L’EROE MARGINALE: SUPEREROI E MITOLOGIA
ROBERTO EVANGELISTA
Mi colpì, qualche anno fa, una vecchia storia di Dick Tracy, nella quale un personaggio – forse proprio la fidanzata del protagonista – guardando fisso verso il lettore, al di là della vignetta, volgeva un pensiero, completamente decontestualizzato rispetto alla storia, ai ragazzi americani che combattevano in Europa. Erano gli anni ‘40 e l’idea da veicolare al senso comune dell’americano medio doveva essere quella di un esercito di ventenni che metteva in pericolo la propria vita per liberare il mondo dal nazismo. D’altra parte, nel 1941, pochi mesi prima dell’attacco a Pearl Harbor, Jack Kirby e Joe Simon, avevano dato vita per la Timely Comics (che sarebbe poi diventata la Marvel Comics) al personaggio di Capitan America. Si trattava di un super-soldato che combatteva personalmente contro i nazisti (la copertina del primo numero lo ritrae mentre prende a pugni Adolf Hitler), ma la cui arma di offesa era uno scudo. I due autori mostrarono un particolare senso del paradosso (paradosso che sarebbe ritornato in tempi più recenti, quando le guerre americane e non solo hanno preso il nome di operazioni di pace), ma nonostante la straordinaria popolarità del personaggio, non mancarono critiche da parte di settori della società americana, che all’epoca non davano per scontato che le vicende europee dovessero interessare gli Stati Uniti.
La politica è da sempre presente nel mondo dei fumetti: d’altra parte, la diffusione dei comic book vantava una capillarità paragonabile a quella dei quotidiani nazionali, e certamente – grazie alla loro semplicità – gli albi a fumetti funzionavano bene sia come semplice propaganda, sia come veicolo per messaggi più complessi o personali, anche perché si rivolgevano a un pubblico tendenzialmente giovane e non particolarmente “colto”. Nascono come vera e propria letteratura popolare, e Stan Lee – che con Simon e Kirby – condivise più di qualche processo creativo, ha contribuito a rendere questa forma popolare di letteratura più complessa e affascinante. Negli anni ’60, infatti, Lee e Kirby compiono una vera e propria rivoluzione: il loro è un lavoro che rimane insuperato, nonostante le successive evoluzioni legate ai contenuti e ai metodi produttivi del fumetto.
Con le dovute differenze, questi uomini sono stati del tutto calati nel loro tempo.
In questo senso, non si può pensare che i supereroi siano un prodotto che nasce slegato dalla realtà, così come non può essere slegato dalla realtà il fumetto generalmente inteso, soprattutto nei primi decenni di esistenza. Anche quando – negli anni ’60 – il linguaggio fumettistico fu completamente reinventato non solo nei disegni ma anche nei soggetti (è questa la cosiddetta rivouzione Marvel a opera principalmente di Lee, Kirby e di un non ancora menzionato Steve Ditko), le storie a fumetti, e soprattutto quelle più popolari, avrebbero sempre riprodotto i temi e i contenuti di una narrazione che divulgava i valori più positivi (e spesso meno veritieri) della società americana. Nessuno degli autori finora menzionati, infatti, fu un outsider ma sempre, in tutto e per tutto, calato nella realtà che gli stava intorno. Nel bene e nel male.
Nonostante questo, è una vera e propria rivoluzione quella di cui si sta parlando.
Nel 1962 la rivista antologica Amazing Fantasy, giunta al numero 15, ospita la prima avventura di un nuovo personaggio: Spider man. Nella storia, scritta da Stan Lee e disegnata da Steve Ditko, con un tratto cartoonistico e drammatico allo stesso tempo, ci viene presentato un personaggio destinato a cambiare il mondo dei fumetti. Peter Parker non è un alieno pressoché invincibile venuto dallo spazio come KAl-El/Clark Kent/Superman, né un miliardario donnaiolo come Bruce Wayne/Batman. Peter Parker vive in un quartiere operaio di New York, figlio di quella working class che non accede allo stesso livello di benessere della piccola borghesia americana, uscita vincitrice dalla guerra. Peter Parker è un orfano che vive con la zia casalinga e lo zio operaio, che si barcamena con dignità tra lavori saltuari, e che cerca di alleviare i perenni problemi economici della famiglia. Peter Parker, morso da un ragno radioattivo, ottiene forza e velocità sovrumana, la capacità di arrampicarsi sui muri e una specie di senso premonitore del pericolo. Ma questi poteri sono anche la sua condanna, perché si trova a gestire un senso di responsabilità e un senso di colpa che lo spinge sempre a sacrificare la sua vita privata, gli amori, le amicizie, e l’affermazione personale che la sua intelligenza gli avrebbe reso possibile. La rivoluzione Marvel, soprattutto a partire dagli anni ’60, mette l’adolescente americano di fronte a temi complessi, come la responsabilità, la solidarietà, l’emarginazione, ma anche l’utilizzo e l’abuso delle opportunità offerte dalla scienza. Gli avversari degli eroi creati da Stan Lee e da Jack Kirby non sono semplici “cattivi”, non hanno sete di potere, non vogliono realizzare piani complessi per dominare il mondo. Sono personalità emarginate, sofferenti, che spesso hanno avuto storie simili a quelle dei protagonisti, diventandone lo specchio oscuro e rovesciato, e che spesso ma non sempre – interpretando magistralmente lo Zeitgeist della nostra epoca – vogliono un riscatto che passa per l’illimitato possesso di denaro. Leggere uno dei primi numeri di Spider man, dei Fantastici quattro o di Daredevil, voleva dire cimentarsi con lo spettacolo del mondo, che si nascondeva dietro i colori pastello delle vignette, o dietro le battute di spirito degli eroi, ma che rivelava un portato di sofferenza e di ambiguità, e rifletteva paure collettive della cui rappresentazione la letteratura disegnata riusciva finalmente a farsi carico.
Ma gli anni Sessanta e Settanta dovevano essere solo un assaggio di quello che sarebbe venuto dopo. Piano piano, infatti, temi più complessi e sofferti entravano nelle storie dei supereroi: le proteste studentesche, la guerra in Vietnam, il consumo di massa di droghe, la libertà sessuale, sfidavano il senso comune e spesso anche il codice della censura; ma l’eroe era ancora “integro” e si ergeva come un baluardo che viveva la sua condizione di sacrifico con drammaticità: malediceva i suoi poteri, guardava la propria vita scivolargli via, ma era certo di essere nel giusto e di ricoprire con diligenza il suo ruolo, indossando una maschera per salvare il mondo, mettendo ordine morale nel caos generato da una società impazzita, che spesso lo guardava con sospetto e con odio, invece di affidarsi all’esempio della sua guida morale. Il gruppo degli X-Men, per esempio, eroi che nascevano con superpoteri e che dunque costituivano una specie umana diversa da quella dell’homo sapiens, dovevano spesso gestire le discriminazioni anche violente da parte delle persone comuni, non disposte ad accettarne la presenza; Spider Man era ricercato dalla polizia che puntualmente lo confondeva con i ladri e i criminali che si affannava a combattere; Daredevil subiva lo stesso destino, con in più la difficoltà di essere privo della vista; l’incredibile Hulk era un mostro che a differenza del suo alter-ego umano Bruce Banner non aveva alcuna coscienza di sé e delle sue azioni… gli esempi sono innumerevoli, ma tutti accomunati da un ribaltamento dell’idea dei superpoteri come un dono con cui costruirsi una vita migliore. I ragazzoni degli anni ’50 che scorrazzavano felici e liberi nei cieli delle metropoli, sorridenti e solari, avevano lasciato il posto a uomini sofferenti e costretti a gestire difficoltà superiori, come la loro natura.
Ma dovevano ancora arrivare gli anni Ottanta… fino a quando, finalmente, arrivarono.
In Europa, ma anche in America, furono gli anni del disimpegno: gli attivisti per i diritti umani, i pacifisti, i rivoluzionari di ogni Paese, guardavano a quello che rimaneva delle grandi proteste di massa, cercando di non farsi scivolare via le conquiste che gli rimanevano tra le mani, rinchiudendosi spesso in fortini più o meno privati, nei quali resistere e attendere che la tempesta passasse. Molte certezze crollavano, e anche i supereroi non passarono indenni questa catastrofe. Precursori di questo nuovo ciclo, tutto ripiegato sulla decostruzione della solidità del supereroe, sono personaggi come il Punitore o Wolverine: il primo è un reduce dal Vietnam senza nessun superpotere, se non la sua forma fisica, la passione per le armi, la rabbia per aver assistito all’omicidio della sua famiglia, e l’assenza di freni morali nell’infrangere la regola d’oro degli eroi: ovvero quella che prescrive di non uccidere mai i propri nemici; il secondo è un uomo senza passato, ridotto al rango di bestia violenta, tormentato dai ricordi frammentari delle torture subite durante un esperimento militare. Ma se dovessi scegliere un’immagine per rappresentare questo fortunato momento della storia dei fumetti, sceglierei una vignetta di Watchmen, graphic novel scritta da Alan Moore e disegnata da Dave Gibbons, che si colloca alla fine di questo ciclo, tra il 1988 e il 1990. In un futuro semi distopico, Nixon corre per il terzo mandato (evidentemente forzando la costituzione degli Stati Uniti), il mondo è sull’orlo della guerra atomica, e la società americana è preda di sommosse e proteste. Gli eroi sono agenti del governo, si sostituiscono spesso alla polizia e intervengono per sedare ogni disordine sociale. Una di queste vignette mostra due “eroi”, il Comico e il Gufo Notturno, che intervengono proprio per disperdere una manifestazione. Il Comico lo fa con inaspettata violenza e con grande compiacimento, e quando il Gufo (che rappresenta lo sguardo romantico del lettore sugli eroi del passato) gli chiede cosa sia successo al sogno americano, il Comico – brandendo il suo fucile d’ordinanza – risponde così: «si è avverato. Lo stai guardando».
Questa sequenza di vignette rappresenta il processo di ribaltamento cui sono stati sottoposti i supereroi. Da baluardo di moralità, per quanto tormentati, sono stati portati oltre il limite delle loro potenzialità, mostrando il loro lato psicotico, disturbato, sadico e violento. Sono diventati meschini, insicuri, vanitosi, a volte si macchiano di crimini anche gravi arrivando a confondersi con i criminali che giurano ripetutamente di combattere; hanno ceduto alla rabbia, hanno mostrato tutte le debolezze dell’uomo comune, esprimendole all’ennesima potenza. Dovranno scavare nell’abisso della loro anima, arrivare in fondo ai loro personali inferni, prima di tornare ad atmosfere più solari. Autori come Frank Miller, Alan Moore, Chris Claremont, e più tardi John Marc DeMatteis e Marc Waid (ma con questi ultimi siamo già negli anni Novanta) rivoluzionano la figura dell’eroe rivoltandola da capo a piedi e mostrandone gli angoli più nascosti. Dopo di loro – ancora una volta – lo sguardo del lettore nei confronti degli eroi sarà più disincantato, meno meravigliato. Il lettore che si trovava di fronte alle prime storie di Daredevil, dell’Uomo Ragno o degli X-Men, condivideva il dramma dei protagonisti, parteggiava per loro, sperava che Matt Murdock trovasse il coraggio di dichiararsi all’amata Karen Page, che Peter Parker avesse il riconoscimento che meritava, o che i mutanti fossero accettati dall’homo sapiens per costruire una convivenza che avrebbe significato un avanzamento per l’umanità; era facile porsi dal loro punto di vista, perché in fondo negli eroi ogni lettore doveva vedere qualcuno simile a lui. Dopo la riscrittura del ruolo stesso del supereroe, invece, aprire un albo a fumetti significava entrare nella mente contorta e provata di uomini non comuni, che si ponevano al di là di tutto ciò che consideriamo una vita normale, anche delle più elementari convenzioni morali.
Ancora una volta, sarà la politica a tentare di ristabilire un ordine in cui questa enorme e confusa matassa avrebbe trovato il suo bandolo…
Voglio chiudere queste righe riferendomi a una delle autrici più controverse della storia del fumetto: Ann Nocenti. La Nocenti ebbe il difficile compito di prendere le redini della testata dedicata a Daredevil dopo la lunga gestione di Frank Miller. Quali altre potenzialità potevano essere sviluppate del personaggio, dopo quella che fu una vera e propria riscrittura, con l’introduzione di nuovi e affascinanti comprimari, e con il disvelamento di una personalità complessa e sfaccettata? Ann Nocenti, attirandosi più di qualche critica, prende in mano il personaggio e riesce a farlo diventare meno ombelicale, calandolo in una dimensione collettiva, in cui il vero protagonista è il quartiere popolare in cui vive e opera, la città con il suo carico di disagio sociale e di violenza, le paure e le fragilità collettive rappresentate dall’emarginazione, la prostituzione, lo spaccio e la diffusione di stupefacenti, il razzismo e le discriminazioni di genere, e i tentativi di resistere a tutto questo. Il Daredevil della Nocenti, è un eroe che sbaglia, che non è in grado di operare da solo, ma che si muove tra centri autogestiti di assistenza alla povertà, tra sedi di attivisti per i diritti sociali, parrocchie di strada e reti e comitati di cittadini. Tutto questo, affiancato dall’amata Karen Page, la cui personale discesa agli inferi e redenzione meriterebbe una capitolo a parte, per riflettere anche sul mutamento del ruolo dei personaggi femminili nell’universo Marvel e nei fumetti in generale. La Nocenti fa scontrare i suoi personaggi con le contraddizioni e i limiti di un’intera società, e il conflitto non è più solo interiore, ma si sviluppa all’esterno, perché dall’esterno proviene. L’eroe torna a essere un uomo o una donna normale, fragile anche quando utilizza i suoi poteri e le sue abilità, perché più fragile e sfilacciato è il legame sociale che tiene insieme gli individui.
Se la mitologia è un racconto collettivo che ci mette di fronte – di volta in volta – alle trasformazioni che la nostra comunità e la nostra società può subire, e se ha il compito di indicarci una strada, anche impossibile e meravigliosa, per sfruttare al meglio le nostre potenzialità, allora il fumetto è una delle forme che assume la mitologia nella nostra epoca. Certo, siamo abituati a pensare al mito come un racconto anonimo proprio perché collettivo, ma nella misura in cui rappresenta temi sentiti da un’intera comunità, in fondo, il nome dell’autore è meno importante di quanto siamo abituati a pensare. In fondo Stan Lee, Frank Miller, Alan Moore, Ann Nocenti, come qualsiasi scrittore o artista, non fanno altro che dare concretezza a un sentire comune, si “limitano” a trasformare in carta, colori e inchiostro le storie che scriviamo tutti noi, semplicemente guardando e interpretando il mondo. Certo, siamo abituati a pensare al mito in relazione a un rito che lo riproduce, ma la serialità delle storie è forse la forma contemporanea della ritualità. Quando la fidanzata di Dick Tracy porta lo sguardo oltre la pagina per volgere il suo pensiero ai giovani soldati impegnati in Europa, sa che si sta rivolgendo – contemporaneamente – a milioni di persone. Ma soprattutto, ora che abbiamo celebrato la nascita, la caduta e la morte degli eroi, non ci resta che leggere per trovare una risposta diversa: se fino ad ora gli artisti hanno provato a dare la forma giusta alle fantasie, prima o poi verrà il giorno in cui saremo costretti, da lettori, a dare la forma giusta alla realtà.
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