SARTRE A NAPOLI

FABIO CIARAMELLI

SARTRE

La disposizione d’animo fondamentale con cui Sartre s’accosta a Napoli  è l’ambivalenza di sentimenti. Come ammette lui stesso, “l’amo e ne ho orrore. E mi vergogno di andare a vederla”. Nel visitarla, ha quasi l’impressione di violarne l’intimità. E questo l’induce – come osserva Aniello Montano, traduttore del breve scritto che Sartre dedicò alla città partenopea prima della seconda guerra mondiale (Spaesamento, Libreria Dante e Descartes) –   a tentare una vera e propria descrizione “fenomenologica” della città. Lo specifico di questo tipo di approccio   consiste nel finalizzare la descrizione delle cose che appaiono all’unico obiettivo di far venir a galla proprio ciò che in esse a prima vista non appare.  Insomma, si tratta di descrivere il visibile per attingere l’invisibile. In questo senso, il lungo esercizio della descrizione dovrebbe preparare un’epifania, il cui contenuto è o meglio dovrebbe essere il senso stesso della realtà sperimentata e poi descritta.

      Non appena Sartre mette piede a Napoli, si rende conto che il procedimento fenomenologico è l’unico adeguato a sintonizzarlo col polso segreto d’una città ritrosa. “Napoli non si rivela immediatamente: è una città che si vergogna di se stessa; tenta di far credere agli stranieri che è popolata di casinò, ville e palazzi. E molti ci sono cascati, non sapendo vedere le ferite sospette che i viali borghesi hanno ai loro fianchi”. Ma chi s’accontenta di questa facciata, fermandosi al nitore delle apparenze, si lascia sfuggire la vera natura della città, non si rende conto, per esempio, che via Roma è “una via coloniale, una via di europei fiancheggiata da una parte e dall’altra da un quartiere indigeno semivietato”. Ed è proprio questa la parte di città  in cui Sartre decide d’avventurarsi. La sua descrizione mira a “sentire” quella che lui chiama la “enorme esistenza sudicia e rosa” dei vicoli, i cui bassi sono “impudichi e segreti”: sembra che in essi tutto sia trasparente, ma quasi immediatamente questa conclusione si rivela affrettata e falsa. Contrariamente alle apparenze, i bassi, per quanto spalancati nel cuore dei vicoli,  in fin dei conti non lasciano vedere niente. E così Sartre si rende conto che i bassi  “ti buttano in faccia il loro calore organico ma non si svelano mai”.

Questa ambiguità non è immediatamente visibile, ma è essa che  costituisce il vero nucleo di ciò che appare nei vicoli e che la descrizione sartriana cerca di cogliere. Questa è la vera Napoli,  non quella “di cui si vendono le riproduzioni nelle cartolerie”. Insomma Sartre è attratto e affascinato proprio da ciò che nella Napoli appariscente si ritrae e respinge. La vera Napoli non può prescindere da questa ambiguità. La sua povertà, il suo aspetto miserevole,  ferisce per la sua crudezza e  perciò Sartre s’affretta a lasciarselo alle spalle; ma rispetto a questa complessità, a quest’intreccio di attrazione e repulsione, non può non riconoscere che c’è qualcosa da prendere, “qualcosa di cui si sarebbe potuto gioire, un senso  – forse era proprio il senso di Napoli”.

 La descrizione fenomenologica, attraverso la restituzione più o meno minuziosa delle apparenze, cioè di ciò che si lascia vedere in superficie, avrebbe esattamente l’obiettivo di cogliere questa zona di invisibilità, questa dimensione più profonda, questo recinto del senso che, tuttavia, nella sua ritrosia, resta vietato, inattingibile. Al solo pregustarlo, il visitatore straniero perde la bussola, si vergogna, preferisce fuggire.   E qui Sartre, in poche battute che forse doveva aver letto Curzio Malaparte prima di scrivere La pelle, in cui si dilunga su scene analoghe, descrive l’ambiguo salotto d’una casa d’appuntamento che mima il lupanare dell’antica Pompei . E subito dopo conclude:  “Poco fa, sulla via Roma, ero ancora avaro e assennato. Adesso sono… sono spaesato”.

 Cos’altro è la descrizione fenomenologica, protesa a raggiungere l’invisibile mediante l’attraversamento del visibile, se non la cronaca di questo fallimento?  Lo spaesamento di Sartre attesta l’insuccesso inevitabile della comprensione che sarebbe voluta culminare nel possesso pieno del senso. Con tutto il suo rigore analitico e la sua potenza letteraria, è escluso che la descrizione sartriana, per quanto magistrale, possa reificare il senso,  facendo dell’invisibile un oggetto tra gli altri.

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