L’OBBEDIENZA CHE CI MANCA E LA DISOBBEDIENZA CHE DILAGA
L’obbedienza può avere diversi e molteplici significati e quindi tante e contrapposte motivazioni. Si può obbedire per paura, per convenienza o anche per troppo amore. Fondamentalmente ci possono essere due forme di obbedienza: una “passiva”, propria di chi subisce il comando o la volontà di un altro in un regime di coercizione, e una “attiva” che è propria di chi il comando al quale obbedisce lo accetta in modo consapevole, per scelta e per convinzione, perché in esso si identifica, trasformando il comando da coercizione esterna in ideale interno. L’obbedienza passiva presenta i caratteri della costrizione, la necessità di adeguarsi ad un comando senza alcuna idealizzazione né margine di libertà o di riflessività. L’obbedienza attiva è propria di chi è disposto a giocarsi la vita in nome di un ideale in cui crede, giusto o sbagliato che sia. L’obbedienza attiva presuppone un processo oggi poco praticato quale l’idealizzazione che passa attraverso l’interiorizzazione della norma.
Inoltre, bisogna ribadire che obbedienza e disobbedienza non si escludono. Infatti è nostra convinzione che come ad ogni atto di obbedienza si correla contemporaneamente un atto di disobbedienza, per cui mentre si obbedisce a qualcuno si disobbedisce a qualcun altro, allo stesso modo ad ogni atto di disobbedienza si correla un atto di obbedienza. Questo significa che ad essere attiva o passiva non è mai solo l’obbedienza o la disobbedienza, ma tutte e due combinate insieme.
Ora, alla luce di tali premesse, viene da chiedersi quale forma di obbedienza/disobbedienza sia dominante oggi, nell’era dei social e delle chat-line caratterizzato dalla liquidità sociale. La nostra tesi è che se da un lato a mancare è l’obbedienza/disobbedienza attiva, dall’atro a dilagare è invece l’obbedienza/disobbedienza passiva.
Per discutere tale tesi ci limiteremo ad analizzare alcuni dei caratteri che connotano il modello attivo, facendo emergere per contrasto quelli propri della seconda.
Obbedire è un evento di libertà. Il primo ingrediente dell’obbedienza attiva è che essa è il frutto di un atto di libertà, per cui si può dire che solo chi è libero può obbedire davvero. Non solo si obbedisce liberamene ma si obbedisce al stessa libertà e in nome di essa. Questa libertà di obbedire mentre si declina come obbedienza a qualcuno allo stesso tempo si declina come disobbedienza a qualcun altro. Ogni atto di obbedienza è allo stesso tempo un atto di disobbedienza. Mentre si è liberi di obbedire in nome di un ideale si è anche liberi di disobbedire a una istanza che le è contraria. La libertà di obbedire è la stessa che ci autorizza a disobbedire. E a farlo contro coloro che temono la libertà di chi invece è capace di farlo. Tra i tanti esempi che ci sono stati nella storia vi è anche quello descritto negli Atti degli apostoli (5,27-33) dove si narra l’episodio in cui Pietro e i suoi amici disobbediscono al divieto imposto dai capi del Sinedrio di predicare. Pietro risponde “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. E’ un gesto di libertà e anche di rottura tramite il quale mentre disobbediscono agli uomini obbediscono a Dio. Gesto di una libertà interiore che va al di là di ogni conformismo o convenienza. L’obbedienza è quindi un atto di “libertà da” e di “libertà di”, in vista di una “libertà per”. Paradossalmente si è liberi di obbedire proprio quando si è liberi di disobbedire. Noi tutti siamo sempre in mezzo a due atti di obbedienza e di disobbedienza.
Obbedire è un evento di alterità. Qui obbedire non è negare la propria volontà, non è alienarsi, ma al contrario trovare nella volontà di un altro il compimento della propria. Come si sa obbedire viene dal latino “ob-audire”, e significa ascoltare, sentire l’altro. L’obbedienza è un evento di alterità perché ospita dentro di sé le istanze dell’altro. A partire da quell’altro che si oppone a quella parte di noi che vi resiste. Si obbedisce anche a se stessi quando questo mio me stesso mi comanda in nome di un’alterità rimossa proprio dentro di me. L’obbedienza passa attraverso il conflitto, lo scontro tra due parti di me che non sono in armonia. Per questo non è facile né spontaneo obbedire. L’obbedienza esige rinuncia, distacco, catarsi. Non si improvvisa. Ecco perché a obbedire per scelta sono soltanto pochi. Infatti, devo costringere quella parte di me ad adeguarsi ad un’altra parte di me. La filosofia ha sempre visto questo conflitto come uno scontro tra la ragione che comanda e che esige obbedienza e la parte istintiva che si ribella, con in mezzo la volontà che deve scegliere. L’obbedienza, in tal caso, mi rappacifica, mi unifica, mi riconcilia con me stesso. Vi è però una legge importate a riguardo: nessuno può obbedire ad un altro da sé se non è in pace con tutto se stesso. Nessuno può obbedire ad un altro se non obbedisce al proprio sé come primo altro. Questo significa che nessuno si può frapporre tra me e me.
Obbedire è sempre un evento personale e solitario. Platone ci racconta nella sua Apologia di un Socrate che obbedisce alle leggi in nome delle quali i suoi giudici lo accusano. Socrate resta vittima della sua stessa obbedienza. Ma resta anche libero di aderirvi. Per questo l’obbedienza è un atto di padronanza o meglio di autodeterminazione. Non la padronanza del dominio, ma la padronanza di sé che si fa consegna, esposizione. Questa a sua volta è figlia della sua saggezza che gli deriva dal suo filosofare. Ed egli lo fa in nome di quella giustizia nella quale ha sempre creduto e che proprio con questo suo ultimo atto di obbedienza vorrebbe fare rimbalzare. Obbedisce al demone e al suo “dio” interiore piuttosto che all’interpretazione che di quelle leggi i governanti del suo tempo avevano dato. Socrate rimane solo. Ha tutta la città contro. Anche Gesù obbedisce al Padre e quando lo fa rimane solo. Lasciato solo accetta la solitudine come prezzo per aver obbedito a una volontà che altri non capiscono. L’obbedienza implica sempre una quota di incomprensione da parte della folla. Una forma di isolamento rispetto anche a chi fino a quel momento ha creduto nella sua lotta e nella sua causa. E quindi anche dubbi circa il fatto che sia giusto farlo rispetto alla maggioranza che invece non condivide la sua scelta, L’obbedienza è sempre un fatto di minoranza. Si resta soli perché si è lasciati soli da tutti coloro che fino a un certo punto erano dalla tua parte, Gesù è lasciato solo anche da colui al quale sta obbedendo, perché il gesto dell’obbedienza non si commisura a quanto di evidente essa realizza. L’obbedienza è un seme che matura solo nell’orizzonte del futuro.
Obbedire è un evento legato alla propria coscienza. L’obbedienza attiva non è mai un fatto collettivo, non è mai un evento di massa. La massa non è mai attiva, ma sempre passiva. La massa non obbedisce, esegue. E lo fa perché è manipolabile. Lo fa per imitazione e non per scelta. Eseguire un ordine non equivale a obbedire. All’esecuzione manca la riflessività e la consapevolezza. Manca l’interiorizzazione che solo la coscienza permette. E nella coscienza si è soli con se stessi. Forse neanche in compagnia di colui al quale si vuole obbedire, per il solo fatto che chi ti chiede di farlo non si frappone tra te e te nell’atto della tua decisione. Basti pensare anche ad Abramo che, come ci ha ricordato Kierkegaard, obbedisce al comando divino senza avere l’assistenza di quel Dio al quale sta obbedendo sacrificando suo figlio Isacco. L’obbedienza è un atto intimo che coinvolge lo spazio più sacro di cui disponiamo: la nostra coscienza. Luogo doloroso e silenzioso in un cui il prezzo da pagare potrebbe essere anche la morte, la coscienza con la mia obbedienza mi eleva al di là della stessa obbedienza. Non c’è tempo per identificarsi o immedesimarsi in una idea o in una causa, e quindi per autoesaltarsi e autocelebrarsi tramite un perfezione che si è finalmente raggiunta. Se fosse così cadremmo nella critica che della morale ha fatto Nietzsche. No! L’obbedienza non passa per la gloria. Non è esaltazione. Se lo fosse sarebbe una forma mascherata del potere a cui si disobbedisce. Al contrario, l’obbedienza è un atto di grande umiltà. E riesce a perdonare anche chi in quel momento mi sta mettendo a morte. Con l’obbedienza io divento signore della mia morte mentre amo la vita, Al contrario chi mi manda a morire non si mostra degno non solo della vita ma ancora più di questa mia stessa mia morte.
Obbedire è sempre un atto politico e sociale. L’obbedienza è un atto con cui, seguendo le indicazioni della prima formula dell’imperativo categorico di Kant, ci si eleva al livello di un legislazione universale. L’obbedienza è un atto di universalizzazione del singolo. Atto con cui ciascuno esce dal proprio io e dal proprio capriccio. Un atto di autotrascendenza con il quale si passa dal primato del proprio io alle istanze del Noi. L’io, obbedendo si trascende. Si è detto al primo punto che l’obbedienza è un evento di alterità. Ma viene da chiedersi: “quale alterità? La risposta è una sola: si tratta dell’alterità del Nomos, di ciò che ha il diritto a ergersi a istanza della Legge, la quale travalica sia le circostanze contingenti del momento storico sia le persone che, in tale momento, non sono capaci di rappresentarlo in modo adeguato. Il Nomos è l’Altrove fondativo da cui ogni legge umana trova la sua legittimazione ultima. E il Nomos, kantianamente parlando, è l’universale che è in noi, è sempre Nomos comunitario a cui ogni singolo è legato. Prendendo in prestito le parole da Levinas, si può dire che il Nomos universale si trova scritto nel volto singolare di ognuno visto come membro di una comunità che lo rappresenta. E così l’obbedienza al Nomos è obbedienza a quel limite che esso pone all’esercizio della nostra libertà. L’obbedienza divenga così un atto di responsabilità. Il Nomos introduce la misura per evitare ai singoli la hybris che potrebbe introdurre, anziché la “forza della legge”, la “legge della forza” che Hobbes vede come responsabile del “Bellum omnium contra omnes”, cioè della “Guerra di tutti contro tutti”. Di questo Nomos si fa garante la ragione, sempre che non la si narcotizzi con ragionamenti capziosi e ideologizzanti. Nomos che esige l’obbedienza come segno di quel rispetto che ogni individuo deve al Noi comunitario.
Concludendo. Mancando tutti questi ingredienti è chiaro che oggi ci manca l’obbedienza/disobbedienza necessaria a rovesciare gli ordini costituiti. Infatti, a ben vedere, pare che ci sia molta disobbedienza e poca obbedienza. Un primo fenomeno da registrare è l’avvenuta dissociazione tra obbedienza e disobbedienza. Come infatti manca una obbedienza attiva capace di generare una altrettanto disobbedienza attiva, allo stesso modo domina una disobbedienza passiva che genera una correlata obbedienza passiva. La conseguenza è che nuovi imperativi e nuovi comandi imperversano nei canali della nuova comunicazione mediatica e non solo. Se guardiamo bene le cose, ci si rende conto che questa disobbedienza dilagante non è che una forma celata di obbedienza indotta: non certo quella attiva da noi descritta sopra, ma quella passiva, Si tratta di una obbedienza goliardica, depravata, oscena, amorfa, la quale non ha nessuno dei caratteri descritti sopra. Non ha la libertà, né celebra l’alterità. E ancor meno è intrisa di umiltà o manifesta segni di responsabilità. Non ha come suo luogo la coscienza ma lo spazio osceno di una gratuita visibilità dove tutto è esibibile ed esposto ad uno sguardo mercificante.
Al contrario di quella attiva, l’obbedienza dilagante di oggi, in quanto passiva, si presenta comoda, opportunistica, omologata, mercificata, consumistica, edonistica, asservita ai capricci costruiti ad hoc da parte di chi ha paura delle disobbedienze intelligenti. Lo scopo è dominare le coscienze cioè i luoghi dove, se si dovesse lasciare spazio alla riflessività, si genererebbero processi di disobbedienza critica e intelligente, riappropriante, partecipata e saggia, costruttiva e non compulsiva. Lo scopo non è solo controllarla ma continuamente riprodurrla. L’obbedienza passiva oggi dilagante si presenta inoltre anche come atrofica e apolide e perciò impolitica e apolitica. Egoistica e fortemente narcisistica, molto individualistica e per nulla comunitaria. Devastante, dispersiva, e, in definitiva, distruttiva. Mortifera non solo rispetto al presente ma ancor più nei confronti del futuro.
Questa forma di obbedienza risulta comprata, mercificata da chi invece ha paura di quanti, con la loro obbedienza/disobbedienza attiva, coscienziosa e critica, potrebbero cominciare a mettere in discussione le logiche dominanti, scardinando in tal modo i poteri istituti e costituiti, che a loro volta si sono sedimentati in sistema che impone ed esige proprio questa forma di disobbedienza obbediente.
L’obbedienza che forse ci manca è quella che troviamo in quei pochi veri disobbedienti, i quali, resistendo alle seduzioni del potere mascherato di un falso e illusorio benessere esponenziale, appunto a-nomos, ancora riescono ad obbedire a quel Nomos che sa farsi Ethos in nome di un Logos che non solo illumina le nostre deboli ragioni affinchè non abdichino del tutto, ma che ancora è capace di dare anche Pathos alle nostre azioni, alle nostre scelte. Alle nostre visioni.
Un Nomos per il quale vale la pena morire di quella morte che unicamente ci rende ancora signori della nostra stessa morte.
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