ETICA MINIMA DELLA STATUA ATLETICA
MONICA VISINTIN
Cosa diventa un uomo quando gli fanno una statua? Molte cose, verrebbe da dire: sempre che ricevere l’omaggio di un’effigie in 3 D possa esser considerato qualcosa di diverso da un modo infallibile per diventare oggetto di iella. Passare dalla carne ad un doppio di metallo, pietra o altra materia più o meno nobile non è sicuramente l’unico modo per lasciare di sé un ricordo indelebile: il nostro è mondo che ha fatto dell’onnipresenza dell’immagine una sua ragion d’essere e non occorre certo una statua per ricordare agli altri l’importanza di alcuni personaggi pubblici nella vita degli altri, visto che si tratta di un medium del tutto superato ed esteticamente discutibile – soprattutto quando ambisce a dare un’immagine realistica del personaggio che rappresenta.
L’ipotesi da prendere in considerazione è che in una realtà sovraccarica d’immagini come la nostra dare una scultura di un uomo o di una donna importanti non è un modo per rappresentare qualcuno, bensì per mettere in atto delle pratiche. A chi spetta diventare una statua? La risposta numero uno è quella che si dà l’umanità dai suoi albori culturali: a chi per diverse ragioni non sta con i vivi, o perché è morto (lo mostrano benissimo le aree monumentali dei nostri cimiteri) o perché è stato autore di imprese diversamente eccezionali e allora scatta il bisogno di stabilire un contatto permanente o facilmente rinnovabile (la visita a un’esposizione, un museo, una piazza, un giardino o una Hall of Fame) fatto di atti di devozione o comunque dei riti che, nella maggior parte dei casi, si pensa abbiano il potere di far condividere qualcosa delle virtù etiche di chi è stato ridotto a simulacro. Questa proprietà è qualcosa che hanno in comune le immagini dei Dodici Cesari, quelle dei garibaldini illustri effigiati in busto nella bella promenade sul Gianicolo a Roma, le agghiaccianti sagome degli americani celebri nella National Statuary Hall del Campidoglio a Washington come le centinaia di statue di Lenin abbattute in Ucraina appena qualche anno fa.
Ogni civiltà ha i suoi eroi e quindi i suoi signa (bella parola che in latino indica non solo i segni, ma anche la loro materializzazione nelle statue). Nella realtà d’oggi, in cui la riproduzione industriale e virtuale di beni e immagini è in teoria illimitata, la riproduzione in statua è andata a coprire quello che potremmo chiamare lo stretto fabbisogno celebrativo e rituale abbandonando, nella stragrande maggioranza dei casi, ogni velleità artistica. Paradossalmente, la velocità con cui il mondo d’oggi divora i miti ha fatto sì che una cospicua parte dei soggetti scultorei restasse quella del passato: ancora oggi, una parte forse preponderante di questa pratica plastico-educativa rappresenta uomini del mondo dello sport.
Avete letto bene: non atlet*, ma uomini nel senso di maschi adulti, perché in questo settore la rappresentazione del corpo atletico femminile resta un tabù. Troppa definizione, o in certi casi troppo poca: in una prospettiva sessuale, naturalmente, perché una donna atleta si appropria, fatalmente ed indebitamente, del paradigma plastico maschile numero uno, i muscoli. Inoltre, la tradizione plastica dei soggetti femminili tradizionalmente è incentrata sul potere seduttivo del corpo: il che rimanda all’individuazione, alla competizione per l’accoppiamento, a ciò che porta prima della riproduzione a entrare in conflitto e a separarsi dagli altri, insomma al momento meno politico della vita di un cittadino – ed è per questo che, a meno che si tratti di un’allegoria di qualche virtù civile, il corpo femminile non è fatto per essere esposto in luoghi pubblici. In questo senso costituisce un’assoluta rarità la statua dedicata a Nadia Comaneci, prima ginnasta ad ottenere 10 per una sua prestazione nella ginnastica artistica. Forse per ragioni tecniche la scultura non la ritrae all’attrezzo che le valse l’entrata nella storia degli sport femminili (le parallele asimmetriche), bensì alla trave, attrezzo che forse più di ogni altro esalta la precaria condizione femminile nel dominio della prestazione atletica.
Ma con il maschio nudo (o seminudo, come sono costretti ad esserlo gli atleti) è tutto più tranquillo perché nella tradizione di quasi tutte le società il corpo maschile appartiene allo Stato, in barba a tutte le idee di eccellenza o di definizione di sé che il maschio può coltivare nella sua sempre fertile immaginazione. È un corpo che serve a lavorare, a dar da mangiare o a combattere, o a mostrare una sintesi di tutto questo nella forma altamente simbolica rappresentata dal gesto atletico: capirete che in questa prospettiva del fisico maschile si desessualizza tutto, persino l’impertinente membro maschile di Cristiano Ronaldo, rappresentato con irrituale turgore nella castigatissima statua dell’attaccante della squadra campione d’Europa nella sua città natale di Funchal.
Già nella Grecia antica statua e atleta erano un binomio ricorrente, se non addirittura quello prediletto nelle rappresentazioni plastiche. Un po’ perché il diritto all’immagine non era per tutti, e nei tempi più antichi dagli dei e agli eroi poteva arrivare al massimo agli atleti vincitori delle competizioni sacre: tant’è che quando la città di Atene si trovò a dover celebrare in due giovanotti dell’aristocrazia ostili al tiranno Ippia un nuovo tipo di eroe, il tirannicida, non trovò soluzione migliore che rappresentarli desabilliès, proprio come si faceva con gli atleti. Inoltre, la rappresentazione del corpo dell’atleta permetteva di progredire nello studio dell’anatomia, diventando così uno straordinario laboratorio di ricerca e applicazione delle conoscenze sul corpo umano.
Tante sono le testimonianze, non solo materiali, dell’assoluta indissolubilità di questo binomio: forse la più eloquente e involontariamente comica è quella che lega la vita di un grande campione dell’era arcaica, Teagene (o Teogene) di Taso ad una vera dipendenza dalle statue, prima della fama e dopo la morte. Vincitore di mille e quattrocento corone nelle gare più diverse (non solo il pugilato e il pancrazio, ma anche la corsa sfidando la memoria del piè veloce Achille nientemeno che nella sua città natale Ftia), Teagene aveva fornito i primi indizi del suo talento di campione staccando una statua dalla base in una pubblica piazza e portandola a casa sua all’età di nove anni; ripreso, com’era prevedibile, per il suo atto sacrilego, un anziano di Taso aveva proposto di commutare la pena di morte con la condanna a riportare con le sue forze la statua alla sua collocazione originaria: cosa che il piccolo figlio di dio (θεοῦ γένος) aveva fatto senza il minimo sforzo, facendo capire d’essere destinato a grandi imprese. La sua straordinaria carriera dovette accendere più di qualche invidia, se è vero che una volta morto un suo concittadino andava ogni notte a fustigare la sua statua: ma una volta una frustata troppo energica fece traballare a statua che si abbatté sul suo torturatore, uccidendolo. I figli del nemico di Teagene andarono su tutte le furie, al punto da chiedere la condanna a morte della statua: cosa che gli abitanti di Taso concessero applicando le severissime leggi di Dracone, inflessibili anche con i simulacri assassini, e gettando a mare la statua. La storia raccontata dal dotto periegeta Pausania continua ricordando che pochi atti sono più sacrileghi dell’offesa ad un atleta e cioè ad un eroe della città, anche quando vengono perpetrati a danno della sua immagine: e così dopo il kataponitismòs (in greco “affogamento”, da κατὰ “in basso, in giù” e πόντος, “mare”) della statua di Teagene su Taso si abbatté una spaventosa carestia, che fu placata solo dal suo ripescaggio ordinato dall’oracolo di Delfi. Pentiti del pericoloso accesso d’ira collettiva nei confronti del loro illustre concittadino, gli abitanti di Taso decisero di tributare solenni sacrifici periodici alla sua statua, di cui venivano vantate anche le straordinarie virtù curative. Chissà se degli straordinari poteri delle statue atletiche sono stati avvertiti i ministri del culto di Lionel Messi, accusati recentemente di atti di vandalismo e vilipendio ai danni della famosa statua di Cristiano Ronaldo .
Qual è la funzione etica delle statue dedicate a grandi atleti? Grosso modo ricordare che tutta la vita è atletica, ovvero consacrazione agli athla (ἄθλα), le imprese, gli sforzi i conflitti che comportano un riconoscimento da parte degli altri, della comunità (ἄθλον / athlon – che al singolare significa premio). Per conto suo, la statua ricorda che nella prestazione l’importante è il riconoscimento degli altri e la produzione di valori simbolici per la comunità, non la sfida con se stessi: checché ne pensasse il barone De Coubertin, questa è piuttosto la meta dello sportsman, non dell’atleta.
Sembra banale e scontato, ma non lo è: se anche la statua dello sportivo fosse destinata alla celebrazione del complesso delle virtù individuali e del carattere (ἦθος) dell’atleta, la rappresentazione si limiterebbe alla fisionomica del volto (e invece di busti dedicati agli sportivi ce ne sono pochissimi, come quelli di Pelé, molto attivo anche a livello politico, o di Michael Phelps, più noto al pubblico per quel che è emerso dal pelo dell’acqua, in effetti). E invece dell’atleta viene esaltato l’ ἔθος, il comportamento specifico: nella statua dell’atleta la fisionomia ha una superficiale funzione mnemonica e quello che viene generalmente rappresentato è la sua associazione al gesto atletico e premiato. E così non mancano le raggelanti imitazioni del tiro da sotto canestro di Michael Jordan e Magic Johnson, dell’arrivo al traguardo di Jesse Owens, della palla prodigiosamente stoppata da Zagallo, della rovesciata di Pelè o della volata di Marco Pantani, requiescat in pace. L’immobilità vagamente narciseggiante del modello in posa appartiene solo ai grandi registi dello sport, del gossip e del mercato: come il già citato Cristiano Ronaldo o David Beckham, eternato a New York con un semicolosso metallico in aperta competizione con Cristiano Ronaldo per vistosità degli attributi, più evocatori della sua attività di stilista e testimonial di una linea di lingerie per H&M che della sua carriera di attaccante.
Sfuggire all’imperativo etico che impone alla statua dell’atleta di indicare il giusto modo di comportarsi con gli altri non è da tutti. Guardano immobili il sole di un Avvenire che non li dimenticherà coloro che hanno banchettato già in vita alla mensa degli dei: come Diego Armando Maradona, l’Übermensch del quale sarebbe ridondante ricordare le multiformi prodezze, calcistiche e non. I suoi primi piani pensosi e le reliquie conservate in un vero e proprio tempio a lui dedicato presso il Bar di piazzetta Nilo a Napoli ricordano a fedeli e passeggeri che eguali non si nasce, e che solo agli atleti tocca una parte della fama degli dèi.
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