IL Y A DU VISIBLE: CONTINGENZA DEGLI ORDINI E SEDUZIONI TOTALITARIE
FERDINANDO MENGA

- Visioni parziali
“Il y a de l’ordre”: è questa una delle espressioni chiave con cui Michel Foucault, nelle prime pagine della sua prefazione a Les mots et les choses (1966), trasmette in modo sintetico e pregnante la natura inevitabilmente storica, istituita e diveniente di ogni ordine del sapere e delle pratiche a esso correlate. Con tale espressione, Foucault intende, in effetti, sottolineare che non esiste l’Ordine in quanto tale, ma che vi è dell’ordine di volta in volta – ossia, “un certo ordine” (così suona la traduzione ufficiale italiana) processualmente costituito e perciò mutevole e limitato.
Variando su questa felice affermazione foucaultiana ed estendendola al nostro tema, potremmo allora anche asserire: il y a du visible – vi è cioè del visibile e, correlativamente, anche dell’invisibile; giammai il visibile e l’invisibile come tali. La configurazione del visibile e dell’invisibile, nonché il loro vicendevole rapporto, rispecchia così una natura contingente. Il che – si badi bene – non significa però che i contesti della visibilità, dati volta per volta, obbediscano alla mera legge dell’arbitrarietà o del capriccio. Indica invece che ogni spazio di manifestazione è inscritto in ordini della visibilità quali prodotti di processi di normalizzazione. Insomma, vi sono degli ordini che rendono visibile qualcosa e non altro, rendono visibile in determinate forme e non in altre – risultando, in tal modo, essere così e non altrimenti, laddove però questo “altrimenti” fa segno a istanze di possibile alterazione effettiva dell’ordine di volta in volta dato. Come, peraltro, avverte già Niklas Luhmann, nelle sue importanti analisi sulla natura limitata e limitante dei sistemi, il carattere di contingenza di ogni ordine implica un “altrimenti” non di un altro mondo, ma in questo mondo.
Anche la tradizione della fenomenologia circoscrive magnificamente questa strutturazione necessariamente contingente degli ordini della visibilità allorquando, con la sua formula principe, asserisce che qualcosa non si manifesta tour court, vale a dire, in semplice unitarietà ed immediatezza, ma sempre in quanto qualcosa. E se “qualcosa” (1) appare sempre “in quanto qualcosa” (2) – “etwas erscheint als etwas”: così suona la celebre formulazione di Edmund Husserl – ciò implica allora che ogni “qualcosa” (1) compare per mezzo del supplemento originario di una mediazione di significato al contempo iterativa e alterante. Ma cosa vuol dire che un significato ripete e modifica assieme ciò che rende manifesto? Ci addentriamo qui in un passaggio forse un po’ complesso, che devo però svolgere in quanto costituisce il nucleo teorico di tutto il mio discorso.
Importanti autori nel panorama filosofico contemporaneo – quali Maurice Merleau-Ponty, Jacques Derrida, ma anche Bernhard Waldenfels – ci hanno mostrato molto bene come un significato non possa essere né semplice ripetizione di un qualcosa di già dato (realismo radicale), né sua mera costruzione (costruttivismo radicale). Se, difatti, l’“in quanto qualcosa” (2) fosse soltanto la mera duplicazione manifestativa di un “qualcosa” (1) di già dato – sarebbe questo il caso di una ripetizione senza alterazione –, quest’ultimo non avrebbe bisogno di alcun significato per manifestarsi: esso sarebbe già la coincidenza unica e assoluta con il proprio significato. Ogni qualcosa sarebbe, in altri termini, solo ed esclusivamente un “proprio” immediato e assoluto che semplicemente si ripete nelle sue manifestazioni. Nessuna estraneità verrebbe ammessa e, con ciò, neppure alcuna ombra e spazio d’invisibilità, tali da occasionare processi interpretativi e discernimenti ermeneutici, sarebbe dato. D’altro canto, però, se l’“in quanto qualcosa” (2) fosse mediazione di significato assoluta del “qualcosa” (1) che si manifesta – questo sarebbe il caso opposto di un’alterazione senza ripetizione –, nulla, a rigore, assurgerebbe mai a manifestazione, poiché non riuscirebbe ad acquisire, in alcun modo, quella minima sfera di “proprietà” unitaria tale da rendere possibile il riconoscimento del medesimo soggetto nel susseguirsi delle comparizioni. Tutto sprofonderebbe, insomma, in un oceano d’indeterminata estraneità e arbitrarietà.
La struttura fenomenologica del “qualcosa appare in quanto qualcosa” scongiura, però, sia l’eccesso dell’assolutezza manifestativa (un proprio senza estraneo), sia anche l’eccesso opposto di una mera arbitrarietà apparenziale (un estraneo senza proprio). Essa indica, invece, che ogni qualcosa che si manifesta, giacché scevro di un nucleo di significato ad esso immediatamente inerente e quindi proprio, si compone soltanto nella misura in cui si itera nelle sue stesse manifestazioni. È questa dinamica dell’iterazione ad occasionare la formazione di una sfera di proprietà del qualcosa di carattere unitario, scongiurando così il decadimento nell’opzione di una mera frammentazione in apparizioni arbitrarie. Allo stesso tempo, però, esattamente in ragione dell’assenza di un modello originario di riferimento a cui ispirarsi, è sempre questa medesima iterazione – che compone il proprio –, a rivelarsi immancabilmente quale alterazione primordiale – insomma, quale estraniazione all’origine che, come un marchio di fabbrica, si riverbera nel corso della vita del proprio, non consentendogli mai una compiuta stabilizzazione.
Nient’altro che questa perenne oscillazione fra ripetizione ed alterazione manifestative – relazionalità inestinguibile fra proprio ed estraneo – è quanto, da un lato, permette la costituzione di ordini normalizzati di visibilità e d’esperibilità senza cadere nell’arbitrario anything appears, e, dall’altro, scongiura il superamento dialettico della contingenza e il concomitante vagheggiamento di un raggiungimento (finalmente consumato o prospettato) dell’unico ordine possibile – l’ordine totale in cui everything appears.
- Ambiguità moderne
È la Modernità, come ben sappiamo, a costituire quel passaggio d’epoca che segna la presa di consapevolezza rispetto a questa condizione della contingenza degli ordini, da cui ormai non si torna indietro. All’espressa scoperta dell’ineludibile finitezza di ogni progetto e discorso sul mondo non può che far capo, perciò, la celebre sentenza dell’uomo folle di Nietzsche: “Dio è morto! Dio resta morto!”.
Eppure, come sappiamo altrettanto bene, non basta però professarsi moderni per esibire, di per sé, adeguata adesione al portato tragico che consegue da tale scoperta. E di tragiche conseguenze davvero si tratta, dacché ne va di riconoscere e convivere con l’inevitabile finitezza di ogni ordine, con l’assenza di garanzie per qualsivoglia discorso e con l’inaccessibilità di una visione trasparente e immediata al vero fondamento delle cose – possibilità, queste, tutte precedentemente date nella visione pre-moderna, in forza del principio onto-teologico a sostentamento di ogni ordine del mondo.
Non basta dirsi moderni perché – come ci ha insegnato molto bene Derrida, ma non solo – è la Modernità stessa a rivelarsi, fin dall’inizio, luogo inquieto, ambivalente e spettrale rispetto alla tragica scoperta che la inaugura. In altri termini è come se la Modernità, da una parte, si presentasse come palcoscenico per la presa di coscienza della contingenza radicale di ogni spazio d’esperienza; ma, dall’altro, si costituisse come scena in cui si intrufolano spinte orientate precisamente alla contrapposta aspirazione di ricostituzione o riconquista del fondamento perduto.
Se il primo versante è magnificamente rappresentato dalla filosofia smascherante di Nietzsche, probabilmente è Hegel più di tutti, con il suo progetto di superamento dialettico della contingenza, a esibire il tentativo moderno più lampante e poderoso di ricostituzione dell’assoluto. In un caso come nell’altro è importante rilevare come la lotta si giochi proprio entro la semantica del visibile e dell’invisibile. Nel primo caso, nei termini dell’affermazione di un prospettivismo radicale delle visioni. Nel secondo, attraverso una bipartizione gerarchica, laddove se, da un lato, alla coscienza viene assegnato il ruolo di fare esperienza del graduale attraversamento delle umbratili (e perciò parziali) prospetticità che la avviluppano, dall’altro, è all’automanifestazione già dispiegata dello Spirito che spetta il compito di fornire previa garanzia di successo di suddetto percorso, proprio in virtù di un attraversamento delle visioni parziali già sempre concluso e interiorizzato. Per nessun altro motivo Hegel parla in fondo – come suggerisce il titolo stesso del suo Meisterwerk – di una Fenomeno-logia dello Spirito e non della coscienza, come a voler indicare che il segreto della visibilità piena (del fenomeno), sebbene inaccessibile (invisibile) all’apprensione finita, non lo è però all’accesso che si installa nel luogo stesso del fondamento assoluto. Si tratta solo di imparare a fare il salto dall’oscurità alla luce; ovvero, di intraprendere il percorso (in qualche misura nuovamente platonico) che dalle ombre della caverna conduce alla piena visibilità del giorno.
Risulta piuttosto chiaro – e certamente non abbiamo bisogno di rivisitare l’intimo nesso fra pensiero totalizzante e colonialismo europeo per svelare – tutto il potenziale immunitario-totalitario che una tale strategia dialettica detiene: è infatti la pretesa stessa di installarsi nel luogo del fondamento e della visione totale, nonché la correlata presunzione di incorporare il segreto ultimo delle cose finalmente svelato, a comportare la necessaria degradazione di tutte le prospettive concorrenti – declassamento al rango di parzialità, inferiorità o addirittura indegnità, con tutto il carico di (presunta) giustificata violenza atta a combatterle e debellarle.
Ma se, in tale contesto, tanto il riferimento a Nietzsche, da un lato, quanto quello a Hegel, dall’altro, si presentano come doverosi, essi si rivelano però, al contempo, anche piuttosto semplici. Più complesse si fanno invece le cose quando la contrapposizione fra assunzione della contingenza e suo superamento si presenta sotto forma di un intreccio o una sovrapposizione difficilmente districabile all’interno del medesimo spazio di discorso. In tali casi, ciò che risulta particolarmente complesso non è tanto cogliere le aspirazioni totalizzanti, perché si trovino interconnesse con i tratti della contingenza, quanto piuttosto perché spesso proprio tali aspirazioni iperboliche si nascondono (anche inavvertitamente) dietro la maschera della semantica della finitezza stessa. “Pensieri” totalitari “che incedono con passi di colomba”, potremo dunque dire, variando un po’ su una celebre affermazione di Nietzsche.
- Sentieri interrotti nella Foresta Nera
Malgrado numerosi esempi potrebbero essere forniti per elucidare tale ambiguo interregno, vorrei qui soffermarmi solo su un autore in particolare: Martin Heidegger.
Tuttavia, a differenza di quanto si potrebbe essere spinti subito a pensare, non è al caso de I quaderni neri che mi voglio riferire. Sono principalmente due i motivi che mi spingono a escludere una tale questione. In primo luogo, l’aspirazione immunitaria e totalitaria che traspare in queste Anmerkungen (annotazioni) del filosofo della Foresta Nera è, a tratti, talmente evidente e “banale” – per usare un’espressione di Jean-Luc Nancy – che essa tutto segnala meno il senso di ambiguità e inestricabilità del nesso assolutezza-contingenza poc’anzi indicato. In secondo luogo, il passaggio in rassegna degli Schwarze Hefte non mi consentirebbe di far confluire, in modo chiaro e inequivocabile, la questione lungo il binario tematico del visibile/invisibile, a cui le presenti riflessioni intendono dedicarsi.
Opto, per questo, per la rivisitazione di due altri luoghi del pensiero di Heidegger, a mio avviso, estremamente emblematici per cogliere a pieno il senso dell’ambiguità ed interconnessione sopra segnalati.
Il primo luogo si riferisce a un passaggio poco conosciuto della sua produzione. Lo estrapolo da un corso universitario giovanile tenuto all’Università di Friburgo (nel 1919), in cui per Heidegger ne va proprio dell’analisi della struttura fenomenologica dell’apparizione.
In piedi di fronte all’uditorio studentesco seduto nell’aula, il giovane e promettente docente allievo di Husserl si chiede in effetti se esista, per caso, una forma di presentazione assoluta, immediata e unitaria delle cose, ovvero la possibilità per un qualcosa di essere colto come se stesso in modo nudo e crudo. La sua risposta, di cui anticipo l’esito, non dà scanso a equivoci: è no! Ed il motivo è esattamente da farsi risalire a quanto riportavo prima circa l’articolazione manifestativa enucleata dalla fenomenologia (o, per la precisione, almeno da una certa interpretazione di essa): “qualcosa” non appare mai in presunta pienezza e trasparenza perché appare “in quanto qualcosa”. Heidegger chiama questa articolazione “struttura della significatività”: qualcosa si manifesta sempre attraverso un significato. Ed è proprio questo a rendere ogni manifestazione mai totale, ma sempre mediata, parziale e contingente. Ma come?! – ci si potrebbe chiedere. Alle cose non aderiscono dei significati insiti, che le lasciano apparire “proprio” per come sono?
È a questo riguardo che lo stralcio della lezione di Heidegger, che mi accingo a riportare, si rivela decisivo. Da bravo fenomenologo qual è, dedito all’analisi delle “cose stesse”, Heidegger invita gli studenti seduti in aula a un esperimento concreto: quello di guardare la cattedra di fronte a loro. Leggiamo le parole stesse di Heidegger:
Voi entrate come di solito in questa aula all’ora solita e vi dirigete al vostro posto abituale. Tenete ferma questa esperienza del “vedere il vostro posto”; alternativamente potete anche mettervi nei miei panni: entrando nell’aula vedo la cattedra. […] Che cosa vedo “io”? Superfici scure che si stagliano ad angolo retto? No, vedo qualcosa di diverso: una cassa, e cioè una più grande con una più piccola costruitavi sopra? In nessun modo: io vedo la cattedra dalla quale devo parlare, voi vedete la cattedra dalla quale vi viene parlato, dalla quale io ho già parlato. Nella pura esperienza vissuta non c’è nemmeno – come si dice – un nesso fondazionale, come se io vedessi prima delle superfici scure che si stagliano, e che mi si offrono successivamente come cassa, poi come scrivania, infine come cattedra accademica, in modo da incollare ciò che è cattedratico alla cassa come se fosse un’etichetta. Tutto ciò è una cattiva, equivoca interpretazione, un distoglimento dal puro guardare direttamente dentro l’esperienza vissuta. Io vedo la cattedra per così dire in un colpo; e non la vedo solamente in modo isolato, ma vedo la scrivania come troppo alta per me. Vi vedo un libro sopra, come qualcosa che mi disturba subito (un libro e non un insieme stratificato di pagine coperte di macchioline nere), vedo la cattedra con un certo orientamento, con una certa illuminazione, su uno sfondo. (Per la determinazione della filosofia, p. 69)
Il tenore della riflessione heideggeriana è chiaro: l’esperienza della visione concreta non è tale per cui, in un primo tempo, si dà un accesso diretto alla realtà che consente l’incontro puro con una cosa, la quale, poi, in un secondo tempo, acquisisce anche un significato, per esempio quello di “cattedra”. Piuttosto, l’incontro che avviene nell’esperienza è tale da essere già sempre, cioè originariamente, mediato da un significato, il quale, a sua volta, può apparire come tale solo nella misura in cui rimanda a un ordine di significati correlati. Esemplificando, possiamo affermare: fin dall’inizio io esperisco non una cosa, bensì una cattedra; e la esperisco “in quanto” cattedra, non in isolatezza autoreferenziale, bensì grazie al simultaneo rimando a un ordine di significati; nello specifico: l’ordine dei significati relativi alla struttura universitaria.
Quanto viene così stabilito è l’irriducibile primato della mediazione del significato, che porta costitutivamente con sé il rimando alla mediazione di ordini dei significati, in cui soltanto, e di volta in volta, si dischiude qualcosa come un mondo. A ben guardare, tale originarietà della mediazione d’ordine dei significati può essere assunta fino al punto che persino il presunto accesso diretto, che si vorrebbe pre- o extrasignificazionale, ha inevitabilmente a che fare con significati e con ordini di significato. Infatti, anche nel caso in cui si percepisse la cattedra come cassa o parallelepipedo, si continuerebbe comunque a coglierla attraverso significati e il rimando a contesti significativi, in quanto si assumerebbe qualcosa appunto “in quanto” parallelepipedo ed entro un contesto determinato: quello – se vogliamo – del “mondo” della geometria.
Ma per sottolineare ulteriormente l’inevitabile costituzione parziale e contingente degli ordini della visibilità e della manifestazione, Heidegger aggiunge un supplemento di riflessione, sulla quale non dobbiamo soprassedere. Leggiamo ancora:
Voi direte certamente che ciò si può rinvenire immediatamente nell’esperienza vissuta per me e in una certa misura per voi, perché anche voi vedete come (als) cattedra questa determinata composizione di legno e di assi. Questo oggetto, che noi tutti qui percepiamo, ha in qualche modo il significato determinato di “cattedra”. Diversamente stanno già le cose se conduciamo in aula un contadino dell’alta Foresta Nera. È la cattedra che vede, o una cassa oppure una capanna di assi? Egli vede “il posto del professore”, egli vede l’oggetto come affetto da un significato. Posto il caso che qualcuno vi veda una cassa, egli non vedrebbe comunque un pezzo di legno, una cosa, un oggetto della natura. Ma pensiamo a un nero del Senegal trapiantato immediatamente qui dalla sua capanna. Cosa veda fissando questo oggetto diventa difficile dirlo nei particolari, forse qualcosa che ha che vedere con la magia oppure qualcosa dietro la quale ci si possa riparare dalle frecce e dalle fionde, oppure, ciò che è forse la cosa più probabile, egli non saprebbe da dove iniziare, dunque vedrebbe un semplice complesso di colori o di superfici, una semplice cosa, un qualcosa che c’è in modo puro e semplice? (ibid., pp. 69-70).
Arrestando l’esame all’altezza di questa domanda (e trascurando di commentare la scarsa political correctness dell’esempio), la conclusione di Heidegger sembra essere chiara: l’accesso immediato ed extra-significazionale non può rappresentare certo l’ultima parola, poiché anche laddove la cosa pare essere nient’altro che una semplice cosa scevra di ogni significato e contesto di significatività, là si dà comunque mediazione di significato. E da qui la dimostrazione di Heidegger incalza: infatti, se si esamina con attenzione l’esperienza del “nero del Senegal”, bisogna affermare non che egli veda semplicemente qualcosa senza significato, bensì che “anche nel caso in cui egli vedesse la cattedra come un semplice qualcosa che è là, essa avrebbe per lui un significato, un momento significativo”. E lo avrebbe poiché, anche nell’estremo disorientamento derivante dal fatto di non riuscire a riconoscere l’oggetto, il disorientamento sarebbe comunque riconducibile a un percepire attraverso significati (inerenti al suo mondo). Ai contesti di visibilità inevitabilmente limitati (la cattedra per gli studenti, il posto del professore per il contadino, il luogo di riparo per il senegalese) corrispondono così altrettanti orizzonti d’invisibilità anch’essi limitati, scanditi esattamente dall’estraneità apparenziale che disorienta gli ordini di significazione – insomma, dagli angoli prospettici – di volta in volta dati.
L’irriducibile conclusione recita allora: “La significanza dell’‘essere estraneo cosale’”, che si offre al senegalese, “e la significanza di ‘cattedra’”, che si offre agli studenti, “sono assolutamente identiche secondo il loro nucleo essenziale” (ibid.), ovvero nel fatto che il carattere originario dell’esperienza è la mediazione significazionale, che si dà mediante i contesti di significato rappresentati di volta in volta dai vari ordini di mondo che vi ineriscono.
Questo esempio, condotto da Heidegger, suffraga così il carattere inevitabilmente prospettico, parziale e, dunque, plurale di tutti gli spazi di visibilità inerenti al mondo. Sono prospettive che, in quanto tali, possono sì essere integrate ed allargate, ma mai possono pretendere di darsi come uniche, universali o finalmente di portata tale da esibire una visibilità totale senza linee d’ombra e punti ciechi. O meglio, possono anche esibire o tentare di realizzare tale pretesa, ma solo attraverso il processo, esso stesso, tutto contingente e violento di un’estensione globalizzante di carattere immunitario, cioè che dilata i propri confini inglobando l’altro ed eliminando l’estraneo. Ma quandanche ciò avvenisse, anche in tal caso la contingenza non sparirebbe dalla faccia della terra: una globalizzazione pretestuosamente compiuta, infatti, tornerebbe comunque a essere pungolata da appelli dell’estraneo scacciati dalla porta e rientranti dalla finestra, magari innescando e incrementando ulteriormente quella che Judith Butler ha definito, in modo assai azzeccato, “economia paranoica” d’esclusione dell’alterità.
Almeno da questo punto di vista, allora, il giovane Heidegger potrebbe essere senza dubbio considerato come critico ante litteram rispetto a tutte quelle visioni della globalizzazione che pretendono di essersi lasciate alle spalle ogni contingenza e carattere parziale dei vari ordini di mondo e aver finalmente raggiunto uno sguardo di sorvolo universale al di là di ogni limitatezza prospettica. Rispetto a siffatte posizioni, un fenomenologo potrebbe e dovrebbe per lo meno porre alcune contro-questioni fondamentali, che pongono a tema la processualità stessa di ogni dinamica di globalizzazione, sottolineandone così il carattere situato e dunque limitato. Si tratta di domande che, come ci mostra magnificamente Hans Lindahl nel suo Linee di frattura della globalizzazione (2017), re-inscrivono l’ineludibile esperienza del limite proprio là dove meno ce la si attenderebbe, e che chiedono cose semplici come: globalizzazione a partire da dove, compiuta da chi e a beneficio chi?
Eppure, come ho poc’anzi anticipato, il discorso di Heidegger non esibisce solo questo versante, tale da farne un alfiere filosofico del prospettivismo del visibile. Nella sua stessa impostazione fenomenologica mostra invece e sorprendentemente anche contrapposte inclinazioni.
Solo qualche anno più tardi, rispetto al corso universitario appena citato, Heidegger dà alle stampe il frammento filosofico che lo inserirà a pieno titolo fra i grandi pensatori dell’intera tradizione filosofica occidentale: Essere e tempo (1927). Senza dubbio, questo scritto porta avanti e approfondisce ulteriormente molte delle nozioni fondamentali precedentemente introdotte e teorizzate. E tra queste compare senz’altro anche la struttura fenomenologica secondo cui ogni apparizione si articola entro contesti limitati di significato mediate la dinamica del “qualcosa in quanto qualcosa”. Allo stesso tempo, Heidegger compie però almeno altri due passi decisivi che solo apparentemente suffragano e si allineano con la visione di una contingenza del visibile. Realmente essi lasciano emergere invece tutta l’aspirazione tesa a quell’assolutismo della visibilità, di cui parlavo sopra.
In primo luogo, proprio nel paragrafo dedicato alle premesse metodologiche del suo discorso fenomenologico (il celebre § 7), Heidegger non si accontenta più di parlare soltanto di apparizione, ma introduce una bipartizione gerarchica secondo la quale ad una manifestazione solo apparente, superficiale e incompleta di qualcosa – definita nei termini di Erscheinung – viene contrapposto un livello più profondo, genuino e compiuto – piano della manifestazione vera e propria, che egli contrassegna con il termine di Phänomen. Va da sé che, esattamente in quanto più originario e profondo, un tale piano della visibilità non può che rivelarsi, a tutta prima, nascosto e sottratto ad una prima apprensione superficiale delle cose. La posta in gioco che, pertanto, si dispiega per l’approccio fenomenologico heideggeriano è quella di articolare il passaggio dal livello derivato e parziale della visibilità a quello primordiale e più essenziale. Come questo passaggio debba avvenire e di quali elementi strutturali debba comporsi non è questione che può essere qui tematizzata. È sufficiente, però, già soltanto rilevare il fatto che Heidegger giunga a proporre una tale gerarchia e prospetti un siffatto percorso verso l’essenza per avanzare il sospetto di un’aspirazione a un’apprensione unitaria e totalitaria nei confronti del visibile. Correlativamente, l’ulteriore sospetto che si può avanzare è che tale gerarchizzazione fenomenologica, alla stessa stregua di Hegel, comporti anch’essa necessariamente la pretesa di un’installazione privilegiata nel luogo del fondamento, nel segreto ultimo delle cose, con le inevitabili ripercussioni politiche di stampo totalitario-immunitario.
Ora, se ci si chiede il motivo per il quale anche in Heidegger avvenga un tale scivolamento nell’assoluto, probabilmente una risposta può essere rinvenuta in quello che io ritengo essere il secondo passo decisivo che si materializza nelle pagine dell’opus magnum del 1927: la re-iscrizione ontologica stessa del progetto fenomenologico. In Essere e tempo, Heidegger, difatti, non si accontenta più di articolare la sua proposta sul solo piano della manifestazione – come è il caso fino all’inizio degli anni Venti –, ma la colloca invece sul piano del fondamento d’essere della manifestazione stessa, che egli considera sia stato dimenticato dall’intera tradizione metafisica. In tal modo, attraverso questo suo gesto di critica totale nei confronti dell’intera tradizione dell’Occidente, che avrebbe obliato l’essere nel suo carattere di sottrazione all’ente, Heidegger non può far altro che definire simultaneamente l’essere stesso come originariamente invisibile rispetto all’“innanzitutto e per lo più” visibile e a porlo come posta in gioco finale di uno speciale cammino filosofico che impone proprio il superamento del piano derivato e contingente delle apparenze prospettiche e plurali.
Come è noto, questo atteggiamento critico totalizzante di Heidegger nei confronti dell’intera storia della filosofia occidentale si inasprirà sempre più a partire dalla sua produzione degli anni Trenta con quella che lui stesso chiamerà distruzione della metafisica e tentativo di un suo superamento. Di pari passo, anche i termini della soluzione filosofica da lui prospettata incrementeranno sempre più nel loro carattere di assolutezza, sfociando in una visione dell’essere come dinamica di nascondimento sempre più radicale e allergica a prospettive ontiche sempre troppo inadeguate, inautentiche e frammentarie rispetto alla sua semplice, unitaria e segreta ritrosia.
È qui che Heidegger, in contrapposizione alla sua giovanile impostazione fedele alla contingenza e al prospettivismo dei significati, pare prospettare, prima ancora o a prescindere dal suo scivolamento nazionalsocialista, la soluzione di una filosofia totalizzante come fenomenologia unitaria dietro il mondo e dietro la prospetticità dei significati – soluzione, questa, alla quale inerisce, per forza di cose, un posizionamento privilegiato nei confronti del fondamento rispetto al quale nulla di diverso può rivelarsi altrettanto adeguato.
Una volta anche Claude Lefort, sebbene rispetto a Husserl, si è posto la difficile domanda circa la provenienza genealogica di questo peculiare impulso a superare le contingenze prospettiche del mondo per saltar dritti alla sua presunta unitarietà: “Sarebbe senz’altro un compito formidabile”, scrive Lefort, “un compito che ancora si impone al pensiero politico, sapere almeno in parte come sia emersa, nel corso della storia, l’esperienza di un mondo oggettivo – un mondo, cioè, che è tale indipendentemente dalle esperienze collettive particolari; o ancora, nel linguaggio di Husserl, come si sia effettuato il passaggio dalla Umwelt [mondo-ambiente] politico-sociale alla Welt [mondo]” (Saggi sul politico, p. 262).
A questo quesito non vi è forse una risposta unilaterale ed esaustiva. Ma almeno questo è certo: ogniqualvolta ci troviamo di fronte allo schema gerarchico or ora evocato, quale che sia il percorso contingente, plurale e prospettico adottato, questo non potrà che apparire inevitabilmente insufficiente e insoddisfacente agli occhi di chi pretende di aver penetrato già il segreto dell’invisibile e, dunque, in fine dei conti – come direbbe un autore di canzoni – “sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”.
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