TRA FINZIONE E REALTÀ: CONTAMINAZIONE, EMANCIPAZIONE, ESITAZIONE
FERDINANDO MENGA
“Di’ pure che sono antiquato, ma preferisco tenere verità e finzione ben separate […]”.
Questa concisa affermazione, che estrapolo da una conversazione che il filosofo australiano Peter Singer intrattiene, o meglio, finge di intrattenere (particolare, questo, importante, su cui dirò qualcosa in chiusura) con sua figlia Naomi, farà da sfondo alle pagine che scandiranno il presente percorso di riflessione. Ruoterò attorno a tale affermazione a partire da diverse prospettive, non tanto allo scopo di costruire un solido discorso teorico al riguardo, quanto piuttosto con l’intento di contribuire a suscitare qualche spunto d’analisi.
- Finzione e contaminazione (col discorso di “verità”)
La connotazione di un atteggiamento “antiquato”, a cui si riferisce la dichiarazione or ora riportata – rilasciata, non a caso, proprio da un filosofo quale è Singer –, è un elemento che non deve suscitare sorpresa. “Antiquato”, in effetti, è aggettivo che richiama, qui, intimamente quella posizione “inveterata” della tradizione filosofica, che – partendo da Platone fino a propagarsi alla contemporaneità tutta – inscrive il discorso razionale entro quel graduale cammino di chiarificazione che dal falso conduce al vero e dal fittizio giunge alla realtà “in carne ed ossa” (leibhaftig, direbbe Husserl). La separazione, a cui allude sempre Singer, pare ben rievocare, inoltre, l’aspirazione cartesiana che vede l’afferramento del nucleo di verità delle cose coincidere con il raggiungimento di idee chiare e distinte. “Dis-tinguere” richiama, appunto, quella capacità di “punteggiare” e tratteggiare limiti distintivi tra le varie datità.
Tuttavia, che questa netta separazione fra verità e inganno, fra realtà e finzione, costituisca uno stato di grazia assai difficile da realizzare è già lo stesso Cartesio a metterlo in conto – e questo, per lo meno, nel momento in cui, nelle sue Meditazioni metafisiche, ipotizza l’intervento poderoso e pervasivo di un genio ingannatore (“[…] genio non meno astuto e ingannatore che possente […]”) capace di rendere indistinguibili i confini fra certezza e illusione. Ma questa complicazione, per Cartesio – come ben sappiamo –, resiste fino a un certo punto. Essa, difatti, più che vanificare la possibilità di operare ogni distinzione, nel suo percorso, risulta piuttosto funzionale a esibire la necessità di un discernimento epistemologico davvero radicale, la cui meta si rivela, invero, tanto più ambita, quanto più se ne registra la difficile conquista. Alla fine, dunque, sebbene attraverso un cammino di ricerca esposto a ostacoli e pericoli, anche Cartesio non può che ristabilire la primordiale – “antiquata”, per dirla di nuovo con Singer – alleanza con la posizione razionalistico-aletheica che inaugura e domina la tradizione filosofica occidentale.
Ma, di qui, un primo interrogativo può essere lanciato per scuotere una tale alleanza. È un interrogativo che, proprio prendendo l’abbrivio da quella che potremmo chiamare l’intromissione sintomatica dell’inganno – così come si desume dalla stessa scena cartesiana –, può contribuire a contemperare l’indiscusso valore di distinzione epistemica fra realtà e finzione attraverso quello di una loro feconda contaminazione finzionale. Si tratta, però, di una contaminazione che – si badi bene – non intende, in alcun modo, capovolgere la – e sostituirsi alla – impalcatura epistemologica stessa, ma piuttosto suggerirne declinazioni diverse e, in qualche misura, promettenti.
Per veicolare il senso di una tale proficua contaminazione, vorrei partire dal côté della finzione. Per sottolinearne la portata, opto per una sua versione dichiaratamente incisiva; oserei addirittura dire esasperata: cioè quella riconducibile alla produzione letteraria della corrente (preponderantemente) ispano-americana nota sotto il nome di “realismo magico” o “real maravilloso”. Rappresentanti di questa corrente – giusto per citare alcuni tra i più celebri – sono stati scrittori come Jorge Luis Borges, Alejo Carpentier, Julio Cortázar, Carlos Fuentes e Juan Rulfo, fino a giungere ai premi Nobel per la letteratura Miguel Ángel Asturias e Gabriel García Márquez. Nelle opere di questi autori, caratterizzate da una compenetrazione a tinte forti fra elemento reale e fantastico, non si riflette però soltanto la semplice predilezione per uno stilema sui generis, che molto ha affascinato e ancora affascina lettori di tutto il mondo. Al loro centro si articola, piuttosto, un’intenzione più radicale: quella di operare, appunto, mediante l’intrusione destabilizzante dell’elemento meraviglioso, una vera e propria critica alla visione convenzionale della realtà, in vista di una sua ri-significazione più essenziale. Ri-significazione che, per molti degli autori appena citati, assume – come ben sanno i fruitori dei loro scritti – un tenore spiccatamente politico, che va dalla critica all’egemonia culturale di stampo coloniale (che ancora fa sentire i suoi pervasivi effetti) alla spinta emancipatrice contro istituzioni tiranniche e regimi dittatoriali.
La visione alterata o spiazzante che, dunque, è messa in campo dagli scrittori appartenenti al realismo magico, attraverso quella che potremmo definire un’epoché finzionale, detiene tutt’altro che un carattere decorativo ed estrinseco o meramente fantastico. Piuttosto, è volta a creare uno spazio per la liberazione di un senso per lo più nascosto – e, per lo meno nelle pretese, più profondo – della realtà stessa. Non si tratta tanto dello “straordinario” in opposizione al “reale”, quanto piuttosto dello “straordinario” nel “reale”; lo “straordinario” che il “reale” sottende. La contaminazione semantica che l’espressione real maravilloso opera tra reale e finzionale delinea, così, un processo dinamico di tipo reciproco: la scoperta del meraviglioso nel reale e (è) la liberazione della portata reale del meraviglioso.
Il tenore di un’esperienza trasfiguratrice del genere, di non semplice trasmissione attraverso descrizioni indirette, è un qualcosa di cui subito colgono senso e portata le lettrici e i lettori di pagine come quelle che compongono titoli quali Leggende del Guatemala o Uomini di mais (di Asturias), Finzioni (di Borges), Pedro Páramo e La pianura in fiamme (di Rulfo) o, ancora, Cent’anni di solitudine (di García Marquez) e Il regno di questo mondo (di Carpentier). Nel modo seguente, ad esempio, proprio Carpentier, uno dei padri fondatori del realismo magico, ne definisce i tratti distintivi: “[…] il meraviglioso comincia a esserlo in modo inequivocabile quando sorge da un’inattesa alterazione della realtà, da un ampliamento delle scale e delle categorie della realtà, percepite con particolare forza in virtù di un’esaltazione dello spirito che porta a una sorta di “stato limite”“ (dalla “Premessa dell’autore”, in: Il regno di questo mondo, Einaudi, Torino 1990, p. VII).
Di conseguenza, per una sorta di ribaltamento, il genio a cui, in qualche modo, si riferisce Carpentier non si palesa più, come per Cartesio, nel suo aspetto malefico, fautore di visioni illusorie o mere distorsioni del reale. Al contrario, la sua opera di alterazione costituisce un aumento della portata stessa della realtà, innescando lo sprigionamento di un senso nascosto che ne amplia lo spettro percettivo consueto ed estende anche la possibilità per un’auto-significazione dei soggetti in essa immersi.
Di questa peculiare e feconda contaminazione ci offre conferma anche la penna eclettica di Paul Valéry, allorquando, riferendosi a Leggende del Guatemala di Asturias, scrive: “Niente mi è sembrato più strano, intendo più strano per il mio spirito, per la mia facoltà di percepire l’inatteso, di queste storie-sogni-poemi in cui vengono tanto piacevolmente mescolate le credenze, i racconti e tutte le età di un popolo composito, tutti i prodotti inebrianti di una terra poderosa e sempre convulsa, in cui le diverse forze che hanno generato la vita dopo avere innalzato uno scenario di roccia e humus sono ancora minacciose e feconde, come disposte a creare, tra due oceani, a colpi di catastrofe, nuove combinazioni e nuovi temi di esistenza!” (dal “Prologo” a: Leggende del Guatemala).
Se lette con attenzione, queste parole di Valéry, nell’indicare la possibilità d’inaugurazione di inediti percorsi esistenziali grazie all’apporto dell’elemento meraviglioso, lasciano trasparire un vero e proprio tenore filosofico del dispositivo finzionale. Indirizzo, questo, che non risulta essere per nulla estemporaneo e secondario. Anzi, esso ci consente di aprire un secondo côté di confronto rispetto a quella che, assieme a Singer, abbiamo delineato come netta separazione che dovrebbe vigere fra verità e finzione.
- Finzione ed emancipazione (del discorso filosofico)
Per proseguire quanto detto finora attraverso un esplicito riferimento alla prospettiva filosofica, scelgo di rivolgermi, in particolare, alla produzione di uno dei maestri della filosofia francese del secolo scorso: Paul Ricoeur.
Uno dei grandi meriti della sua proposta teorica è stato, in effetti, quello di abbandonare il primato di un accesso esclusivamente razionalistico-epistemico alla realtà. Alla centralità del soggetto, con la sua pretesa di cogliere e afferrare immediatamente l’esperienza, Ricoeur sostituisce, invece, il testo quale paradigma di possibile comprensione e significazione del mondo. Ma si tratta, appunto, di una comprensione e liberazione del senso di carattere non diretto, bensì veicolate attraverso la distanziazione stessa che il testo immancabilmente produce.
In particolare, la giustificazione dell’adozione del testo a paradigma di presa di distanza dalla e comprensione della realtà (nonché di produzione di suoi nuovi sensi possibili) può essere rinvenuta in due considerazioni riguardo all’ermeneutica del testo ricoeuriana.
Anzitutto, il fatto che Ricoeur assuma il testo – per la precisione, testo inteso come insieme dei lasciti scritti che compongono la tradizione – quale paradigma d’interpretazione della realtà e del soggetto implica, in senso radicale, un luogo d’accesso esclusivo: ciò che noi siamo stati, siamo e possiamo essere è rivelato solo per suo mezzo. Interrogare la realtà vuol dire, in tal senso, interrogare la sua produzione mediante i testi che ne registrano la testimonianza e l’esistenza. Non vi è alcuna realtà nascosta dietro il testo, dato che, se di realtà passata siamo al corrente, questa si identifica sempre e soltanto con la trasmissione testuale che la veicola. La conclusione che si evince da questa prima considerazione di Ricoeur è forte e precisa: il testo non si riduce a un ausilio secondario o mezzo straordinario mediante cui l’individuo si pone di fronte alla realtà, di contro, invece, a un rapporto privilegiato che si realizzerebbe con l’afferramento speculativo del nucleo di verità del reale. Al contrario, ponendosi proprio come entità trasversale e non funzionale di disvelamento e creazione della realtà, il testo debilita quella posizione di attivismo titanico assunta dall’essere umano, allorché pretende di avere accesso immediato all’esperienza. Al guardare e dire del soggetto si interpongono il guardare e dire del testo, in cui sono realtà ed esistenze individuali a essere custodite.
Lo sguardo spiazzante, di cui abbiamo detto in precedenza, si rivela, così, per Ricoeur, come un lasciare la parola al testo. Lo spiazzamento (o decentramento) consiste in questo: la realtà non è rimessa a noi, alla nostra prensione diretta; ma siamo noi a essere rimessi alla realtà che il testo dispiega. Il testo crea questa distanza tra noi e la realtà. Ne consegue che, se sono i nostri occhi e la nostra mente a rappresentare e a giudicare l’esperienza è perché, secondo Ricoeur, è anzitutto lo sguardo del testo a fornircene la possibilità. Come egli stesso scrive: “Cosa conosceremmo dell’amore e dell’odio, dei sentimenti etici e, in generale, di tutto ciò che chiamiamo l’io, se tutto ciò non fosse stato portato a parole e articolato attraverso la letteratura? Pertanto ciò che sembra maggiormente contrario alla soggettività, e che l’analisi strutturale fa apparire come l’orditura del testo, è il medium attraverso il quale solamente noi possiamo comprenderci” (Dal testo all’azione, Jaca Book, Milano 1989, p. 112).
Questa prima considerazione sull’ermeneutica del testo di Ricoeur articola, così, un movimento che sembra poterci già indirizzare verso un sodalizio con quanto sopra rilevato in relazione al real maravilloso: si tratta di registrare, infatti, la medesima abolizione della referenza consueta al mondo operata dalla finzione, materia del testo.
Tuttavia, una più profonda alleanza tra la filosofia ricoeuriana e il realismo magico si compie nelle righe della seconda considerazione sull’ermeneutica del testo. Ricoeur, infatti, non si limita a parlare soltanto di generale distanziazione del testo dal mondo, bensì sulla distanziazione generale – che occorre con l’adozione del paradigma del testo quale luogo interpretativo e creativo del mondo – ne innesta una particolare, allorquando considera il testo nella fattispecie di racconto di finzione. Il racconto di finzione si inserisce nel quadro ricoeuriano con queste coordinate: se il testo, considerato generalmente, presenta l’abolizione della referenza comune al mondo (prima distanziazione), il testo di finzione (racconto, novella, romanzo e poesia) stravolge in modo radicale la funzione referenziale della visione ordinaria della realtà: quest’ultima viene completamente soppressa da ciò che la finzione costituisce col suo mondo (seconda distanziazione). Ricoeur considera, dunque, il racconto (e il romanzo) quell’espressione privilegiata del testo, che consente un’ulteriore presa di distanza dal mondo mediante le variazioni stesse di mondo elaborate dalla finzione letteraria.
Questa distanziazione operata dalla finzione si incastra perfettamente nelle coordinate di quanto dicevamo sopra riguardo alla contaminazione operata dal realismo magico: come per quest’ultima, anche la distanziazione dalla realtà consueta realizzata dalla finzione ricoeuriana non implica fuga dal mondo, ma critica ed epoché finzionale nei suoi confronti. Per Ricoeur, il mondo che si dispiega nella finzione si presenta, allo stesso modo che negli scritti del real maravilloso, come possibilità di significazione più autentica della realtà. Le sue parole, a tal riguardo, valgono più di ogni commento: “La mia tesi è che l’abolizione di una referenza di primo grado, abolizione operata dalla finzione […], è la condizione di possibilità affinché sia liberata una referenza di secondo grado […]. [Quest’ultima] si scontra con quella del linguaggio quotidiano [e] grazie alla finzione […] si aprono nella realtà quotidiana nuove possibilità di essere-nel-mondo. Finzione e poesia mirano all’essere, non più sotto la modalità dell’essere-dato, ma sotto la modalità del poter-essere” (Dal testo all’azione, pp. 109-110).
In tale considerazione di Ricoeur riecheggia, quindi, la medesima intenzione sottesa al realismo magico: quella di offrire della realtà, attraverso la mediazione del testo di finzione, una riconfigurazione inaspettata e allo stesso tempo più profonda. Per essere ancora più precisi, secondo la visione ricoeuriana, è attraverso la “distanziazione davanti al testo” che il soggetto, sospeso rispetto a se stesso – e nel suo giudizio sulla realtà –, trae, al contempo, sempre mediante le possibilità finzionali stesse che il mondo del testo gli dispiega, gli elementi necessari per ricostituirsi in modo più radicale e/o inedito.
Da questa mediazione finzionale provocata dal testo ne consegue, in tal modo, una sua ricaduta inevitabilmente pragmatica: una capacità emancipatrice. Il racconto di finzione (mythos) possiede, infatti, sempre secondo Ricoeur, quella che Aristotele chiamava la capacità di ridescrizione creatrice (mimesis) dell’azione umana. In altri termini, il racconto non soltanto è imitazione dell’azione umana, in quanto ne riproduce le trame (funzione configuratrice del racconto), ma è anche dispositivo di produzione di suoi possibili modelli inediti (funzione trasfiguratrice del racconto). Così, se, da un lato, i racconti ridescrivono azioni già agite, essi dispiegano, dall’altro, possibilità potenziali di azioni da porre ancora in essere.
In tale scia, dunque, tanto dalla prospettiva esplicitamente letteraria del realismo magico, quanto da quella filosofica dell’ermeneutica del testo ricoeuriana, si giunge alla conclusione che non è la separazione, ma piuttosto la contaminazione di realtà e finzione a rivelarsi in grado di realizzare declinazioni di senso estremamente promettenti, giacché in essa si articola un potenziale critico ed emancipatore tutto da scoprire e valorizzare.
- Finzione: esposizione ed esitazione (di fronte all’animale)
Vi è, infine, almeno un’altra dimensione che può essere disvelata in ordine al rapporto che finzione e realtà intrattengono l’una con l’altra. È quanto vorrei definire nei termini di effetto d’esitazione. Per quanto un tale effetto sia già registrabile in modo latente nei primi due versanti sopra delineati – quello letterario e quello filosofico –, mi pare esso affiori in modo espresso proprio nel momento in cui è il loro rimando reciproco a diventare esplicitamente tematico.
Per veicolare un tale plesso di senso, torno, qui in chiusura, all’inizio: all’affermazione estratta dalla conversazione – o meglio, lo ricordo nuovamente, dal “finto” colloquio – di Singer con sua figlia Naomi. Ma questo non basta ancora: è necessario compiere un ulteriore passo indietro e collocare questa stessa interlocuzione nel suo contesto più generale di provenienza. La frase di Singer, in effetti, non si trova né in un’intervista filosofica da lui rilasciata e neppure all’interno di una divagazione didascalica ubicata in un suo saggio. È situata, invece, in appendice – quale parte, però, integrante – di un breve romanzo di John M. Coetzee intitolato La vita degli animali (trad. it. Adephi, Milano 2000). Ho voluto ripercorrere qui l’intera serie di rinvii contestuali, poiché – come vedremo – tali rimandi non risultano per nulla estrinseci all’effetto d’esitazione di cui mi preme parlare.
Essendo a tema un rapporto di reciprocità fra registro di finzione e registro filosofico, vi sono da individuare, qui, due versanti o direzioni che ineriscono all’esitazione.
La prima direzione può essere desunta proprio a partire dalla dimensione più ampia e contestuale: cioè il contenitore finzionale predisposto da Coetzee; o, più precisamente, il format letterario scelto per il suo scritto. È attraverso tale scelta, e nel modo in cui l’autore la declina ulteriormente, che si compone quella che mi piacerebbe chiamare una sorta d’esposizione ed esitazione finzionale nei confronti della filosofia.
Ciò che colpisce, in effetti, è che La vita degli animali, raccogliendo le due Tanner Lectures on Human Values tenute da Coetzee alla Princeton University sul tema del diritto degli animali, avrebbe potuto benissimo essere redatto – secondo la formula tradizionale di queste lectures – attraverso una prosa filosofica, cioè in forma di conferenze dal carattere squisitamente argomentativo. Per quanto riguarda, poi, l’eventuale scivolamento in imprecisioni teoriche e carenze metodologiche, Coetzee avrebbe potuto senz’altro contare sul caratteristico atteggiamento indulgente che un pubblico di addetti ai lavori è ben incline a riservare nei confronti di un ospite celebre, che si cimenta in una materia su cui non vanta competenze specifiche.
Ma Coetzee intraprende un’altra strada. Operando quella che oserei definire una sorta di presa di distanza, o dislocazione/differimento, attraverso una duplicazione finzionale, decide di redigere le due conferenze in forma di racconto e – cosa importantissima – di racconto speculare o riflettente (la sua medesima situazione). Nel suo racconto si legge, in effetti, di una protagonista, Elisabeth Costello – anch’essa scrittrice –, che viene invitata dall’Appleton College a tenere due conferenze a sua scelta. Conferenze che, non a caso, la Costello decide di incentrare non sulla letteratura, suo ambito di competenza, bensì sul tema dei crimini perpetrati contro gli animali. Per inciso, le due prolusioni, rivolgendosi precisamente agli argomenti “I filosofi e gli animali” e “I poeti e gli animali”, ben sottolineano la centralità del rapporto incrociato verità-finzione, di cui stiamo trattando.
Ora, se ci interroghiamo sui motivi per cui Coetzee predispone, rispetto al nucleo stesso del suo discorso, una tale presa di distanza, effettuata mediante rinvii a mo’ di scatole cinesi, diverse possibilità di risposta, tutte plausibili, ci si parano davanti. Da parte mia, ritengo assai promettente la chiave di lettura che inscrive un tale movimento di dislocazione/differimento entro una strategia di ricerca di una performatività della finzione che si espone, ma, al contempo, esita nei confronti del discorso filosofico. Si espone attraverso i punti di vista forti affidati alle parole stesse della protagonista. La Costello, ad esempio, non solo mette in dubbio il tradizionale primato della comprensione esclusivamente umana del mondo – “‘Mi chiedo spesso che cosa sia mai il pensiero, che cosa sia la comprensione. Siamo sicuri di comprendere l’universo meglio degli animali?’” (La vita degli animali, p. 58) –, ma giunge addirittura a veder “rivaleggiare” lo “sterminio […] senza fine” compiuto contro i viventi non-umani, in un clima di generalizzata indifferenza, con l’Olocausto commesso dal Terzo Reich ai danni degli ebrei (ivi, p. 30). Eppure, al contempo, si tratta di una performatività che esita, giacché la sollecitazione a un ribaltamento della sensibilità comune nei confronti delle violenze commesse contro gli animali si realizza attraverso un incedere che retrocede rispetto a un confronto a viso aperto con l’argomentazione filosofica. L’atteggiamento della Costello si limita, infatti, ad assumere un tono prevalentemente esortativo, immaginativo e retorico. Si raccoglie attorno a una postura spiccatamente extra-argomentativa che riecheggia – giusto per citare qualche esempio – in affermazioni come: “‘Chiunque dica che della vita importa meno agli animali che a noi non ha mai stretto fra le mani un animale che lotta per la propria vita’”; oppure: “‘Se non riesco a convincerla è perché le mie parole, in questo caso, non hanno il potere di convogliare l’interezza, la natura non astratta e non intellettuale, di quell’essere animale. Ecco perché la esorto a leggere i poeti. […] e se i poeti non la toccano, la esorto a seguire fianco a fianco la bestia sospinta lungo la rampa che conduce dal suo carnefice’” (ivi, pp. 80-81).
Un tale retrocedere ed esitare di Coetzee di fronte alla pratica dell’argomentare filosofico si spinge fino al punto di organizzare una difesa estrema, che consiste esattamente in un incremento stesso della distanziazione finzionale dell’autore di fronte alle teoricamente deboli tesi proferite per bocca della sua protagonista. Si tratta, nello specifico, di un incremento che si produce nel momento stesso in cui, non direttamente alla Costello, ma a sua nuora Norma viene fatto ammettere che la scrittrice, di fronte a repliche filosofiche stringenti sottopostele, “‘non sa più che pesci pigliare’”.
Si badi bene, però, una dislocazione del genere (che si realizza attraverso il rimbalzo dall’autore-Coetzee alla protagonista-Costello, fino al personaggio secondario-Norma) non va interpretata come indiretta ammissione d’imbarazzo e, quindi, conferma del carattere, in ultima analisi, ancillare del registro finzionale rispetto a quello argomentativo. Al contrario, proprio seguendo l’indicazione di Ricoeur sull’aspetto radicalmente trasfigurante del racconto di finzione, una tale strategia si rivela piuttosto coerente con il tentativo d’istituire luoghi alternativi, ma nondimeno genuini, del linguaggio. Si tratta, insomma, di pratiche di ri-semantizzazione volte a produrre possibilità di vera e propria abitabilità dell’esperienza, che certamente non si sostituiscono, ma neppure soccombono, al dispositivo argomentativo-razionale. Anzi, lo mettono in crisi all’occorrenza. Appunto: esposizione contemperata da esitazione.
È noto quanto una tale strategia attuata da Coetzee, tesa a realizzare un’esposizione ed esitazione feconde della finzione rispetto al discorso argomentativo, non abbia un carattere del tutto inedito nella storia della letteratura. Come lui stesso lascia ben trapelare, essa riproduce, invece, a suo modo, tentativi già intrapresi in passato. Tra questi, viene subito alla mente il celebre racconto di Kafka, Una relazione per un’Accademia, in cui – anche qui, sotto forma d’una inscenata conferenza – si assiste alla narrazione di Pietro il Rosso, una scimmia ormai umanizzata, la quale ripercorre il suo cammino di trasfigurazione che, dallo stato animale – di bestia catturata e imprigionata – l’ha condotta alla condizione di quasi-essere umano. Il racconto rivela il suo climax proprio nel suo effetto spiazzante rispetto al discorso razionale tradizionale, campione di verità dell’/dall’/sull’umano. Così suona, a un certo punto, il resoconto della scimmia: “Dopo quei colpi mi svegliai – e di qui hanno inizio poco a poco i miei ricordi – in una gabbia sotto coperta […]. Nel suo insieme la gabbia era troppo bassa per star diritti e troppo stretta per stare seduti. Me ne stavo perciò accoccolato con le ginocchia piegate e sempre tremanti […] mentre, dietro, le sbarre delle inferriate mi segavano la carne. Si ritiene che una tal maniera di trattare nei primissimi tempi le bestie feroci, sia utile, e oggi, dopo la mia esperienza, non posso negare che dal punto di vista dell’uomo, questa sia in fondo la verità” (da F. Kafka, Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2017, p. 233).
È esattamente in questa prospettiva che va letta l’esposizione/esitazione finzionale trasmessa da Coetzee: la sua strategia che esorta, eppure non riesce a convincere attraverso percorsi argomentativi, non si dissipa in una mera abdicazione al registro filosofico, a cui sarebbe affidata la rappresentazione dominante e ultimativa della realtà, ma ne suggerisce invece una sorta di ribaltamento speculare. Rovesciamento di cui, a mio avviso, è precisamente l’appendice costituita dallo scritto di Singer a fornirci luogo emblematico d’articolazione.
È qui che entra in gioco l’altro versante, quello filosofico, del rapporto. In effetti, è come se nella riflessione d’appendice di Singer, il discorso filosofico, proprio nel momento in cui, per sua bocca, avrebbe occasione di ribadire il suo primato, non potesse fare altro che produrre, invece, esso stesso un effetto d’esposizione/esitazione. Esposizione/esitazione che conferma, a suo modo, quel plesso di senso contenuto nelle parole poc’anzi citate della Costello, volte a sottolineare l’impotenza del dispositivo argomentativo a “convogliare l’interezza, la natura non astratta e non intellettuale, [dell’]essere animale”; natura, invece, comunicabile in modo molto più adeguato attraverso il linguaggio immaginativo ed empatico – finzionale – della poesia.
Non è casuale, dunque, che Singer, nello spazio d’appendice deputato a ospitare la sua replica alle lectures di Coetzee, non si sottragga al gioco finzionale, predisposto da quest’ultimo, per trasferire e risolvere tutto sul piano filosofico. In quanto filosofo di professione, avrebbe potuto armare il suo scritto di poderose argomentazioni volte presumibilmente a suffragare ancor più la posizione antispecista di Coetzee, di cui – come ben sappiamo – anch’egli condivide lo spirito di fondo. E, invece, permane nel registro del racconto e vi si espone dall’interno in qualità di filosofo. Per la precisione, lo fa mediante un racconto, che riporta una conversazione con sua figlia, il cui tema è come poter adeguatamente replicare, in quanto filosofo “antiquato” e dedito “a tenere verità e finzione ben separate”, alle assai deboli tesi messe in campo dalla penna di Coetzee attraverso le dichiarazioni di Elisabeth Costello. Si noti, per inciso, proprio qui, l’identificazione e presa di distanza dell’autore-Coetzee rispetto al suo personaggio-Costello: doppio movimento che sortisce – secondo quel gioco di rinvii performativi che richiamavo all’inizio del paragrafo – l’effetto di un’esitazione che può orientare tanto verso un accordo reale, ma disaccordo finzionale, quanto, viceversa, verso un accordo finzionale di contro a un disaccordo reale.
Ma andiamo al punto: perché mai Singer, in quanto filosofo, si concederebbe al gioco finzionale orchestrato da Coetzee? A mio avviso, non a motivo di una mera predilezione di marca stilistica, ma piuttosto per lasciar affiorare qualcosa di più radicale, ovvero un altrettanto necessario, quanto inverso, movimento d’esposizione ed esitazione rispetto al precedente: l’esposizione/esitazione del discorso filosofico di fronte alla finzione. Come a voler (o non poter fare a meno di) dare conferma del fatto che anche il discorso filosofico, senza dover abdicare a quello della finzione, ne è inevitabilmente abitato, come quando, per esempio, si rivela necessario ammettere il passaggio per il registro poetico-immaginativo per di cogliere in modo più genuino – “convogliare [nella sua] interezza”, per dirla con le parole della Costello – l’esperienza (con/de l’)animale.
Probabilmente, è esattamente per questo che al doppio smarcamento di Coetzee sopra riportato, Singer risponde, per riflesso, con un altrettanto doppio smarcamento: quello che si palesa nel momento in cui, in coda al suo racconto della conversazione con sua figlia, non fa dire a lui stesso, ma a quest’ultima quanto segue [e qui il riferimento è a come rispondere a Coetzee/Costello]: “‘Una replica non è facile. Ma perché non provi a rispondere usando lo stesso trucco?’” (ivi, p. 110). A tale suggerimento segue l’ultimo periodo dello scritto, che raccoglie più che mai un’espressione d’esposizione/esitazione di Singer, incastonata nell’esposizione/esitazione stessa che ha solcato l’intero suo racconto: “‘Io? Quando mai ho scritto racconti?’”.
Qui il gioco finzionale dei rimandi e delle distanziazioni si moltiplica sin quasi a far perdere la bussola della realtà. In effetti, sulla base di quest’ultima frase, ci si può chiedere: quello di Singer è davvero il racconto di un colloquio di un filosofo avvenuto effettivamente con sua figlia – insomma, un resoconto –, che termina con un suggerimento, a cui potrebbe far seguito o meno la redazione di un racconto ancora di là da venire? Oppure, non costituisce già l’appendice stessa di Singer il racconto di finzione, alla cui incapacità di redazione nondimeno lui rimanda in chiusura? Detto altrimenti: non è, alla fine, quello di Singer il racconto di una conversazione fittizia con sua figlia, messa in scena per rispondere con la stessa moneta (“lo stesso trucco”) alla strategia di Coetzee? O, ancora, non è nessuna delle due cose: ma, al limite, rappresenta la semplice dichiarazione espressa – o, semplicemente, messa in scena finzionalmente – da Singer, che registra un’incapacità a replicare e, nello specifico, a replicare attraverso un racconto? Oppure, infine, questa dichiarazione o sua messa in scena non è Singer a produrla, ma – per un ulteriore effetto di rimbalzo – soltanto il suo io-personaggio (tant’è che con molta cautela andrebbe letto l’ultimo pronome personale soggetto messo, non a caso, in corsivo e accompagnato da un punto interrogativo)? Il cui autore, poi, chi sarebbe per davvero? Il Singer-filosofo che racconta (ma, se racconta soltanto, è possibile fidarsi fino in fondo?) oppure il Singer-scrittore che sostiene la povertà di argomenti a cui non intende replicare (ma, anche qui, se parla in mera veste di scrittore, sta argomentando seriamente?)?
Come che stiano le cose, quandanche si fosse qui propensi ad assumere che Singer abbia redatto effettivamente il suo racconto, quanto credito si può “davvero” concedergli, visto che sconfessa contestualmente la capacità di scriverlo? “‘Quando mai ho scritto racconti?’” – afferma lui stesso (?). Non si farebbe, perciò, meglio a credere piuttosto a una scimmia che “racconta” la sua “verità” (o la verità dell’uomo)?
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