PER UN’ONTOLOGIA DEL DESIDERIO SESSUALE

model-1209985_1920MATTIA ZANCANARO

Il tema della lussuria non può che destare da ogni parte assoluto interesse, oltre che per il semplice fatto che tutto ciò che richiama il desiderio sessuale finisce per risultare interessante, per la ricchezza delle implicazioni che porta con sé. “Lussuria” chiama “sessualità”, che chiama “corporeità”, che a sua volta chiama “libertà”.

La catena delle implicazioni potrebbe continuare a lungo, ma bastino qui i termini sopra richiamati a notare come la questione della lussuria richiami i principali nodi tematici della filosofia del secolo scorso sul continente. Si fa oggi un gran parlare, nei più svariati contesti, del desiderio, dei gusti sessuali e delle relazioni sentimentali. La linea argomentativa che caratterizza il dibattito su questi temi sembra indirizzata, al netto dell’evidente impoverimento del grado di pervasività della religione nella vita e del sempre maggiore accesso da parte delle masse alle informazioni scientifiche, verso una spinta sempre maggiore all’assecondamento delle proprie inclinazioni e al godimento di una vita sessuale quanto più libera e appagante. Certo, però, le resistenze non mancano: la già menzionata religione, per quanto indebolita dal disincanto del mondo che caratterizza noi occidentali contemporanei, continua – perlopiù per via indiretta – a condizionare le nostre inclinazioni, e anche presupposti e imperativi culturali non necessariamente connessi alla religione non possono che frenarci. La tendenza in atto e le resistenze a essa finiscono col generare, come sempre accade nei dibattiti dei nostri tempi, accese polemiche fra parti contrapposte – episodi su episodi dell’eterno scontro tra progressisti e conservatori – e ben poco disposte ad ascoltarsi. I dibattiti dell’attualità, come saprà chiunque acceda regolarmente a internet, sono famosi per l’amplissimo numero dei soggetti coinvolti e per la generale sterilità che li contraddistingue. In altri e più banali termini: si fa un gran parlare e ci si sente in dovere di prendere partito, ma la qualità delle argomentazioni e la disponibilità ad ascoltare le altrui ragioni sono pressoché inesistenti.

Che si appoggi l’idea di una sessualità libera da presupposti e da modelli ideali a cui conformarsi (si pensi a quello, sempreverde, della relazione sentimentale monogama) o che, viceversa, ci si richiami al ruolo fondamentale della tradizione, il punto in comune rimane l’assoluta incapacità di fondare razionalmente e con visione d’insieme le proprie posizioni nel continuo e interessato ascolto dell’altro. Se sei nato conservatore morirai probabilmente tale; se cambierai idea in itinere non sarà stato il dibattito con il portatore di una ragione opposta a farti cambiare idea (e questo perché, probabilmente, non lo hai mai ascoltato). Che fare a questo punto? Come favorire la genesi di una dialettica superante le contraddizioni? Questo secondo quesito sembra contenere, pur in stato embrionale, un abbozzo della risposta. Se è di una fondazione razionale e di una ragione dialettica che abbiamo bisogno, non potrà allora che essere la filosofia a tentare (e, si badi, non necessariamente a riuscire, specie nel ristretto àmbito di questo breve articolo) di rispondere a questa necessità. Ho già fatto notare in apertura come il tema della lussuria richiami facilmente le più importanti questioni affrontate dalle grandi filosofie del Novecento e dai loro esponenti più in vista; vediamo quindi molto brevemente che spunti queste filosofie e alcuni di questi autori possono darci.

L’approccio alla realtà inaugurato dalla fenomenologia husserliana rimanda alla necessità di una descrizione dell’esperienza e delle sue condizioni di possibilità libero da preconcetti di sorta. Zu den Sachen selbst (“alle cose stesse”), divenuto motto della fenomenologia, richiede che ci poniamo il problema di una fondazione della realtà che, passando per la radicalità di una sospensione che revoca in dubbio ciò che si intrufola nei nostri giudizi come presupposto implicito, aderisca fino in fondo alla nostra esperienza del mondo. La realtà necessita di una fondazione che rifiuti di passare per i retaggi di una tradizione trita e per un presunto mondo delle essenze stabili e ideali; il mondo va fondato a partire dalla diretta esperienza che ne facciamo. L’assenso, tra le altre cose, alla cultura di appartenenza, in vista di una descrizione dei temi-cardine della nostra esperienza, va sospeso metodicamente per ottenere un annullamento delle costanti e prevedibili intrusioni delle trascendenze implicite e nascoste nelle nostre descrizioni dei fenomeni.

Può sembrare che questo veloce accenno alla prassi fenomenologica si limiti alla banale considerazione secondo cui dobbiamo mantenerci il più possibile obiettivi nel formulare i nostri pareri e che nulla più di questo vi si possa ricavare. Chiedendoci lo sforzo di una pratica di discussione e di revoca in dubbio del preconcetto, la fenomenologia non può in realtà che rimandarci a un esercizio più libero, e in quanto tale più autentico, della nostra riflessione sulla sessualità (e in fin dei conti della sessualità stessa). A questa conclusione si giunge forse più facilmente rivolgendosi, oltre che a quella di Husserl, a una pratica fenomenologica più direttamente interessata ai temi dell’esistenza. «Nella sessualità dell’uomo si proietta il suo modo di essere nei confronti del mondo», «La sessualità non è né trascesa nella vita umana, né raffigurata nel suo centro da rappresentazioni inconsce: vi è costantemente presente come un’atmosfera». Questo scrive Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione, nella sezione dell’opera dedicata al corpo come essere sessuato, di cui ho selezionato e riportato qui qualche riga particolarmente indicativa.

La sessualità (e la lussuria a essa connessa) non è un’aggiunta posticcia a un essere umano sostanzialmente neutro: la sessualità dice in maniera preminente del modo stesso di essere al mondo dell’uomo, il quale in questo mondo è sempre presente come uomo incarnato (e pertanto inevitabilmente soggetto a tutti i punti di forza e di debolezza della carne). La sessualità è un’atmosfera in cui siamo già sempre calati in quanto soggetti incarnati, non un attributo che si fa vivo nel momento dell’atto sessuale o, più semplicemente, del desiderio. Siamo, pensiamo e agiamo sempre sessualmente durante la totalità della nostra esistenza, anche quando mangiamo, preghiamo o acquistiamo un libro. Reprimere le proprie inclinazioni sessuali non significa mettere a tacere una parte della propria esistenza, ma la totalità del proprio essere; allo stesso modo, esprimere pareri sulle inclinazioni sessuali dell’altro, anche e soprattutto limitandosi a ripetere un già sentito imbevuto di presupposti, significa influenzare l’interezza della sua esperienza del e nel mondo. Quello di Merleau-Ponty è un invito ad assumere su di sé tutti i risvolti di questa constatazione: non considerare l’onnipervasività della sessualità nella nostra esistenza significa limitarla nella sua libertà, e significa perciò anche limitare la libertà stessa. La limitazione è su due livelli: da un lato non si riconosce l’esistenza umana come integralmente e perennemente sessuata e sessuale; dall’altro lato, in forza di questa prima mancanza, si costringe la sessualità alla subordinazione, limitando e rendendo infelice così l’esistenza propria e altrui.

Come sappiamo, esercitare la libertà non vuol dire permettersi di scegliere sempre e indifferentemente tra una cosa e il suo contrario (se non nelle letture più banali e ingenue che della libertà sono state date e si danno); la libertà convoca piuttosto un vincolo: è il vincolo del mantenimento dell’apertura delle possibilità autentiche che questa stessa libertà dischiude. C’è un dover essere che viene aperto dalla libertà, e questo dover essere è indissolubilmente legato all’esercizio di una esistenza progettata nel modo più autentico possibile. I concetti appena richiamati, portati al centro del dibattito filosofico dallo Heidegger di Essere e tempo, vengono ora in nostro aiuto. È proprio quest’opera monumentale a permetterci di fare un passo avanti ulteriore nella nostra ricerca di un fondamento ontologico dell’esperienza della sessualità. Qui Heidegger nota che l’esserci, l’ente che noi uomini sempre siamo, è inevitabilmente portato alla deiezione, cioè a un’esistenza che, anziché appropriarsene direttamente e personalmente, si limita a riprodurre l’appropriazione pubblica e generalmente condivisa delle cose. L’uomo, innanzi tutto e perlopiù, si allontana da se stesso, si allontana da quell’appropriazione che gli consentirebbe di accedere a una esistenza autentica. La deiezione è una struttura essenziale, pressoché fisiologica, dell’esistenza; il decadere, la Ruinanz, rappresenta il modo in cui solitamente l’uomo è nel mondo.

Per potersi dire liberi bisogna prima potersi dire autentici, e l’autenticità passa attraverso la scelta dell’appropriazione diretta, personale e priva di preconcetti delle proprie idee: «L’Esserci comprende se stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possibilità che ha di essere o non essere se stesso». L’autenticità chiamata in causa dalla libertà è un dover essere: se c’è quindi un dovere che abbiamo in quanto corpi sempre sessuati è quello di liberare la nostra sessualità da qualsivoglia preconcetto. L’esserci «è già sempre nella verità e nella non verità. La via dello scoprire è raggiunta solo […] nella distinzione consapevole delle due possibilità e nel decidersi per la prima». La nostra esistenza di soggetti incarnati sarà autentica solo laddove ci saremo decisi per una liberazione della nostra vita sessuale da ogni tipo di ingerenza estrinseca alla sessualità stessa. Il ricorso all’apparato concettuale di Essere e tempo vuole porre l’attenzione sul fatto che l’esistenza autentica va progettata e pensata assumendola direttamente su di sé, senza accontentarsi della lettura anonima e pubblica che se ne dà mediamente, e che la libertà consiste non nel poter agire indifferentemente, ma proprio nell’essere vincolati a pensare autenticamente (qui nella duplice accezione di “pensare in modo autentico” e di “pensare veramente ed effettivamente”). Tirando quindi velocemente le somme del percorso compiuto, possiamo dire di aver capito che, quando ci occupiamo pubblicamente di temi particolarmente delicati come quello della sessualità, dobbiamo compiere lo sforzo di sospendere e mettere da parte i pregiudizi inveterati, tenendo presente che la sessualità rappresenta inevitabilmente l’atmosfera in cui siamo calati costantemente e traendo da questo stesso sforzo la forza per formulare autenticamente i nostri pensieri (sul tema in questione, ma a ben vedere anche sugli altri).

Quali spunti ricavarne? Troppo spesso, dibattendo di sesso e rapporti sentimentali, si estende la parzialità del proprio sentire (in realtà generalmente ereditato da altri) all’universalità dell’esistente. I sostenitori dell’amore monogamo, magari servendosi di concetti alquanto distorti e superati di natura e moralità, cercheranno, con argomentazioni speciose, di dimostrare che la loro non è semplice preferenza, ma l’unica soluzione accettabile.

Allo stesso modo la controparte open minded, sentendosi – a volte anche vittimisticamente – minacciata, proietterà sulla “relazione tradizionale” tutti i presunti fantasmi della noia e dell’infelicità dell’esistenza. Il sesso e ciò che gli gravita attorno, ci ha detto Merleau-Ponty, costituisce l’atmosfera della nostra esistenza; esso è ovunque, anche dove proprio non ce lo aspetteremmo (per quanto il fatto che tendiamo a inserirlo in qualsiasi contesto e discussione avrebbe quantomeno dovuto suggerircelo). Quello della lussuria, che rinvia al latino luxus (il nostro «lusso»), è un lusso che a ben vedere non è tale, dato che ci coinvolge tutti: se siamo todos caballeros, allora in realtà non lo è più nessuno, poiché il lusso, come sappiamo, è cosa per pochi. Non è questo il caso della lussuria, che fortunatamente appartiene a tutti e in ogni momento, pronta rischiarare anche le giornate grigie e piovose della nostra vita. Sempre però che ci decidiamo ad assecondarla, perché, come Balzac fa dire al perverso Vautrin, «stanca desiderare sempre, senza mai essere soddisfatti». La cosa migliore da fare, a questo punto, sembra proprio essere quella di mantenere vivo il dover essere di cui abbiamo parlato, liberando la sessualità e, andando alla cosa stessa, lasciandola essere quello che è: una dimensione fondamentale della nostra vita. Se non assecondiamo le nostre e le altrui inclinazioni sessuali per timore di disturbare gli altri, noi stessi e i preconcetti che riposano sulla tradizione, stiamo negando la libertà non a una parte di noi o degli altri, ma alla stessa vita, che è sempre vita sessuata, nella sua interezza. Silete moralizzatori in munere alieno.

Foto di Alexandr Ivanov da Pixabay

Endoxa FILOSOFIA

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