PER UNA SEMANTICA DELL’UBBIDIENZA: IL CASO EICHMANN

WCCOR1_0ICRY4LR-k84C-U43290924095608bu-768x576@Corriere-Tablet_desktopSILVIA D’AUTILIA

11 Aprile 1961. Presso la Corte distrettuale di Gerusalemme, ha inizio il processo ad Adolf Eichmann. Catturato in Argentina dai servizi segreti israeliani, viene portato in giudizio per rispondere di crimini contro l’umanità, ovvero di crimini contro il popolo ebraico durante il nazismo. Nella fattispecie, all’interno del regime nazista, Adolf Eichmann è l’esperto dell’organizzazione logistica, degli espatri degli ebrei, degli spostamenti da un territorio all’altro e soprattutto da un lager all’altro del Reich. Quando nel 1942 viene progettata la Soluzione finale, diventa il coordinatore vero e proprio delle deportazioni, colui che si occupa nel dettaglio che i vagoni dei treni vengano riempiti di ebrei da spedire ad Auschwitz.

Come si capisce, Eichmann non fu la mente e l’artefice dell’iniziativa, ma un ubbidiente esecutore in concorso con altri. Sarà proprio questa la difesa che lui stesso farà valere nel processo: non poteva esimersi dal compiere il suo ruolo, in virtù di un giuramento che lo legava ai suoi superiori. Eichmann sposta in sostanza l’accento sulla moralità della sua ubbidienza e da questa giustificazione prende avvio un dibattito mediatico ancora vivo negli anni.

Era colpevole o ha solo ubbidito ai suoi superiori? Fino a che punto si può legittimare un’ubbidienza, se rifiutandola si avrebbe la certezza di pagare un alto prezzo? Nel celebre saggio La banalità del male, Hannah Arendt ha cercato di ragionare su questa costellazione di problemi, individuando nell’ignoranza, e non tanto nella meditata volontà di compiere mostruosità, il fulcro del male connesso alla Shoah.

D’altronde, anche dal profilo di Eichmann che la Arendt ricostruisce emerge un uomo mediocre, abituato a vivere all’ombra degli ideali altrui, senza particolari capacità critiche o autocritiche. Tratti psicologici che se da una parte ben si contestualizzano con il suo esplicito rifiuto della responsabilità personale, dall’altra innescano il problema della definizione dei ruoli. Come individuare gli autori primi e pienamente responsabili di fronte a una schiera di meri burocrati intenti “solo a fare il loro lavoro”? Come trattare il concetto di “colpa” in un mosaico di funzioni e competenze, in cui ognuno risponde del suo, ma non del disegno complessivo? Certo, la questione rimane irrisolta, ma la Arendt non può fare a meno di elevare Eichmann a “gigante dell’ubbidienza” miope, se non completamente cieco, verso le mezze misure comprese tra la moralità dell’eseguire e l’immoralità del rifiutarsi. La sua, assieme a quella di molti altri, sarebbe stata una superubbidienza che non lascia spazio a momenti di messa in discussione delle proprie corresponsabilità col crimine. Un non-uomo che, anziché assumersi la responsabilità dei suoi “no”, preferisce accondiscendere agli ordini. È questa la banalità del male: l’anteposizione, all’interno della macchina sociale, del proprio ruolo ovvio e automatizzato su qualsiasi operazione di analisi e autocritica. A partire da questo passaggio entrano in gioco una serie di aspetti da passare al vaglio, non prima di aver compiuto un doveroso passo indietro.

A voler prendere in considerazione il concetto di “ubbidienza”, non è possibile prescindere da quell’ipotesi di genesi della società chiamata “contrattualismo”, con l’ambizione di fare luce sul passaggio dei popoli dallo stato di natura a quello di civiltà. In un ipotetico e originario stato di natura gli esseri umani avrebbero goduto di libertà pressoché totali e ciascuno, dunque, poteva rappresentare un pericolo per il suo simile: homo homini lupus”, per dirla con Hobbes; resisi presto conto di questa condizione di vita insicura, preferirono rinunciare alle loro libertà illimitate e sottoscrivere un patto sociale, cui ubbidire e sottostare, al fine di salvaguardare la tutela di tutti.

Il Leviatano di Hobbes, il Secondo trattato sul governo di Locke e il Contratto sociale di Rousseau sono generalmente i testi cardine di queste riflessioni che collegano la nascita e lo sviluppo delle moderne società civili con la costituzione di un patto di reciproco impegno tra governanti e governati.

Oggi, nelle società civili, chi non si attiene alle norme del contratto sociale, deve rispondere della sua disubbidienza, assumendosi, davanti al resto dei contraenti, la diretta responsabilità delle sue azioni.

È a questo fine che, come Foucault insegna, si sono moltiplicati nel tempo i dispositivi di potere funzionali a far sì che il rispetto delle norme si snodi in automatismi impercettibili nella vita dei soggetti: dalla scuola al lavoro, dalle istituzioni punitive a quelle curative, dai rapporti di subordinazione sociale a quelli professionali, l’ubbidire si è sbriciolato in una serie di azioni para-coscienti, delle quali gli individui stentano a riconoscersi responsabili. L’ubbidienza è divenuta cioè più un ingranaggio meccanico che un’azione meditata e deliberata. “Nell’orizzonte di questa seconda modernità, la contrapposizione non è più tra l’uomo e l’animale, ma tra l’uomo e la macchina”, ha scritto Frédéric Gros nel suo Désobéir tradotto e arrivato in Italia proprio quest’anno per Einaudi. La provocazione a questo punto è la seguente: dovremmo cominciare a pensare che la vecchia morale della responsabilità sia stata rimpiazzata da un’ubbidienza trasversale e automatizzata?

C’è nel verbo ubbidire, fin dalla sua etimologia (dal latino audire “ascoltare” col prefisso ob- che segnala il riferimento all’interlocutore che ci troviamo davanti), una semantica del prestare ascolto, del rivolgere l’attenzione alla parola di un altro. Come si sa, nella nostra lingua il significato è andato oltre: ha travalicato lo stadio dell’ascolto per porre l’accento sull’uniformazione dell’agire al volere altrui. Un’evoluzione non solo di tipo semantico ma anche psicologico. Una cosa è rivolgere l’attenzione a qualcuno, tutt’altra è far aderire il nostro comportamento alle sue parole. Cosa è accaduto dunque nel mezzo? E come motivare questo slittamento? La risposta non può che essere di tipo sociale e fare diretto riferimento a quelle situazioni nelle quali la relazione con l’altro assume una configurazione evidentemente asimmetrica: l’altro non è un pari, ma un superiore, un potere esplicito, un riferimento istituzionale, a seconda degli scenari. Una relazione che funziona al prezzo dell’inferiorità di una delle due parti. Si è usato il termine “funziona” non casualmente, ma per alludere al fatto che l’asimmetricità della relazione si compie solo e soltanto nella condizione in cui al cosiddetto “superiore” venga riconosciuto un qualcosa in più, in forza del quale tramutare l’originario prestare ascolto in una sottomissione vera e propria. Quello che è dunque intervenuto a fare la differenza e a giustificare lo slittamento di senso è il principio d’autorità. Un dominio che per affermarsi deve essere riconosciuto, e non necessariamente tramite un atto consapevole, tramite un riconoscimento attivo potremmo dire, ma anche attraverso un processo passivo di acquiescenza placidamente accordata.

A fronte della contrapposizione tra ubbidienza attiva e passiva si sarà forse compresa l’attinenza col caso Eichmann. Non solo Eichmann, in sede di processo e con la formula particolare della sua apologia, svalorizza l’importanza della messa in discussione dei suoi atti, in virtù – a suo dire – di un’ubbidienza assolutamente necessaria, ma anche si autoassolve per non pagare il dazio del confronto con la sua coscienza. Deferisce le responsabilità a un’autorità superiore contro la quale “nulla poteva”. La sua sottomissione era così inevitabile da averlo anche simultaneamente sgravato da qualsiasi significazione delle sue azioni.

Il grande clamore del dibattito culturale, giuridico, filosofico e politico immediatamente accesosi sul caso Eichmann ha avuto almeno tre ordini di discorso da rielaborare. Primo: più che aver ubbidito con cognizione, Eichmann lo ha fatto per non venir meno a un giuramento. Secondo: così facendo, Eichmann ha preferito salvaguardare il compimento del suo operato piuttosto che la condizione di soggetto responsabile delle sue azioni; ovvero: non avrebbe mai accettato di essere un ingranaggio malfunzionante della macchina nazista. Terzo: dalle sue parole è implicito che gli orrori derivanti dalla sua ubbidienza non avrebbero mai potuto essere confrontati con le decisioni dei suoi superiori. Un boccone davvero amaro da ingoiare. Un attacco su più fronti alla logica del contratto sociale inteso come scheletro dei nostri valori civili, etici e politici.

La cornice in cui viviamo può richiedere un’ubbidienza così ferrea da confliggere e collidere aspramente con la nostra condizione di persone libere e responsabili? Eichmann è sotto accusa a posteriori, una volta che è stato delegittimato il potere nazista; mentre, a regime nazista funzionante, non ha fatto altro che uniformarsi alle sue regole. Prima di essere colpevole per aver ubbidito, è reo di non aver voluto dare un valore alla sua ubbidienza. A ben guardare, quello che il caso Eichmann insegna (e ricorda) è la presenza di un potere della coscienza ben al di là dei principi politici che regolano le nostre vite. Un potere che certamente, ponendo il soggetto in scacco rispetto al suo contesto di appartenenza, non fornisce alcuna certezza di autoassoluzione, ma quanto meno evita il naufragio sicuro delle facoltà umane di discernimento.

Si replicherà dicendo che il nazismo, in quanto dittatura, ha rifuggito da qualsiasi logica di sottoscrizione del patto sociale, ovvero si è imposto sulle vite del popolo tedesco in modo aggressivo e autoritario, e sarei  ovviamente d’accordo con quest’obiezione, se non altro per salvare il volto partigiano del momento storico, ma si sarà compreso che se c’è un filo conduttore nella presente argomentazione è l’immedesimazione in Eichmann: vestire i suoi panni significa comprendere il perché del suo operato senza accontentarsi della banale risposta: “era un criminale”.

E se si fatica così tanto a mettere un punto al caso Eichmann è forse perché in questo processo d’immedesimazione che analizza la contrapposizione tra il soggetto e il suo contorno politico è inconsciamente pungente l’interrogativo su cosa avremmo fatto noi al suo posto. Un’eco rumorosissima arriva fino alle odierne dinamiche di acquiescenza diffusa e distratta verso le sempre più nette differenziazioni socio-economiche che oppongono un benessere smisurato a un’indigenza intollerabile.

Eichmann è divenuto nei nostri immaginari culturali il prototipo dell’uomo che ubbidisce fino a indicazione contraria, e si capisce quanto il discorso sia di ordine qualitativo: non è tanto in gioco l’ubbidienza persistente, ma l’ubbidire a prescindere, in quanto categoria esistenziale che ci pone di fronte a una sorta di assenza del proprio sé. In questa cancellazione della volontà, il soggetto si autotrincera nell’istituzione del volere altrui, evocando così, seppure da uno scenario completamente diverso, le riflessioni sull’istituzionalizzazione che Goffman aveva raccolto nel suo Asylums, uscito per singolare coincidenza nel 1961, lo stesso anno del processo Eichmann. Goffman descrive la condizione del ricoverato all’interno delle cosiddette “istituzioni totali”, parlando dell’ubbidienza come l’apice della “carriera” dell’internato. L’autorità dell’“istituzione totale”, come costruzione sociale completamente  “inglobante”, richiede ubbidienza, poiché certifica l’inesistenza di qualsiasi altra scelta. Ecco il senso di quello slittamento semantico del verbo ubbidire.

Se i ragionamenti fin qui condotti sono risultati chiari, si comprenderà in che senso, per concludere, s’intende affermare che non è certo la disubbidienza il contraltare di una condotta ubbidiente. Libertà e sottomissione  non sono, come si è abituati a pensare, giocatori antagonisti, ma piuttosto elementi di un rapporto complesso all’interno del quale la sopravvivenza dell’uno è garantita dalla negoziazione con l’altro. “La libertà non consiste tanto nel fare la propria volontà quanto nel non essere sottomessi a quella altrui”, aveva detto Rousseau.  Agire secondo la propria volontà non significa tanto mettere sul tavolo una libertà illimitata, ma soprattutto comprendere che questa non finisce laddove inizia la sottomissione al volere dell’altro: ci sono terre di mezzo fatte di crisi, ponderazioni e valutazioni. Agire nella responsabilità è un continuo rilancio della conoscenza di sé come riscatto etico e politico; è un appello alla significazione ininterrotta alla base del nostro vivere civile.

Thoreau si chiede nel suo Diario: “se non sono io chi sarà al mio posto?” La domanda è retorica e la risposta scontata: nessuno. C’è per ogni soggetto un costante e progressivo hic et nunc non rimpiazzabile altrimenti. Una sostituzione neanche pensabile. Forse, la vera e autentica forma di umanità.

DIRITTO Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE POLITICA

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