stato, ad esempio le organizzazioni criminali, ma l’esistenza di un solo attore legittimato all’esercizio della violenza può contribuire potentemente a spersonalizzare la violenza e a spoliticizzarla, anzi: ne è una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Un’altra condizione è l’esistenza di una solida burocrazia, che tratta i cittadini in maniera eguale, senza badare al loro nome proprio. Se ci facciamo caso, i paesi che hanno i più bassi indici di violenza sono quelli che rispondono a queste due condizioni, anche se altre altrettanto importanti se ne possono aggiungere. René Girard grazie ai suoi studi sulle religiosità arcaiche (ma che non per questo non mettono in evidenza un meccanismo universale nella violenza mimetica e gregaria) si convertì al cattolicesimo, perché interpretò il sacrificio del Cristo come la messa in luce definitiva di un messaggio universale e di un farmaco contro la violenza mimetica, farmaco e messaggio che altro non sono che la proclamazione che tutte le vittime sono innocenti. Quindi, secondo questa interpretazione del cristianesimo esiste una solo modalità di prendersi cura del nemico, ossia di vederlo come vittima. Vedere tutti gli uomini come vittime potenziali è la promessa della fine della violenza, perché rende insensata la rappresaglia. Questa idea di Girard è tanto potente quanto inattuale, come tutte le escatologie religiose. Nel frattempo l’aggredito non può che volere difendersi, non può che volere, come chiosava Clausewitz volere la guerra, mentre l’aggressore non vuole la pace dell’amicizia e della fine della contesa, ma la pace come distruzione e assimilazione.
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