IL VIRUS E LA PARALISI DELLA MENTE

mental-health-2313428_1920SILVIA D’AUTILIA

A Massimo, per le possibilità di confronto

Non ci è dato per il momento sapere come muteranno le nostre vite fra uno, due o cinque anni, in seguito a questa emergenza, ma una cosa è certa: il vuoto di critica e pensiero che l’ha accompagnata produrrà effetti considerevoli. Col diffondersi del Covid19, sono state adottate una serie di misure di contenimento sociale che hanno comportato un restringimento, quando non un annullamento, delle libertà personali. A partire da questo momento e con un riduttivismo sbalorditivo, ha preso vita sulla scacchiera sociale una grottesca contrapposizione tra sostenitori e detrattori dei provvedimenti adottati a tutela della pubblica salute. Come se il discorso attorno alla radicale trasformazione delle nostre vite possa essere sbrigativamente ricondotto a un asfittico dualismo manicheo di favorevoli o sfavorevoli, mancando l’appuntamento con la complessità del dibattito che la situazione ha generato.

A pagare il prezzo di questa demarcazione è stata innanzitutto la riflessione sul soggetto e sulla sua nuova vulnerabilità. È la prima volta che stiamo facendo i conti con un io inedito, non più padrone di sé, e non certo nella declinazione psicoanalitica della questione, ma in relazione a uno sfilacciamento della sua autenticità politica, sociale e culturale. Una materia che ha visto improvvisamente uscire di scena fior fior d’intellettuali e attivisti dello spirito. Non solo. Anche i solerti militanti delle passate cause sociali e dei diritti sacrosanti adesso, tutto d’un tratto, preferiscono anestetizzare le coscienze dietro alla minaccia di un virus che, a quanto pare, oltre agli effetti sul corpo, è anche in grado di paralizzare le menti. La grave latenza di queste categorie è stata ed è tanto più ingiustificabile quanto più prendono piede, nella più generalizzata indifferenza sociale,  politiche d’infragilimento del vecchio soggetto di diritto, a favore di un mero “residuo di soggettività”. Sono divenuti residuali: il diritto alla libertà personale, alla circolazione, alla libertà di riunione, i rapporti economici, la salvaguardia dell’istruzione e della cultura, della libertà di pensiero ed espressione, (il cui deterioramento sta toccando soglie davvero allarmanti) e in generale un intero ordinamento repubblicano.

Si replicherà che è sbagliata la percezione, in quanto non si tratta di decurtazioni della libertà personale, ma di indicazioni terapeutiche di spessore sociale in un contesto di drammatica emergenza sanitaria. Ebbene, l’occasione è buona per evidenziare una volta per tutte che il vero nodo del problema è proprio questo: proprio perché si tratta di accadimenti mai vissuti prima abbiamo l’indifferibile dovere di non assopire il pensiero, di non abbassare per un solo istante la guardia, riducendo ogni attività sinaptica al consenso o dissenso su quello che ci viene – cit. – consentito o non consentito di fare, (con buona pace dei nostri vecchi diritti costituzionali!)

Dacché l’epidemia ha reso oggetto di decisionalità politica la ridefinizione delle nostre quotidianità fin nei più privati particolari, andrebbero rivendicate cornici di dibattito che si occupino per intero della questione. Tutelando fino al capello  la società dal Covid19, che pure ha mietuto e continuerà a mietere innumerevoli vittime, la si lascia completamente scoperta e sottotutelata dal resto dei problemi. A dimostrazione di questo atteggiamento, si è visto come sia stata demandata quasi interamente la gestione del problema alla figura dello specialista, divenuto il nuovo arbitro biopolitico. Nei più noti salotti televisivi, dove si è prodotto il fenomeno sociale dell’attesa della pronuncia specialistica abissando i restanti aspetti della discussione, non solo si è consumata una stagnante ripetitività dei tecnici interpellati, ma nemmeno ci si è curato di esporre questi personaggi al contraddittorio con colleghi di opinione differente.

Il livello di conoscenze attorno al virus e soprattutto alle modalità con cui conviverci – perché è questo il vero tema – è al momento talmente esiguo da richiedere a maggior ragione analisi di rango dialettico. Si è rivelata fin troppo bene la debolezza di una decisionalità esclusivamente giocata sul tavolo della titolata tecnicità. A febbraio uno dei più noti esperti in materia ci ha perfino tranquillizzato sul rischio zero del contagio in Italia. Va da sé che non si vuole fare il processo a un errore di calcolo pure lecito e ammissibile in un clima d’incertezza e novità, ma a un atteggiamento scientifico granitico e presuntuoso, nonostante appunto l’incertezza e la novità. Quello dell’erronea previsione del contagio è solo uno dei numerosi esempi per cui sarebbe immediatamente auspicabile un ridimensionamento dell’ipse dixit specialistico davanti a un’epidemia che come un riflettore ha repentinamente fatto luce su una lunga trafila di problemi di vecchia data: dalle politiche di privatizzazione ai tagli sanitari, dalla generalizzata carenza di personale medico nel SSN e negli ultimi anni proprio in quei reparti che il virus ha messo in ginocchio al progressivo impoverimento della ricerca, dalla debilitazione del turnover occupazionale al persistere di una crisi economica che, con l’arrivo dell’epidemia, stando a quanto riportato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale ISPI, farà pagare all’Italia il prezzo più alto nel contesto dell’Eurozona. Oseremo ancora dire che il problema sia solo il virus o molto più onestamente affermeremo che di fronte a un parassita si è in realtà esplicitata la cronica debolezza del sistema? Se per salvarsi dal cancro al polmone si presta ascolto solamente all’invito a smettere di fumare pronunciato dallo pneumologo, senza ricevere concrete politiche di tutela dal contatto con i cancerogeni chimici a cui la stessa persona è esposta per ragioni lavorative, ci sono ben poche speranze di evitare la disgrazia.

C’è una sfida inderogabile che questa epidemia ha lanciato alla nostra società ed è la sensibilizzazione del singolo nell’esercitare una coscienza critica che vada ben al di là della passiva assimilazione della propaganda mediatica. Tutto il contrario di quello che accade in questi giorni, quando si lanciano grida di biasimo a chi, sprovvisto di competenze, non ha ragioni di discutere di certi argomenti. Il non-tecnicismo è una colpa da espiare col silenzio ossequioso. È uno scenario sociale non avulso e privo di paternità, ma figlio diretto di quella moda ad uso e abuso di taluni esperti in materia incline al blastare, fino allo zittire, quanti non hanno titolo per avere un’idea e poterla esprimere. Risale a poco più di tre anni fa la dichiarazione del più noto virologo del web – e da qualche mese anche dello spettacolo – di procedere a cancellare dalla sua pagina Facebook tutti i commenti impertinenti, lasciando diritto di parola solo a chi ha studiato e non certo al cittadino comune. Terminava col motto divenuto egida del suo personaggio mediatico: “la scienza non è democratica.” La cosa dovrebbe destare forte allarmismo rispetto al nuovo ritratto di scienza che ne sta emergendo: un monolite che risponde di sé e delle due pratiche a nessuno meno che a sé medesimo. Uno scivolone metodologico che lede non poco quell’immagine di sapere basata sull’itinerante dialettica del dubbio, e che fa dello scambio col sociale la condizione stessa del suo procedere. La scienza, infatti, può/deve non essere democratica in laboratorio, ma lo deve necessariamente essere in termini di analisi dei dati, raggiungimento delle conclusioni e discussioni che ne derivano. Non potremmo nemmeno pensare all’aggettivo “scientifico” senza l’imprescindibile operazione comunicativa, ovvero quel momento in cui le conoscenze, venendo trasferite al pubblico,  si traducono in occasione di progresso e sviluppo sociale. Una divulgazione scientifica efficace ha come prerequisito la capillarizzazione delle sue informazioni fino all’ultimo attore del tessuto sociale.

È questo, tra gli altri, uno dei principali messaggi dell’UNESCO World Report del 2005 Toward knowledge societies, attento a ridefinire le società della conoscenza attraverso l’invito a una partecipazione attiva nei processi divulgativi della scienza. Secondo i capisaldi della società della conoscenza ciascun cittadino, nessuno escluso, con la sua formazione, il suo percorso e la sua particolare interazione col sapere, può aggiungere altra conoscenza alla conoscenza con cui s’interfaccia.

Sempre all’inizio degli anni 2000, anche da Oltremanica si fa pressante l’esigenza di un legame più stretto tra scienza e società: il precedente paradigma di Public Understanding of Science (PUS), che aveva segnato alla fine degli anni ’80 un’iniziale apertura del mondo scientifico verso il pubblico, viene ripensato alla luce di un rapporto meno frontale e più inclusivo, di reale collaborazione tra esperti e non esperti, secondo un modello che fu denominato Public Engagement with Science and Technology (PEST). L’intento era quello di coinvolgere concretamente la società nei traguardi scientifico-tecnologici e nella loro comunicazione, al fine di colmare quella distanza tra specialisti e non specialisti che iniziava a produrre una generale sfiducia dei secondi verso i primi. La lontananza tra questi due mondi non era solo fisica e materiale ma rappresentativa del diverso atteggiamento con cui venivano approcciate tematiche d’interesse pubblico e sociale.

Per rendere l’idea evochiamo brevemente lo studio di Brian Wynne sulla crisi delle “pecore radioattive”. In concomitanza all’incidente nucleare di Černobyl, nel 1986, alcuni allevatori inglesi, avendo osservato delle anomalie nei terreni sui quali pascolavano le loro greggi, sostennero la possibilità che gli animali potessero aver assorbito dal terreno la radioattività. Il governo rispose inviando sul campo degli esperti che, una volta effettuate tutte le analisi del caso, minimizzarono enormemente il problema. Alla lunga le ricognizioni degli allevatori però si rivelarono sensate: per ben due anni fu vietata la macellazione ovina proveniente da quei territori e alle valutazioni degli esperti fu associata la volontà del governo d’insabbiare velocemente la vicenda.

Episodi come questo hanno portato a un ripensamento delle politiche di comunicazione della scienza, attraverso una valorizzazione della cosiddetta lay knowledge, il sapere laico per intenderci, non più valutato come debole o inferiore, ma semplicemente caratterizzato da expertise qualitativamente diverse rispetto a quelle degli scienziati.

Ebbene, la vistosa esasperazione della competenza medica per il Covid19 rischia d’incappare in nuove logiche di distanziamento tra esperti e non esperti se non s’interviene per tempo a modificare orientamenti scientifici unidirezionali e autarchici. Già numerosi segnali s’intravedono nella volontà del pubblico di sentire altre campane di tecnici, di ricercare un tipo d’informazione diversa da quella suggeritaci come “ufficiale” e, guarda caso, prontamente bollata come “disinformativa”. Nel calderone della disinformazione oggi finiscono tutti coloro che stentano a uniformarsi con le linee guida convenzionali o che solo accennano a volerne sapere di più. Basti pensare a uno spot del mainstream, di un autoreferenzialismo disarmante, che invita a fidarsi cit. “dei reali professionisti dell’informazione”. Ora, stante la melensa biforcazione tra informazione giusta e informazione sbagliata, la reale domanda è: ma chi stabilisce questi valori? Il quesito ha un sapore per così dire postmoderno, nella misura in cui, in un clima di generalizzata carenza di certezze, risulta abbastanza improvvido rivendicare il possesso di un verum che altri invece non avrebbero. Sicchè la questione arriva ai seguenti esiti: o i sedicenti depositari dell’informazione inconfutabile sono realmente convinti di detenere questo primato, il chè evoca una certa presunzione, per non dire onnipotenza, oppure temono così tanto la contraddizione da tacciarla in partenza come non-informazione. Forzare la credibilità, arrogandosi una superiorità non richiesta, è una strategia neppure troppo velata per avere il terreno libero da impacci e avversari. Le masse, queste flotte di soggetti turbati e angosciati, sono divenute gli strumenti privilegiati con cui condurre la battaglia dell’impoverimento delle menti, dell’invito a pensare che non ci sia più nient’altro a cui pensare. Il contraddittorio va combattuto con la negazione dello stesso e non solo in termini linguistici ma anche ontologici: tutto quanto non si conforma ad A non solo non è A, ma non è neppure B, C, D, E… semplicemente non esiste! Il vuoto di critica e di analisi è la vittoria! Peccato che ogni ricerca del consenso condotta nel segno della rigidità abbia sempre rivelato un certo indice di timore. Giordano Bruno non aveva dubbi già nel 1600, quando, dopo la lettura della sentenza di condanna a morte per eresia, affermò: maiore forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam, “forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla.” In ogni ambito, e a maggior ragione nella scienza, la libertà di parola è un problema solo per chi la teme. Non la teme chi la considera una più che valida occasione di confronto, da cui ricavare, a prescindere dal risultato, un progresso scientifico. È il cosiddetto principio di falsificabilità teorizzato dal filosofo Karl Popper, per cui una teoria è veramente scientifica se si presta alla confutabilità, ovvero se è sottoponibile all’errore: qualsiasi sia l’esito di questa falsificazione non potrà che dare utili contributi all’avanzamento della questione.

Ma quanto l’epidemia ha reso abbastanza tangibile è ravvisabile nelle riflessioni sul concetto di sapere che alla fine degli anni ’70 Jean-François Lyotard elaborò nel testo La condizione postmoderna. Secondo il filosofo francese, nel tramonto delle verità salvifiche nell’alveo dell’etica, della politica e della religione, il destino del sapere è e sarà la sua vendibilità, in un continuo sali e scendi di prezzi e stime. Come non sentire echeggiare rumorosamente in queste parole gli interessi derivanti dallo stabilire rigidamente cos’è informazione e cosa no?

Se, nell’imposizione del restare a casa, nel controllo a vista dei corpi e nella militarizzazione dei territori, si evince una vera e propria esasperazione del dominio biopolitico, va segnalato che un’ulteriore esasperazione di potere s’intravede all’orizzonte, quella sulle menti. Non basta più che i corpi siano addomesticati, oggi più che mai occorre che lo siano anche le menti, e non tanto disciplinandosi a pensare secondo modelli o stereotipi, ma prendendo ad accettare che oltre una certa comunicazione non c’è proprio nient’altro a cui pensare.

Foucault metteva in guardia da questo rischio già nel 1971, quando nel testo Nietzsche, la genealogia, la storia, stabilisce la distinzione tra la storia degli storici e la storia effettiva. Se la prima è un sapere ordinato secondo un continuum di senso e significato, la seconda è direttamente calata nell’autenticità dei fatti. Non badare a questa differenziazione corrisponde – dice Foucault- a non prendere atto che “il sapere non è tanto fatto per comprendere, ma per prendere posizione”. Corrisponde a ritenere che non ci sia alcun’altra conoscenza da rivendicare. E soprattutto corrisponde a lasciare che, un domani, i nostri figli non abbiano più diritto ad alcuna libera curiosità da esercitare.

Foto di Tumisu da Pixabay

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