GO TO THE MIRROR! (DINAMICHE PSICOLOGICHE E CINEMATOGRAFICHE TRA VISIBILE E INVISIBILE)

MASSIMILIANO SPANU

14. Tommy - Smash the mirror

Visibilità e invisibilità giocano una partita assai complessa e strutturata nelle dinamiche della testualità filmica, disponendosi – a una prima analisi, almeno – come categorie e polarità opposte dell’immagine.

I termini della discussione – tutta interna alla quaestio, all’indagine inerente ciò che è mostrato e ciò che è fruito dallo spettatore, e ben adeguata al più recente dibattito sullo “sguardo” (cosa s’intenda per sguardo del cinema, dove e come si costruisca e venga esperito) – possono essere sommariamente declinati e organizzati su assialità concettuali tipiche: sono termini che possiamo immaginare, in rapporti di reciproca contrarietà, contraddittorietà e complementarietà.

  1. L’opposizione tra “visibile” e “invisibile”, al cinema, è, o almeno sembra particolarmente centrale: ciò che è “visibile” e ciò che è “invisibile” modulano un rapporto dialogico letteralmente costitutivo, essenziale all’immagine cinematografica.

Si tratterà qui, allora, d’una descrizione analitica basilare eppure appena abbozzata, visto lo spazio relativo a disposizione. Ricognizione che tuttavia si soffermerà su casi abbastanza palesi e rintracciabili, tra l’in campo e il fuoricampo, cui certamente qualsiasi spettatore cinematografico o televisivo contemporaneo è avvezzo.

L’atto tecnico della resa visibile d’un qualsivoglia fatto, d’un “frammento di realtà bruta” (come scriveva André Bazin) è basato, in primis, sulla scelta, su un’opzione dei contenuti e delle modalità della sua rappresentazione: quelle d’una porzione di mondo (di cui si voglia fornire simulacralmente il riflesso, la traccia o la riproduzione) che si deve, o meglio che si vuole in quadro per farne immagine.

È scelta e selezione, questa, che si colloca su vari livelli, ma che inizialmente si fa atto tecnico funzionale alla resa cinematografica, visibile, d’una porzione o d’un simulacro di realtà nella sua dimensione spazio-temporale concreta e, soprattutto, d’un universo narrativo, più o meno realistico, più o meno finzionale. Il quale, anch’esso, mira implicitamente sia alla propria credibilità, ad una qualche coerenza e realisticità (proprio perché universo diegetico che abbisogna della suspension of disbelief nel proprio fruitore-spettatore) sia all’esaltazione della propria caratura, talvolta della propria codificata marcatura meravigliosa, espressa nei termini della propria illusoria o simbolica mimeticità, dell’inedito o del sorprendente mediato però ad una qualche riconoscibilità quotidiana, destinato alla fruizione immersiva e rassicurante della sala, funzionale di volta in volta al racconto della commozione sentimentale, della paura, e consona al thrilling, al musical, al melodramma, al documentario, al drammatico o al perturbante, in una prima traslitterazione della realtà ai linguaggi e codici dei cosiddetti generi cinematografici.

Una finzione, dunque, costretta a ovvie (il)limitazioni nelle modalità tecniche in auge, ad assicurare al suo spettatore uno spettacolo unico, il più possibile ipnotizzante.

Si tratterebbe, quindi, d’un’immagine mediata tra un dispositivo estetico-sociale, e una psiche spettatoriale che nelle sue immagini si proietti e si rispecchi, che con loro interagisca definendone il, o almeno un senso, quasi nell’andare al cinema ci si ritrovasse (com’è, di fatto) di fronte ad uno specchio primigenio, quello dei film, in un’aurorale reviviscenza  dell’esperienza infantile descritta da Jacques Lacan e ripensata, analizzata nel cinema da Christian Metz col suo Cinema e psicoanalisi. Il Significante immaginario. Ci si confronta, com’è evidente, con testualità di cui non si debbano imparare previamente regole e codici particolari, né grammatiche o termini, lemmi: il cinema è il linguaggio più acconcio ai tipici processi cognitivi  basilari dell’essere umano, prima di tutto, e non necessita di scolarizzazioni.

“Vedere”, scrive Merleau-Ponty, e lo ricorda bene anche Paolo Gambazzi nel suo L’occhio e il suo inconscio, in un pensiero dunque che lo accoda appunto a Merleau-Ponty, e come si vedrà addirittura a Baudelaire, “è quella specie di pensiero che non ha bisogno di pensare per possedere il Wesen […] Della visione si deve dunque dire che, in essa, le cose che vedo pensano in me. La visione, il vedere, il visibile sono quella dimensione d’esperienza e di pensiero al di là della rappresentazione che Baudelaire (nel terzo dei Petites poèmes en prose) chiama rêverie (né sogno né veglia): “tutte queste cose pensano attraverso me o io penso attraverso esse (poiché nella grandezza della rêverie, l’io rapidamente si dissolve); esse pensano, dico, ma musicalmente e pittoricamente”, e qui si aggiungerebbe facilmente anche un cinematograficamente, “senza arguzie, senza sillogismi, senza deduzioni”. Qui il visibile pensa, è pensiero; e lo è in un rovesciamento complessivo dello sguardo che ne costituisce la verità.”

Una serie di cose e pensieri, di scelte dello sguardo sul “visibile” o in sua prospettiva, allora, si traducono in immagine e si pongono da subito al centro del funzionamento del dispositivo comunicativo filmico, della macchina cinema, per dirla con Paolo Bertetto, intesa nei suoi diversi aspetti tecnici e teorico-linguistici. Che sono, in prima battuta, quelli delle scelte autoriali, da esprimere per mezzo d’un apparecchiamento tecnologico con la scelta della pellicola e della sua specificità, dell’aspect ratio, della macchina da presa, con il tipo d’immagine fotografica o, addirittura, con la scelta di qualità e supporti digitali eventualmente adottati; con l’identificazione, di volta in volta, dei movimenti di macchina, del tipo di lenti o focali a servizio della scena, e delle modalità stilistiche di sua riproduzione; della luce o del filtro, studiati a valorizzare o caratterizzare un certo personaggio, o un ambiente in particolare (espressionista, iperrealista, surrealista, ecc.). Poi, invece, oltre alle questioni scenografiche altre, inerenti le tipologie di costumi, le luci, i make-up ecc., è una “scelta” spettatoriale, nell’ordine sia delle ritualità sociali, delle pratiche e modalità che accompagnano la fruizione di quell’immagine (cinematografica, domestica, su computer o cellulare), sia nella scelta, in parte volontaria e in parte no, dell’adesione culturale, ideologica e psicologica a quell’immagine, sfociante a sua volta in dibattiti e comunicazioni, testi e paratesti ulteriori –. Adesione talvolta connotata identitariamente, radicale, rispondente a strategie di marketing  o mode o divismi, ecc. .

Soprattutto, però, scelte nel guardare: cosa? Dove? Quando?

Immaginiamo soltanto quali differenze d’ocularizzazione o di focalizzazione nel racconto si possano riscontrare nel caso d’un film ove, improvvisamente, il quadro sia diviso in più parti (in split screen); dove ogni spettatore sia libero, dunque, di concentrarsi su l’una o l’altra cosa, con ordini, durate e frequenze dell’attenzione assai differenti: in questo caso, quale sarebbe, dunque, il testo cui riferirsi, se non nell’immagine predisposta e vissuta, ma decrittata con tempi e attenzioni specifiche dallo spettatore? Quale sarebbe il vedere, quale il sapere dello spettatore?

Tali atti di scelta ineriscono in prima battuta il vedere o meno, le visibilità in essere e, per converso, le invisibilità.

Nel contempo, la “contrarietà” ipotizzata tra i termini visibile e invisibile – tra ciò che si vede e ciò che non si vede – che non è fruito e fruibile perché non può o non deve esser visto in quanto esteticamente non appropriato, ideologicamente non funzionale, narrativamente non pertinente –  tale contrarietà, si diceva, implica da un lato una messa in campo degli esistenti selezionati (oggetti, ambienti, personaggi) e dall’altro una parallela esclusione d’altri elementi, non previsti dal set e dalle disposizioni scenografiche, dal cosiddetto profilmico, oppure, disponibili nella location adottata, ma rimossi, talvolta attraverso la cancellazione in postproduzione.

Tutto ciò avviene, almeno in astratto, in relazione, certo, alle scritture che precedono la realizzazione del film (soggetto, sceneggiatura) ma soprattutto nella misura del fare, del produrre l’immagine, nella complessiva costruzione della visibilità cui compartecipa il lavoro di molti (production designer, fotografo, scenografo, costumista, ecc.), sempre in rapporto alle tecniche e tecnologie da utilizzare, ai capitali ipotizzati, investibili e investiti. Il che vale oggi come un tempo, con l’immagine cinematografica (oltre che fotografica, fosse su pellicola o su “supporto” e in formato tipico del digitale) oppure, con l’immagine televisiva immediatamente passata, elettronica/magnetica (su nastro); o anche, a maggior ragione, con quella web oriented, destinata a quell’immaterialità digitale che tutto mette in fruizione immediata e che molto rende interpolabile, comunque convergente (quindi, fruibile anche su smartphone,  device ormai tra i più necessari).

  1. Si tratta, infine, di scelte narrative e linguistiche (stilistiche, retoriche e discorsive) che escludono qualcosa dalla composizione dell’immagine, dal filmico, ponendola, appunto, in un cosiddetto fuoricampo.

Il fuoricampo, però, come il bambino proverbiale gettato dalla finestra con l’acqua sporca, rientra spesso dalla porta principale. Il fuoricampo gioca il proprio ruolo, la propria tensione dialogica fondamentale con ciò che l’in campo costituisce, cioè con l’oggetto precipuo del narrare, o del più semplice mostrare.

Il fuoricampo può essere infatti attivo o passivo (cioè, in relazione più o meno diretta con ciò che è in campo: nel primo caso, con le inquadrature a struttura centrifuga che tendono verso l’esterno e lo convocano; nel secondo caso con le inquadrature a struttura centripeta, dove tutto converge all’interno dell’inquadratura, e nulla rinvia oltre i bordi dell’immagine). Il fuoricampo, pur risolvendosi genericamente nelle modalità tipiche della rappresentazione tecnica, linguistica e spettacolare, ha avuto un suo “sviluppo” storico e linguistico e muta a seconda dei modi di rappresentazione istituzionale del film che, nel corso della storia del cinema, sono anche fondamentalmente diseguali.

Certamente, il fuoricampo del cinema delle origini è stato spazio in rapporto significativo con la dimensione psicologica e percettiva dello spettatore teatrale: la macchina da presa, immobile, era collocata in basso e centralmente rispetto a quanto ripreso, non ipotizzandosi altro spazio utile alla rappresentazione da quello scenico.

È noto, ad esempio, come uno dei primi personaggi-mago, diretti e interpretati da Georges Méliès (in altre “Soirées Fantastiques” e in altri spettacoli del kinetograph Robert-Houdin, da Jules-Eugène Legris, da Édouard Raynaly, Jacobs, o Harmington) riuscisse già nel 1896 nel far sparire e riapparire una dama, Jeanne (o Jehanne) d’Alcy, seduta su una sedia nel boudoir di Escamotage d’une dame chez Robert Houdin.

Un corpo di donna appariva in scena, spariva e riappariva nuovamente in conseguenza dell’utilizzo d’un primo, semplice trucco: fermare la ripresa, modificare la scena, riprendere a girare. S’approntavano così delle semplici ma eclatanti sostituzioni in scena che poi, nella fruizione senza interruzioni dello spettacolo cinematografico, corrispondevano a vere e proprie sparizioni e riapparizioni, col côté favoloso d’effetti di fumi o lampi d’incantesimo apparecchiati per sbalordire lo spettatore.

In Le Magicien (1898) un altro personaggio (tra l’artista, uno scultore e un mago) spariva al balzo in una scatola magica per riapparirne quasi subito sotto le rinnovate spoglie del giovane Pierrot, seguito poi da tavole imbandite, da personaggi sulfurei, da busti di marmo che s’animavano in donne d’intenti guerreschi, in un vorticoso bailamme. Qualche anno più tardi, in Les Illusions Fantaisistes (1909), un valletto vedeva un altro illusionista mélièsiano – alle prese con oggetti e scatole magiche in un domestico scenario décor dominato da grande specchio – impegnato nell’atto di lanciare sopra la propria testa, oltre lo spazio superiore del quadro, dei vestiti appallottolati in un fagotto, una pianta in vaso, e poi uno sgabello che invece spariva addirittura a mezz’aria. Cose, dunque, che non appartenevano più alla porzione di spazio definita, che egualmente erano trasferite a un fuoricampo perfettamente assoluto, ove smettevano d’essere.

Dove finissero, almeno narrativamente, quei corpi e quegli oggetti, quelle teste mozzate che rotolavano verso la macchina e uscivano di scena, non è dato a sapere. Da dove tornavano o provenivano quelle cose, quei coprilampada, quelle donne di nome favoloso, finite prima nel fuoriscena, nell’irrappresentato dell’o-sceno, e poi dalla scena ricuperate? In quale fuoricampo, definitivo, erano precipitate, sottratte agli occhi degli spettatori del cinema delle origini – la cui immagine era risolta unipuntualmente nella contemplazione spettatoriale d’una sola inquadratura d’un minuto circa, senza raccordi tra spazi o direzioni o sguardi – se non in quello dell’immaginazione stessa e nullificante, prima del suo autore e poi del suo spettatore?

Non prevedendosi spazi limitanei, né esterni alla scena, a che dimensione andavano ascritti i suoi personaggi, i suoi oggetti se, una volta usciti a destra o a sinistra, in alto o in basso della cornice del quadro, fuori dell’immagine e non recuperati, non erano più? Che spazio era, dunque, quello dell’intorno dell’immagine?

Cose, persone, animali erano da quel cinema dissolti momentaneamente, e banditi dalla vicenda del film, oltre che, certo, dalla dimensione psicologica spettatoriale che pur sottendeva e sosteneva fattivamente il veduto e il “narrato” negli incunaboli cinematografici, dei suoi one reeler. Erano cose, persone, animali che lo statuto primitivo del cinema rendeva visibili o invisibili, interni o esterni, presenti o assenti del tutto, e che d’un tratto finivano proiettati in un neverwhere misterioso e non ipotizzabile, né gestibile narrativamente perché definitivamente altro, per poi esserne ripescati, in un repentino ritorno illusionistico, semi-magico, di potenza e tensione realistica tanto improbabili quanto caotiche.

Di qui è facile capire perché il cinema, sin dai suoi primordi più semplici, anche quelli delle origini, sia stato uno spettacolo scisso, fortemente diversificato tra vedute di stampo realistico-documentario, magari quelle d’un esotico assai immaginifico e di cliché, e gli spettacoli del meraviglioso o dei Phénomènes du spiritisme, delle creature lunari, degli hotel elettrici, degli scheletri danzanti, dei decapité récalcitrant o della tête en caoutchouc: questo almeno sino all’avvento del cinema classico, del montaggio e dei raccordi, nella necessità quasi subitanea del rendere cinematograficamente il viaggio (i treni, le aeronavi, i palloni areostatici, le carrozze, da Münchhausen passando per Jules Verne, Deux Cents Milles sous les mers sino ai viaggiatori dans la Lune o À la cônquete du Pôle) con la successiva messa in serie dei suoi diversi stadi dell’esperire, con il susseguirsi dei luoghi; o, se di viaggio dei corpi non si trattava, con la messa in scena proprio del corpo, nel viaggio della Passioni, con le stazioni del dolore (quindi, le soste, i quadri nel dramma del santo martirio). Si allestiva, così, la molteplicità vertiginosa, ubiqua, dei mondi e dei racconti che il cinema, in quanto sguardo, può abbracciare indistintamente.

Per qualche attimo, allora, gli oggetti e le persone dei cortometraggi (qui quelli mélièsiani, per tutti) sembravano assorbiti, e poi riproposti, in dinamiche spazio-temporali articolate tra fuoricampo assoluti, anche psicologici, e le presenze in campo, materiali, interne e contigue, reali, “normali”, senza che gli opposti spazi dialogassero granché tra loro: cosicché l’universo narrativo era riassunto e concluso, alla maniera quasi teatrale, nella visibilità di ciò che trovava spazio all’interno della cornice dell’immagine, quasi, appunto, il boccascena e il palcoscenico del Teatro Robert Houdin.

Di volta in volta, tuttavia, le due opposte condizioni, l’in campo e il fuoricampo, sembravano accomunate da una specificità ontologica, comunemente meravigliosa e rispecchiata, che nel caso di Méliès era evidentemente della fantasia al teatro illusionistico (quello del numero 8 di Boulevard des Italiens, poi quello a Montreuil): quindi del sogno o dell’incubo, della rêverie, della fantasticheria, della galerie magique.

Con l’ingenua sorpresa nostra, ancora oggi, e con lo sbalordimento dello spettatore d’allora, oltre che del valletto succitato, altri oggetti sparivano e riapparivano a piacimento in quei film (e in molti altri, assai simili). Sparivano nell’invisibile dettato a contraltare dallo sguardo onnipotente del cinema, illuminante e reificatore, illusorio, ingannatore. Anche nel cinema d’impronta realista, o in quello spettacolare (di Lumière, di Edison) si adottarono così inquadrature fisse e riprese continue, trucchi di sparizione e poi dissolvenze, effetti vari, flou, dettagli micro e sguardi complessivi, macro, ove il fuoricampo così come oggi inteso sembrava non interloquire ancora con ciò che in campo appariva. Il fuoricampo, in quei film, l’abbiamo detto, rappresentava semplicemente la dimensione zero della narrazione, una non dimensione.

  1. Nel contempo, la tensione tra l’in campo e il fuoricampo, tra la visibilità e l’invisibilità, imponeva al proprio spettatore e al cinema delle origini una condizione visiva complessiva perché psicologica, derivante cioè da una dialettica tra l’autore (implicito, disincarnato) e lo spettatore (parimenti implicito, astratto) che è senz’altro soggettivizzante e allucinatoria, tale da collocarsi agilmente, infine, a cavallo tra diversi piani d’esistenza, d’esperienza, di conoscenza e realtà.

L’esperienza ottica e cinematografica ibridava definitivamente realtà e irrealtà, visibilità e invisibilità, esseri umani e spiriti, angeli e demoni; cioè, poneva sullo stesso piano ontologico il mondo e la sua rappresentazione, il dato e la metafora, o il simbolo. A tal punto risultava efficace che definirne schizoide la pratica, il pensiero e la fruizione (nei termini dell’impossibilità  dimostrata dal paziente alle prese con la semplice e fallimentare distinzione tra realtà e allucinazione) non pare così azzardato.

Per converso, l’invisibilità di cui si è detto, l’invisibilità che ovviamente è imposta dallo sguardo (sempre orientato dell’obiettivo) definisce nel cinema tutto (delle origini, del periodo classico e a maggior ragione in quello moderno e contemporaneo) una non piena ascrivibilità dei diversi esistenti – investiti dai giustapposti sguardi, a loro volta concretati in inquadrature – alla condizione del film.

Ciò che in origine era escluso dall’immagine era non utile, non congruo, non pertinente, mentre oggi, certamente, appare in rapporto esterno e modulabile con l’immagine stessa. Ciò che è visibile, allora, è sempre  – anche quando apparentemente colto per puro caso, magari adottando il punto di vista più neutro, meccanico e distaccato possibile – una costruzione precisamente testuale, un’affermazione razionale, una logica etico-politica, una dichiarazione che per quanto parziale rimane infine soggettiva.

O meglio, un’affermazione estetica più o meno precisata (che sia al basso o all’alto, low o high brow, poco importa).

La radicalità dell’opposizione nei termini della contrarietà tra i concetti di “visibilità” e di “invisibilità”, infatti, trova nuance funzionale alle sopraindicate pieghe del narrare e moderazione assai funzionale al racconto, attraverso rapporti semiotici che diremmo di intensità più sfumata: quelli di “implicazione” o quelli speculari di “subcontrarietà”.

Se visibilità e invisibilità vivono un rapporto ontologico assoluto, definitivo e radicale, il visibile, l’esistente, e il non visibile (inteso come non focalizzato, non palesemente disponibile, ma rimandante a qualcosa o qualcuno che narrativamente è presente e che pur è convocato in campo) sono concetti e categorie che in immagine reggono invece una “contraddittorietà” che non solo è assolutamente prevista dal cinema, ma che anzi è ampiamente sfruttata dai più, in particolare dai suoi autori più eleganti e sapienti (in particolare, come si è detto, con il grande sviluppo narrativo classico che corrisponde, per convenzione storica, all’avvento della stagione successiva dal 1914 in poi). Una contraddittorietà assai umana, forse troppo umana, diremo, che è provvida e fertile. Succede lo stesso, basta rifletterci un attimo, con i termini della non invisibilità rispetto a quelli della non visibilità, forieri d’innumerevoli raffinatezze linguistico-discorsive, estetiche e narrative.

Il non detto, al cinema, risulta spesso più suggestivo, affascinante ed efficace dell’esplicitato:  così è tra ciò che è mostrato e non mostrato, ma anche tra ciò che è udito o non udito.

La ricognizione semiotica che qui s’illustra, allora, potrebbe essere così articolata: abbiamo ciò che è visibile, e in campo, e, al contrario, ciò che è invisibile, che non si vede, che è definitivamente fuoricampo (non considerato, esterno, assoluto, definitivamente non convocato o convocabile, ma che pure può incombere e rapportarsi con ciò che appare, in varia forma).

Tra il visibile e il non visibile si configura invece un rapporto di “contraddittorietà” che si risolve spesso nella suggestione e nell’evocazione d’una presenza che attende di prorompere finalmente in campo (un uomo, una belva, uno spettro, figure che volentieri sono spendibili nei termini del coup de théâtre e della sorpresa, ecc.): è il rapporto tra ciò che è in campo e ciò che è non in campo.

Quest’ultimo già prevede, nella sua dimensione di prima non visibilità, un immediato aggancio d’esistenza, una coesistenza forse oscurata, non focalizzata ma respirabile, con il visibile diegetico (che quindi suggerisce, ed evoca un’attesa che diremo “parziale”, o “laterale”).

Tra il non invisibile e il non visibile si definisce invece un rapporto che diciamo di “subcontrarietà”, che si risolve in un non fuoricampo (indice di parzialità derivata, non del tutto esterna: che in immagine si potrebbe tradurre in una gamba, in un braccio di un personaggio, in parte di un veicolo, in un occhio che emerge dal buio di un armadio tra i vestiti), e in un non in campo, che si potrebbe concretizzare nelle figure che pur in campo sono solo aleggianti, alcune vicine ai casi descritti precedentemente: quelle che appartengono al mistero, alla paura, al desiderio, all’indistinto della superstizione e al mito (il mostro o il mastino terrifico, avvolti entrambi nella bruma, appena percepiti e repentini, sfuggenti, mortali; la figura della donna del peccato che attende dietro l’angolo, seduta in ampia poltrona che nasconde alla vista la propria scintillante figura fatale, giocata seduttivamente negli ampi anelli di fumo azzurro che provengono dalla sua canonica ed esaltante fume-cigarette).

I rapporti di complementarità, o implicazione, tra visibile e non invisibile, tra invisibile e non visibile, si prestano ad altre combinazioni di visibilità e invisibilità, frutto ad esempio d’elaborazioni tecniche o linguistiche di base, soprattutto quando riferite a ciò che reale non è – bensì riproduzione visibile nella trasduzione digitale, o frutto d’elaborazione fotografica -. Presenze assenze, dunque. Possiamo divertirci a rintracciarle nella nostra esperienza di spettatori e analisti.

  1. Facendo però un passo indietro, e procedendo a degli esempi chiarificatori nella disquisizione che, al netto delle faccende tecnico-linguistiche più specifiche, conducono a qualche risultato interessante, soluzione narrativa esiziale parrebbe essere quella dell’immagine–anticatesiana per eccellenza, perché a 360°, fluida, disassata – approntata in una storica e ipnotizzante sperimentazione a firma di Michael Snow: La Région Centrale (1971), un film sperimentale di 180 minuti che ritraeva per un certo lasso di tempo il complessivo panottico d’uno spazio ripreso dalla macchina da presa di Michael Snow presso le Sept Îsles del Quebec. Si trattava d’un cronotopo descritto da un punto di vista fisso, attraverso un movimento continuo, anche qui senza apparente soluzione di continuità. All’uopo Snow utilizzò un braccio meccanico e movimenti pre-programmati al computer che scardinavano così le modalità assiali standard della tipica visione umana. L’opera descriveva dunque una purovisibilità assoluta, e al contempo un dis-embodiment definito in una continua rotazione e traslazione che, mai come in questo caso, si fa – come è stato scritto – “metafora stessa sulla visione” e sulla visibilità. Visione che mostrava, dunque, null’altro che se stessa, la visibilità: quindi, nulla d’atto a un utilizzo specifico, sub specie narrazione. La visibilità massima, qui, rimanda solo a se stessa, e non appare più ancorabile al mondo che rappresentava, che metteva in inquadratura (appunto, in ripresa senza soluzione di continuità).

La realtà, dunque, non è solo nella visibilità, ma anche nell’assenza di mira, anche nell’assenza di cible, nell’assenza di messa in campo e quadro precisati. Quindi, anche nel fuoricampo.

L’opposto d’uno sguardo, d’una visione così autoconclusa e divorante, tale da farsi pura immagine in movimento, seppure mostrando il nulla risolto dal semplice movimento, è proprio nell’invisibilità complessiva del buio, o d’un colore unico: entrambi i casi hanno riscontro nella storia del cinema. Il primo caso, ad esempio, nei 3 minuti e più di buio d’ouverture, interrotti solo dall’apparizione del marchio MGM, sottesi dall’Atmospheres di György Ligeti in 2001: A Space Odyssey, di Stanley Kubrick.

Si tratta di minuti di collasso dello sguardo razionale nella così accesa, stimolata e comune sottomotricità e sovrapercezione dello spettatore al cinema, nella sala buia e accogliente, quasi il ventre materno primigenio della coscienza, e poi nel buio della contemplazione schermica, nello spazio primordiale dei pianeti e delle astronavi col valzer viennese “Sul bel Danubio blu” di Johann Strauss, fatto cosmica epitome musicale delle nuove possibilità spaziali e narrative dello sguardo del cinema, da quel momento in poi così augmented.

Nero è, come mi fa notare Luciano De Giusti, l’incipit dello stesso M – Eine Stadt sucht einen Mörder (M – Il mostro di Düsseldorf), capolavoro di Fritz Lang – non a caso il frutto della produzione di Nero-Film AG – ove il suono ben precede l’immagine, non viceversa; e la fine del “mostro”, dell’assassino, è già nel nero della vista del venditore cieco (Georg John). Il cieco riconosce l’assassino Hans Beckert (Peter Lorre) nel buio assoluto della sua oscurità visiva, e riconosce proprio il motivetto che ne caratterizza la pratica omicidiale (un tema del IV movimento della suite Peer Gynt op. 46 di Edvard Grieg): egli sente, e vede. Meglio e di più della Polizia, com’è normale che sia, e senza scomodare Tiresia o le Memorie di un cieco di Derrida.

Nel primo film sonoro di Fritz Lang, dunque, un cieco è accomunato allo spettatore, a chi guarda e dispone per tempo della soluzione dell’indagine; ed è anche padre diretto di quello spettatore che con il Kubrick di 2001 si predisponeva nel buio, nel retour au noir, alla grande esperienza della visione di sé e oltre se stessi. Quindi, oltre all’avversa visione istituzionale, centrale, paterna, oltre al Moloch razionale e divoratore dei suoi figli (HAL), in uno sguardo che si specchia, che astrae, capace di sganciarsi e di restituirci l’autoritratto e le sue rovine, le inestimabili grandezze dell’umano.

È la visione dell’uomo, dunque, che permette a Bowman (letteralmente, l’arciere) di ribellarsi e sottrarsi al pensiero dell’umano, Heuristic-ALgorythmic: pensiero simulativo ma determinato, omicidiale, apparentemente privo d’emozioni, cosicché Bowman scocca il suo dardo, si proietta fuori dalla navicella per salvarsi al fine di tornare e spegnere, disinnescare, uccidere HAL. Vediamo qui “una parte di noi che noi stessi lanciamo nella Realtà: l’intrusione dell’Imponente” di cui scrive Žižek a proposito della Cosa lacaniana. Nell’horror vacui così annullato, Bowman viaggia poi a superare le leggi dell’astrofisica, oltre la propria fisicità, fatto egli stesso misterioso oggetto-altro, così come lo era stato il monolito de “L’alba dell’uomo”. Vedendosi e incarnandosi in un se stesso sempre più vecchio, in camera, sino al letto di morte, alla rinascita e allo Starchild che galleggia nel vuoto cosmico fatto nuovamente ventre d’una madre: che è qualcuno o qualcosa, das Ding non diversamente dall’ HAL di cui non ci spieghiamo, un bambino cantilenante e impaurito, infine, ma un assassino senza scrupoli, prima. Nel personaggio principale di Bowman il non vedere iniziale, insomma, prepara e introduce perfettamente a una visibilità accentuata e allargata, psichedelica: quindi al sapere, alla comprensione profonda, che è cosa ben altra, ovviamente.

Il colore puro, ancora, ci ricorda un film pressoché dimenticato, fors’anche perché scandaloso e di limite: Blue (1993) narra un’altra drammatica cecità, quella conseguente l’AIDS che irreparabilmente minava la salute del suo autore, il regista Derek Jarman.

Il film si consuma come lungo commiato, in un unico colore, l’International Klein Blue, monocromo creato da Yves Klein che fa da sfondo e oggetto totale – da chiusura ottica, da immagine estenuata, finale – alla colonna sonora di Simon Fisher Turner e alla voce dello stesso Jarman, mentre narra della sua vita, della sua filosofia artistica, in un commiato civile ed estremo.

Anche qui, però, il messaggio finale è proprio la voix humaine, l’umano, e non l’immagine. L’immagine, invece, è oggetto di rimozione, come le ultimissime tappe della malattia mortale di Nick Ray, in Lampi sull’acqua – Nick’s Movie (Lightning Over Water) di Wim Wenders, quando il regista di Johnny Guitar impone lo stop alle riprese. Il tutto visibile, l’immagine che non si ferma dinnanzi a nulla, stereoscopica/tridimensionale o purovisibilista che sia, (magari registrata su supporto 4K, ipertecnologica, di grande formato e figlia di obiettivi di massima performanza) è specimen dello sguardo dell’oggi che si pretende onnipotente e che muove all’accecamento vero, all’omologazione della fruizione (magari settata nei TV del “reference mode”), all’attenzione critica e forse alla stessa creazione, ma che è genericamente incapace – se non sorretta da imponenti operazioni estetiche – del pensiero complesso delle grandi narrazioni passate.

Per contro, le sottrazioni e le rarefazioni bressoniane, le parzialità rohmeriane, i feticismi buñeliani, i pedinamenti piccoli e zavattiniani, o alla Cassavetes, sembrano invece ipnotizzarci, e attrarre il nostro sguardo sull’abisso delle erratiche complessità dell’umano, del suo mistero, della sua sporcizia, talvolta come mancanza, come cupio dissolvi, religiosa o etica, socraticamente civile che sia.

Nel fallimento dello sguardo ingenuo, che pure è capace di farsi telecinesi, artefice di prensione e forza (Stalker, del sublime Andrej Tarkovskij) si spalancano le porte di diverse percezioni ed evocazioni. Il non invisibile, ad esempio, sembra rimandare a ciò che è in campo, solo in parte richiamato, a uno sguardo che lo indaga ma non lo mostra del tutto, in assenza di prossimità o di luce (o, per contro, in pienissima luce, che non nasconde ma acceca: caso dell’Icaro, o dell’eclissi). Così gli ingrandimenti d’alcuni fotogrammi, degli scatti nel parco di Thomas, i Blow-Up nell’omonimo capolavoro d’Antonioni, non permettono di svelare il senso degli eventi né la logica degli accadimenti, ed anzi devono rinunciare ad ogni tensione veridittiva, senza comprovare affatto l’avvenuto omicidio (il film di Antonioni, per chi l’abbia visto, si chiude non a caso in una partita di tennis giocata senza pallina, tra mimi). La Realtà è quella che vediamo? La Realtà contemporanea è l’oggetto del cinema, risolta pienamente nella visibilità? La visibilità estrema dell’evento esiziale del nuovo millennio, l’undici settembre così precisamente collocato nella memoria e nella vita, in ciò che si stava facendo, di ognuno di noi, è la verità dei fatti come narrati dagli atti di 9-11 Commission? O la manipolabilità complessiva dell’immagine in movimento ha ucciso la fiducia, la credenza e la superstizione al contempo della Realtà stessa, a maggior ragione se ritratta nell’immagine in movimento?

Non è che Realtà, invece, si rintracci, almeno psicologicamente, nel fortuito, nel disorganizzato, nel frammento improvvisamente rivelatore, girato della macchina da presa caduta per terra, a operatore morente, in Der Stand der DingeLo stato delle cose, di Wim Wenders? O nel Sacro, nel ralenti retorico e amplificato del volo dell’intagliatore Steiner, ripreso da Herzog? O nella materializzazione più intima della memoria, quella della passione suicidata, nel e su Solaris, il pianeta cervello?

La Realtà è, invero, anche in ciò che è prodotto faticosamente dalla memoria e dal suo racconto, in Shoah di Lanzmann. È nella sconfitta della superbia della ragione di Decalogo 1 (Dekalog, jeden), di Kieslowski. Se i flou, le sfocature, le visioni lisergiche e le ombre (Schatten – Eine nächtliche Halluzination) sono sempre ammonitrici al cinema, è perché il cinema, anche quello più tecnologico, è fatto anche di presenze casuali, dell’improvviso passaggio di giovani urlanti su una macchina, o di un orecchio troncato su un prato ben falciato: oppure, come capita ai personaggi di Interstellar, di presenze impalpabili, disposte su piani spazio-temporali similari e confinanti, appena comunicanti, eppure prossimi ad amarsi, a toccarsi senza poterlo fare, a comunicare. Il cinema è pur sempre fatto di pazzi, di spettri, di bambini, di falsi ricordi, e di visioni, e dei loro dialoghi. Le allucinazioni del personaggio principale in Shutter Island di Scorsese, interpretato da Leonardo Di Caprio, o quelle che tali sembrano con lo stralunato Bruce Willis di 12 Monkeys (L’esercito delle 12 scimmie), precipitato dal futuro apocalittico ad ammonimento su se stesso prima che sia troppo tardi, non sono solo il frutto delle farneticazioni di pazzi e traumatizzati da eventi troppo feroci, bensì manipolazioni esterne che non risolvono sino all’ultimo il vero dilemma spettatoriale: quello per il quale la verità sembra non essere più, la visibilità e l’invisibilità nemmeno, anche se certamente motivo di mistero, territorio di quest, d’indagine, luogo di scontro del vedere, del sapere, del credere soltanto.

  1. La verità e la realtà giacciono sopite nella nostra umanità, nell’umanità dei personaggi, nella loro ultima, dolente e più profonda consapevolezza nascosta. Nel rispecchiamento con noi stessi, quello che bene cogliamo nelle inquadrature dei film appena citati.

E la questione, insomma, è che la visibilità attraverso l’occhio e il cinema, espressione orientata dello sguardo, non rappresenta la prensione più profonda, la resa in immagine perfetta del mondo, ma il suo limite palesato: spesso, se non sempre – in misura diversa è ovvio – la visibilità è il suo tradimento. Non sempre “darkness blinds the gifted”, anzi.

Infiniti sono i film che a proposito tematizzano in trama o sottotrama gli aspetti relativi e conseguenti. In Tommy (1975) di Ken Russell, il giovane protagonista, ancora bambino, perde il padre aviatore della RAF che prima è dato per disperso, che poi ricompare orribilmente sfigurato per essere infine ucciso dal patrigno di Tommy – per motivi bassamente di letto, nel contendersi della donna, la madre di Tommy -. Il trauma rende Tommy cieco-sordomuto, alienato dal mondo reale in una forma di autismo che lo costringe alla contemplazione estatica di sé allo specchio, condizione della quale cantano Jack Nicholson, Roger Daltrey e Ann-Margret in un trio e un pezzo che mi sembra ben narrare la surclosura preidentitaria dell’immagine allo specchio. Io, Super-Io ed Es indicano il percorso (cinematografico): “Go to the Mirror!. Questo, almeno, sin quando la madre (interpretata dalla splendida Ann-Margret), hotwife disperata e conscia d’essersi venduta l’anima, d’essere banalmente prima causa del male procurato al figlio) distrugge lo specchio di fronte al quale Tommy staziona quando non gioca al flipper (“Smash the mirror”, dunque). L’atto violento sottrae il giovane al suo traumatizzato stupore e lo ri-getta nel mondo ove, come molti altri idiot savant del grande schermo, diviene una specie di santone, un messia liberato (“I’m free”). La disperata richiesta d’aiuto del ragazzo (“See Me, Feel Me/Listening to You”, e poi touch me, heal me) è nella rottura del circolo della pura visione tra dimensione ludica e automatismo psicotico del medium, limitando finalmente quell’identificazione speculare e proiettiva troppo connessa allo specchio, al Sé e alla Madre. Con i rischi connessi, ovviamente, all’acquisire un’umanità troppo realistica, rivoluzionaria e cristologica, come la sua.

Così, in fin dei conti, ci sembra dire Ken Russell, per accedere al visibile e alla vista, al cinema, si perde la capacità di gestire l’invisibile. E forse l’umanità stessa.

In un modo o nell’altro, il cinema si risolve nella dimensione del rispecchiamento. Il cinema è il cervello, uno spazio in senza necessariamente qualsiasi o nessun fuoricampo pensabile in noi.

CINEMA Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA PSICOLOGIA

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