L’IDIOSINCRASIA DELL’OCCIDENTE
DAVIDE ASSAEL
Non è facile definire l’idiosincrasia, tanta è l’ampiezza semantica di questo concetto, che compare negli ambiti più svariati. Esistono idiosincrasie psicologiche, di cui tanto si è occupata la letteratura psicoanalitica. Esistono idiosincrasie sociologiche, con intere comunità che hanno sviluppato affetti idiosincratici nei confronti di altri gruppi sociali. Non è certo difficile trovare nella storia, anche recente, esempi di odio etnico. Esistono anche idiosincrasie politiche, che sempre si fondano su tabù inavvicinabili. Dovendo trovare una definizione generale, potremmo dire che l’idiosincrasia è l’immagine dell’alterità, sia essa percepita con categorie psicologiche, sociologiche, oppure politiche. È, dunque, una categoria identitaria, in quanto è quel limite che separa noi dagli altri, confine consustanziale ad ogni identità. Per quanto varie siano le identità, tutte riflettono una distinzione Io/Tu, che appare, appunto, come il loro fondamento ontologico.
Nel corso della storia umana esiste solo una cultura che abbia tentato di superare questo schema: la civiltà occidentale. Lo aveva ben capito il vecchio Husserl, quando, lui ebreo in un’Europa in cui si era affermato il virus nazista, si confronta con una crisi culturale di cui vede le radici assai più indietro. Parliamo di quel grande libro, per alcuni il vertice della filosofia del ‘900, che risponde al nome de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, ultima opera del filosofo a cui lavora ininterrottamente dal 1935 al 1937. Qui Husserl ha il coraggio della domanda radicale: cos’è Europa? E cosa la distingue dalle altre civiltà, come l’India o la Cina? Domande attualissime in un momento in cui queste stesse realtà progettano il «sorpasso» sull’Occidente in termini economici e geopolitici. La risposta husserliana è coraggiosa quanto la domanda: Europa non è una civiltà fra le altre, ma l’unica che ha voluto sviluppare una cultura universalistica, che ha forse trovato la sua massima espressione nella cultura scientifica. Non è un caso che la globalizzzione con cui oggi facciamo i conti sia stata in fondo un’occidentalizzazione. Un’adozione da parte degli altri del modello occidentale. Non è la medicina tradizionale cinese ad essersi diffusa nel mondo, ma la scienza medica occidentale. Andare in un ospedale a Pechino, non è così diverso che andarci a Parigi o Londra. Così in un laboratorio di fisica, o di qualunque altra scienza. Di matrice occidentale è la Carta universale dei diritti dell’uomo, occidentale è l’idea stessa di istituzioni sovranazionali. Insomma, utilizzando un ossimoro potremmo dire che la specificità dell’Occidente è la sua universalità. Ma universale è, per definizione, ciò che non ha limiti, ciò che non conosce idiosincrasie perché abolisce la distinzione dentro/fuori. Lo schema identitario sopra richiamato sembra dissolversi.
Ma siamo sicuri che una società universalistica sia priva di idiosincrasie? Oppure si fonda su una grande idiosincrasia rimossa perché inaccettabile alla sua coscienza? Fra i tanti testi a fondamento della civiltà occidentale su cui potremmo concentrarci, forse nessuno come la Bibbia, l’antica Torah ebraica, può aiutarci a rispondere a questa domanda.
Tra Abramo e Giacobbe: la Torah e l’Occidente
La costruzione dell’identità occidentale, nella Torah, coincide con le vicende dei tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Il punto di inizio lo troviamo nel Cap. 12 della Genesi, in quel Lech Lechà, che significa contemporaneamente «Vai via» e «Vai verso te stesso», che Dio rivolge ad Abramo intimandogli (l’espressione è coerente con l’imperativo con cui è declinato il verbo) di lasciare «la tua terra, la tua famiglia, la casa di tuo padre» per dirigersi «verso il posto che ti mostrerò». Una simbolica di distacco dalle pulsioni di possesso territoriale, familistiche e genealogiche, che basterebbe da sola a riassumere un intero manuale psicoanalitico. Per questo gesto, invero ripetuto più volte da altre figure bibliche, Abramo verrà definitivo עברי (ivrì, ebreo), dal verbo ebraico לעבור (laavor), oltrepassare. Abramo è letteralmente «colui che attraversa». Cosa attraversa il primo patriarca? Per riassumere, potremmo dire che attraversa il limite etnico per fondare una società universalistica. Abbandona la logica gerarchica dei due grandi imperi egizio e babilonese per fondare un modello sociale e politico in cui venga riconosciuta la comune radice adamitica di tutti gli individui. Il gesto che dà origine all’identità ebraica è, dunque, lo stesso che stabilisce quell’orizzonte valoriale che nutrirà tutto l’Occidente. Ancor prima che greca, l’identità occidentale è ebraica. Origine troppo spesso dimenticata, se non esplicitamente rimossa.
Il percorso abramitico si concluderà ben oltre la sua morte, con la vicenda del nipote Giacobbe, rinominato «Israele» proprio a conferma di un compimento identitario. Siamo sempre nella Genesi, nel Capitolo 25. Come tutte le matriarche, anche Rebecca, moglie di Isacco, non riesce a rimanere incinta. Così il figlio di Abramo si rivolge a Dio affinché la aiuti a concepire. «L’Eterno accolse la preghiera di Isacco e sua moglie Rebecca restò gravida» (Gen. 25, 21). La gravidanza di Rebecca non fu semplice. La Torah racconta dei dolori che le procurava, tanto che la matriarca si rivolgerà al Signore con un’espressione che ancora oggi riassume i disagi esistenziali di ogni genitore, che sempre verifica la distanza fra desiderio e realtà: «Se è così perché ho pregato tanto per questo?». E «Andò a consultare il Signore» (Gen. 25, 22). La risposta alla domanda era già stata in parte anticipata dal testo biblico, che aveva usato il plurale בנים (banìm), figli per descrivere cosa stava accadendo nel suo ventre: «Nel tuo ventre ci sono due nazioni, due popoli si dirameranno dalle tue viscere, una nazione sarà più forte dell’altra, ma il più grande servirà il più piccolo» (Gen. 25, 23). La profezia, parlando di popoli e nazioni, allarga di molto il significato di questa gravidanza, aggiungendo una tonalità politica ancor più rimarcata dall’ultima parte, che informa di un ribaltamento delle gerarchie tradizionali. A conferma, come del resto già chiaro dai precedenti rapporti di fratellanza (Caino/Abele e Isacco/Ismaele), di quanto l’etica biblica a fondamento dell’Occidente sia un’etica dei figli minori.
Come noto, la lotta fra i fratelli per uscire per primi dalla pancia della mamma sarà vinta da Esaù, che nacque per primo. Il primo nato, per la convenzione antica, è considerato primogenito. Fin da subito è chiaro che fra i due fratelli sarà Giacobbe ad ereditare quella propensione al superamento del limite che aveva contraddistinto suo nonno Abramo. Nel descrivere la nascita, la Torah si concentra su un passo apparentemente senza significato: è scritto che Giacobbe nasce con la mano attaccata al calcagno di Esaù. Proprio da qui il nome Yaakov (Giacobbe), che deriva da עקב (ekev), tallone. Perché un testo che parla di liberazione dei popoli e grandi orizzonti etici si concentra su un particolare che definiremmo da ostetricia? Il commento è chiaro in proposito: Giacobbe afferra il fratello per un tallone perché vuole trascinarlo giù e superarlo, non rassegnato al ruolo di fratello minore che la natura gli aveva imposto. Fin da subito i due gemelli manifestano caratteristiche opposte. Riassumiamo quelle principali:
anzitutto i nomi. Esaù è fatto derivare dal verbo לעשות (laaśot), fare. Significherebbe, quindi, «fatto» nel senso di già compiuto in se stesso. Di Yaakov, invece, viene sottolineato come la prima lettera sia «la Yod, che corrisponde al numero dieci, e sta per il Decalogo; la seconda la ‘Ayn, settanta, cioè i settanta anziani alla guida del popolo; la terza è la Qof, che vale cento e indica il Tempio, alto cento cubiti; l’ultima consonante è infine la Bet, il cui valore è due, come Le Tavole della Legge» (tratto da, Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi, Milano, 1997, p. 127).
Esaù era amato dal padre, Giacobbe dalla madre, che esprime un amore gratuito, meno legato alle logiche genealogiche che definiscono la figura paterna.
Esaù è uomo di caccia e dei campi, Giacobbe invece era «uomo integro» e risiedeva nelle tende. Il commento ci dice che si tratta delle tende di Shem ed Ever, le prime yeshivòt, le case di studio dove ancora oggi si impartisce l’educazione rabbinica.
Le differenze fra fratelli confermano le caratteristiche che la Torah assegna al primogenito, sempre costretto a sacrificare la propria individualità alle aspettative genitoriali. Il secondo, invece, gode di un amore più libero. È il primo ad essere il ricettacolo di tutti quei meccanismi proiettivi che caratterizzano la maternità e la paternità. Il secondo, invece, gode di un amore più libero.
Le consuetudini antiche erano, però, chiarissime: il primo uscito eredita il ruolo di capofamiglia. Non rassegnato al proprio ruolo e descritto con la stessa sfrontatezza che ritroveremo nel figlio Giuseppe, Giacobbe passerà l’intera giovinezza a progettare il modo di sottrarre la primogenitura al fratello. Il momento adatto arriva quando Esaù è di ritorno dalla caccia. Il Midrash ci dice che il gemello maggiore fosse un grande cacciatore, che aveva addirittura sottratto a Nimrod, il primo ribelle nei confronti del Signore, la veste che gli consentiva di attirare a sé tutte le prede. Ma la caccia, soprattutto in epoca antica, è una pratica molto rischiosa, in cui si può perdere la vita ad ogni istante. È, quindi, questo il momento in cui l’orizzonte esistenziale di Esaù, già di per sé compromesso, è più chiuso. Yaakov lo sa bene e fa scattare il proprio piano. Si farà trovare intento a mangiare una zuppa, che la tradizione ha fatto coincidere con un piatto di lenticchie. Sempre il commento ci mostra Giacobbe impegnato a far uscire l’odore della zuppa dalla finestra della casa in modo da stuzzicare il fratello mentre tornava. Appena entrato Esaù chiese a Giacobbe un po’ di ciò che stava mangiando. Il fratello gli rispose che glielo avrebbe dato in cambio della primogenitura. Le parole con cui Esav accetta sono una sintesi perfetta del suo stato d’animo: «Se devo morire, cosa me ne faccio della primogenitura?». A confermare questo stato d’animo è proprio l’immagine delle lenticchie, mai citate nel testo, che invece parla di una «zuppa rossa» (alcuni interpreti fanno derivare da qui il nome Edom, da cui Edomiti, la discendenza di Esaù). La lenticchia, per la tradizione biblico-ebraica, è il cibo del lutto in quanto è circolare come la morte che circola inesorabilmente fra le persone e anche perché è senza fori. Così come senza aperture verso l’esterno è colui che deve rispettare il silenzio nei giorni di lutto. Tanti di più quanto è stretto il legame di parentela. In questo clima ben studiato da Giacobbe avvenne lo scambio. Il Midrash ci dice che il gemello minore aveva anche preparato un contratto scritto, onde evitare future rivendicazioni.
Il passaggio della primogenitura, però, doveva essere sancito dalla benedizione paterna. L’occasione non tardò ad arrivare. Ormai stanco e cieco, Isacco sentiva che i suoi giorni erano alla fine. Percezione quanto mai sbagliata perché in realtà vivrà ancora a lungo, ma quanto bastava per chiamare il primogenito e dirgli di procurarsi della selvaggina per la benedizione della primogenitura. Rebecca, è anche questa una scena notissima, udite le parole fra il marito e il figlio, chiamerà Giacobbe per dirgli di camuffarsi da Esaù, mentre lei andava a prendergli uno dei suoi capretti. È il primo momento in cui vediamo Yaakov vacillare perché ben sapeva che una cosa è un accordo fra fratelli, un’altra è lo stesso accordo approvato dai genitori. Per di più la tradizione ci informa quanto Esaù sia stato disposto ad accettare le privazioni imposte dal suo ruolo solo per amore verso il padre, che venerava. Come sappiamo, il piano della mamma ebbe buon fine e Giacobbe venne benedetto al posto del fratello. La grande questione è qui se Isacco fosse consapevole di impartire la benedizione al figlio più piccolo. Il commento è unanime nel dire di sì. Molti gli indizi che ce lo fanno pensare. Anzitutto il passo di Gen. 27, 22, in cui Isacco dice: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esaù». In secondo luogo vi è la questione dell’odore. Rashi di Troyes (1040 – 1105), commentatore principe della Torah, dice che Isacco sentì l’odore del gan Eden, il giardino dell’Eden dove risiedevano Adamo ed Eva. È il testo stesso ad orientarci in quella direzione: «l’odore di mio figlio è come la fragranza di un campo che l’Eterno ha benedetto» (Gen. 27, 27). Un odore che certo non può essere attribuito ad Esaù per come la Torah ha descritto i due fratelli. In ultimo, la forma della benedizione che Isacco impartisce al figlio. Sempre Rashi dice che si tratta della benedizione che si attribuisce ai giusti, dove la maledizione profetizzata a coloro che malediranno viene prima di quella a coloro che benediranno perché «i giusti incontrano , all’inizio, delle sofferenze e poi, alla fine, godono della pace». Insomma, Isacco conferma qui la qualità che la tradizione gli attribuisce: la גבורה (ghevurah), il coraggio. Coraggio di scardinare antiche logiche identitarie, sociali e politiche. Saputo di aver perso la benedizione, Esaù andrà alla ricerca del fratello per ucciderlo. Ci si chiede perché Esaù si sia così risentito dal momento che aveva già ceduto la primogenitura. Ma la risposta l’abbiamo già avuta: una cosa è la relazione a due, un’altra quella a tre. La benedizione a Giacobbe fu vissuta da lui come un tradimento insopportabile. Del resto solo un ingenuo poteva pensare di ridurre la vita a rapporti giuridici. Sembra qui ripetersi lo stesso errore di Abele nei confronti di Caino. Abele definito «il muto» dalla tradizione, in quanto nel Capitolo 4 della Genesi, dove è narrata la storia dei primi fratelli, non si trova una sola sua parola. Nulla ha fatto per lenire l’invidia del fratello nei suoi confronti. E sarebbe finita allo stesso modo se non fosse stato per l’intervento della madre, la quale, vista la reazione del figlio maggiore, intimò Giacobbe di riparare da suo fratello Labano finché la rabbia di suo fratello non fosse scemata.
Nel percorso verso la terra dello zio, Giacobbe si «imbattè nel luogo» (Genesi 28, 11), da molti inteso come il Monte Moriah, per eccellenza luogo della manifestazione divina. Qui si addormenta e farà il famoso sogno della scala, altra immagine che si è sedimentata nel nostro immaginario. La scala, con gli angeli che salgono e scendono, e con al vertice Dio stesso, è simbolo di comunicazione. È anche proiezione delle angosce di Giacobbe, che per la prima volta sperimenta il fallimento dei suoi progetti. Come per rassicurarlo, l’Eterno gli confermerà la promessa fatta al nonno, aggiungendo, «Io sono con te e ti proteggerò ovunque andrai» (Genesi 28, 13-15). Il Dio di Israele, pur mantenendo un rapporto privilegiato con la terra d’origine che decifreremo fra breve, non è una divinità locale. È un Dio universale, che, come dice la comunicazione stessa si estende a Oriente come a Occidente.
Appena giunto nella terra dello zio, Giacobbe incontra sua figlia Rachele e se ne innamora (Genesi 29). Incontrato Labano, la chiede in moglie. Lo zio acconsentirà, ma pattuirono che, per sposarla, Giacobbe avrebbe dovuto lavorare per lui sette anni. Così fece, ma al termine Labano, invece di Rachele, gli farà trovare nel letto nuziale la figlia maggiore Lea. Di fronte allo stupore di Giacobbe, la risposta dello zio sarà alquanto significativa. Alla domanda del nipote, «Perché mi hai ingannato?», Labano ribatterà «Non si fa così nel nostro paese, di dar marito alla minore prima che alla maggiore. Finisci la settimana di questa, e ti daremo anche l’altra, per il servizio che mi presterai per altri sette anni.» (Genesi 29, 27-28). Alla fine Giacobbe rimarrà da Labano 20 anni e per sposare Rachele dovrà prima prendere in moglie, oltre a Lea, anche la sua serva e quella di Rachele stessa. Lo zio non rispetterà nessuno dei patti stabiliti e la motivazione sarà sempre quella: da noi si fa così. Sempre più il patriarca capirà che l’unico modo per realizzare la profezia divina sarà tornare a casa propria. Del resto, con quale diritto imporre il proprio modello ad altri? Così, una notte, Giacobbe «mise i figli e le mogli sui cammelli, portò via il suo bestiame, tutti i beni che aveva acquistato, il bestiame che aveva messo insieme in Paddan-Aram per tornare da suo padre Isacco in terra di Canaan» (Genesi 31, 17-18). Quando, tre giorni dopo, Labano lo raggiungerà per chiedergli conto della fuga notturna, Giacobbe risponderà con parole che sintetizzano quanto scritto sopra: «In vent’anni che sono stato con te, le tue pecore e le tue capre non hanno partorito feti morti, né ho mangiato i montoni del tuo gregge. Non ti ho mai portato animali dilaniati da bestie feroci, rifondevo io il danno, mi chiedevi conto dei furti commessi sia di giorno che di notte. Mi trovavo in condizione che di giorno mi consumava il gran caldo, il gelo di notte, e il sonno se ne andava dai miei occhi. Dei vent’anni che sono stato in casa tua, quattordici ti ho servito per le tue figlie e sei per il tuo bestiame; tu hai cambiato la mia mercede dieci volte.» (Genesi 31, 41-42).
La lotta con l’angelo e l’idiosincrasia dell’Occidente
Nella vicenda di Giacobbe ed Esaù, c’è un’altra immagine iconica: la lotta con l’angelo. Quando si trovava con la sua carovana ormai sulla strada di casa, Giacobbe si accorge di aver dimenticato qualcosa indietro e deciderà di riattraversare il fiume Yabbok per prendere questi oggetti apparentemente insignificanti. Un atto mancato degno del dott. Freud. Arrivato sull’altra riva il sole era ormai calato, decise allora di pernottare lì. Nella notte arriva un malach, figura di difficile definizione in ambito ebraico perché significa contemporaneamente angelo e messaggero. Del resto, il pensiero ebraico non è di impronta metafisica, ma esperienziale. Si può dire che quella angelica sia una funzione che si incarna nelle vicende quotidiane. In ogni caso, il commento tende ad identificare questa figura con l’angelo di Esaù perché è col fratello che Giacobbe deve combattere. Al termine della lotta durata tutta la notte, Giacobbe ebbe la meglio e, proprio per questo, il malach gli cambierà il nome in «Israele». Tanti i significati attribuiti al nuovo nome, il più frequente è «Ish roeh El», «Uomo che guarda a Dio», ma è certo che con questo passaggio si conclude il percorso inaugurato da Abramo. L’identità biblica è compiuta, anche se si tratterà di saperla tradurre in tutti i suoi aspetti. È un’identità caratterizzata da una zoppia, in quanto Giacobbe rimarrà claudicante perché ferito al nervo sciatico. È questa zoppia, questa imperfezione il grande rimosso dell’Occidente, che l’ha sostituita con l’immagine dell’eroe greco, tanto tragica quanto esempio di forza e splendore. Ormai cosciente del torto subito dal fratello, Giacobbe è pronto ad incontrarlo. Quando Esaù gli correrà incontro per ucciderlo, il gemello minore si chinerà davanti a lui prostrandosi sette volte, con tutto il valore simbolico che questo numero assume nella narrazione biblica. I due fratelli si abbracceranno come segno di riconciliazione. Divideranno la terra ed ognuno potrà badare alla propria famiglia. La conciliazione fra Giacobbe ed Esaù è il modo in cui l’universalismo occidentale, rappresentato dall’etica del fratello minore, assume la consapevolezza del proprio limite: l’essere nato in luogo particolare. La claudicanza di Giacobbe appare come il segno più tangibile dell’assunzione di questa consapevolezza. La rimozione occidentale della propria matrice ebraica significa esattamente la rimozione della Gerusalemme terrestre in nome di quella celeste.
Ben presto, però, le differenze fra i fratelli riappariranno. Giacobbe, assai più bravo negli affari rispetto al gemello, vedrà crescere il suo bestiame e le proprie ricchezze, tanto da rendere difficile la convivenza con Esaù, che si ritirerà sul monte Seir (Genesi 36, 6). E non è un caso, crediamo, che in ebraico capro espiatorio si dica proprio Seir. Esaù, con le pulsioni genealogiche, familiari e di possesso territoriale, che rappresenta in quanto fratello maggiore, è il grande sacrificato all’universalismo occidentale. È lui la grande idiosincrasia che l’Occidente non può ammettere perché considerata come un tradimento della sua identità. Ed è da questa rimozione che nascono i problemi di relazione con l’Altro che hanno definito il nostro mondo. Dalle crociate, alle battaglie napoleoniche, fino alle recenti guerre di esportazione della democrazia. Perché trovare un punto di conciliazione con Esaù significa sì una contraddizione rispetto ad ogni visione universalistica, ma è anche riconoscere un’origine particolare, che è antidoto contro ogni volontà di potenza imperialista. Più che rimuovere queste pulsioni bisognerebbe sublimarle in un progetto pedagogico e politico, che, citando il sociologo Michael Walzer, potremmo definire un «universalismo concreto» (Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, Edizioni Dedalo, Bari, 1994). Universalismo, come tale, sempre imperfetto, sempre da ridefinire. Ma il Midrash aveva già detto tutto quando, commentando l’abbraccio fra i due fratelli, descrive un Esaù intento a mordere l’orecchio di Giacobbe. Se si parla di Occidente, si parla di una strada sempre aperta, che mai può trovare una conclusione definitiva. Se non sublimate, queste pulsioni si riaffacceranno nei momenti propizi, quando il progetto universalistico occidentale mostrerà delle crepe, favorendo instabilità sociale. La Torah aggiunge un ultimo particolare, che a noi appare come un monito: se si scorre la genealogia di Esaù nel Cap. 36 della Genesi, si vede che ad un certo punto compare la figura di Amalèk, la tribù senza volto che ha un solo compito: l’annientamento del popolo ebraico. Si dice che sia comparsa solo tre volte nella storia ebraica: appena dopo l’uscita dall’Egitto, quando i figli di Israele cominciano a mostrare dubbi nei confronti delle parole di Mosè (Esodo 17, 8), durante la fallita strage raccontata nella Meghillat Ester, il rotolo che si legge durante la festività di Purim. Infine con il nazismo. Amalèk è il residuo della rabbia di Esaù e torna per riprendersi la primogenitura sottratta dai fratelli minori. Torna per risvegliare dal «grande inganno» ed imporre «la morale dei signori» con «la morale dei servi».
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