RE-AGIRE ALL’INEDITO, RISPONDERE ALLO STRAORDINARIO: UN PERCORSO FENOMENOLOGICO

FERDINANDO MENGA
I. Esperire l’inedito
Qualcosa d’inaspettato ci capita, ci accade, ci sopraggiunge … un giorno nella vita. Affermazioni come questa racchiudono magnificamente il senso concreto dell’esperire in generale e, soprattutto, dell’esperienza della novità o dell’inedito in particolare.
Ma poniamoci subito una domanda più attenta: cosa vuol dire precisamente esperire “qualcosa d’inedito”? Un interrogativo del genere può essere affrontato attraverso diversi approcci di risposta: descrittivi, cronachistici, storiografici, letterari, psicoanalitici e, volendo, anche mistici.
Io vorrei tentare qui, invece, un percorso strutturale – mi spingerei a definirlo addirittura “filosofico”, non fosse che ho più di qualche ritrosia a scomodare un aggettivo così carico di pretese e scaturente non poche attese. Ma visto che, nella riflessione che segue, mi accompagnerò ad alcuni autori di una specifica tradizione filosofica contemporanea, mi permetto – affidandomi pesantemente alla loro interpositio auctoritatis – di definire tale percorso, quantomeno, nei termini di “analisi fenomenologica”.
Secondo l’approccio tipico della fenomenologia, giungere a cogliere appieno il senso dell’esperienza di qualcosa d’inedito, implica, anzitutto, partire dall’esperienza del “qualcosa”. Truismo che sollecita subito la domanda: cosa caratterizza l’esperienza di un qualcosa? Ebbene, Heidegger e, prima ancora di lui, Husserl non avevano dubbi al riguardo: la modalità costitutiva dell’esperienza è quella di essere dotata di significato. Vale a dire: si esperisce “qualcosa” sempre “in quanto qualcosa”. La struttura primeva di ogni forma di manifestazione ed esperienza, in altri termini, è tale per cui qualcosa giammai si dà, appare, nella sua immediatezza e semplicità, bensì si offre solo nella misura in cui si esprime già sempre attraverso un significato: in quanto questo o quello.
Le implicazioni di questa struttura del significato sulla questione dell’inedito sono molteplici e cercherò di articolarle attraverso un’analisi che, oltre a prendere spunto dalle fondamentali meditazioni dei sopracitati Husserl e Heidegger, si affiderà all’apporto teoretico delle riflessioni di Bernhard Waldenfels e Jacques Derrida e del loro modo peculiare di farne emergere gli aspetti più reconditi e paradossali.
II. In origine era la ripetizione. Il vecchio e il nuovo nel significato
Se il significato, quale aspetto primordiale dell’esperire, si lascia cogliere nella «formula minimale del qualcosa in quanto qualcosa» (B. Waldenfels, Bruchlinien der Erfahrung, 2001, p. 28), ciò implica, allora, un fatto tanto semplice, quanto fondamentale: ciò che appare deve manifestarsi all’esperienza, innanzitutto, “in quanto tale”. Il che vuol dire: se qualcosa appare, deve essersi ripetuto almeno una volta. Un qualcosa che, in effetti, si manifestasse soltanto una volta, a ben guardare, non sarebbe ancora un qualcosa e con ciò nemmeno apparirebbe nell’esperienza, giacché non avrebbe ancora attraversato la soglia che lo costituisce “in quanto qualcosa”. In tal senso, l’identità, che consente a un qualcosa di essere il medesimo qualcosa che è, non si limita in alcun modo – come osserva Waldenfels – «al fatto che qualcosa di medesimo è dato e che questo si ripeta in condizioni e situazioni che variano, restando però immodificato nel suo nucleo […]. Piuttosto, l’identità risulta da un processo di identificazione, da una costruzione di identità mediante ripetizione» (Id., Die verändernde Kraft der Wiederholung, 2001, p. 12). In breve: qualcosa non è semplicemente qualcosa, bensì diviene ciò che è nella misura in cui si ripete. Ecco, dunque, emergere il primo carattere costitutivo della struttura del significato: la ripetizione (è) originaria.
A differenza di quanto una conclusione affrettata potrebbe suggerire, la struttura del significato mediante iterazione non implica, dunque, che l’esperienza non contempli la possibilità dell’inedito e debba piegarsi alla sola versione della ripetizione. La conclusione corretta è, invece, più complessa e fa segno proprio alla strutturale occorrenza dell’inedito. È sì vero, infatti, che il significato di “qualcosa” si dà solo se quest’ultimo si ripete nell’“in quanto qualcosa”. Tuttavia, tale ripetizione non è da intendersi come mera tautologia, poiché il “qualcosa” non comincia mai da se stesso (dall’apprensione identitaria di sé), ma solo mediante la ripetizione medesima. Per cui, è l’iterazione stessa ad alterare l’identico nel mentre lo ripete. Difatti, l’iterazione, non disponendo mai del “qualcosa” originale che essa ripete (altrimenti non ci sarebbe affatto bisogno della ripetizione per costituirlo), manca, in fondo, anche del modello a partire dal quale poter misurare uniformità e compiutezza. Motivo per cui, ogni iterazione del “qualcosa in quanto qualcosa” risulta già sempre affetta da limitazione e alterazione; e, per ciò stesso, è già sempre esposta al nuovo. Si potrebbe liberare da parzialità e modificazione soltanto se potesse acquisire in anticipo l’identità originaria che essa veicola; la cui cosa, però, è proprio quanto resta interdetto, giacché tale identità non si costituisce in nessun altro luogo se non nel ritardo medesimo della ripetizione. Ne consegue che unicamente la ripetizione crea l’identità del “qualcosa” attraverso la donazione di significato dell’“in quanto qualcosa”; però quest’ultimo, essendo già sempre alterazione del “qualcosa”, fa sì che la ripetizione non possa mai costituire il significato una volta per tutte. La ripetizione è destinata, con ciò, a restare aperta, a iterarsi perennemente senza potersi mai placare nel compimento di un “qualcosa” di definitivamente configurato.
Allo stesso tempo, il fatto che qualcosa divenga ciò che è solo mediante ripetizione ci conduce dinanzi a un altro aspetto fondamentale di ogni esperienza ed esperienza significativa: l’esperire non comincia mai da un’autoappropriazione immediata (insomma, da sé), ma da una dimensione di radicale estraneità (dall’altro da sé). Se l’esperienza cominciasse non dall’estraneo, ma da un proprio originario, a ben guardare, non necessiterebbe affatto di significato, poiché ciò che essa incontrerebbe nel mondo, essendo sempre e soltanto (e in modo pienamente tautologico) se stesso, neanche apparirebbe “in quanto tale”. A dirla tutta, non apparirebbe affatto, giacché ogni scarto significativo dato dall’“in quanto qualcosa” – proprio ciò che caratterizza l’esperire medesimo –, sarebbe già sempre anticipato e assorbito nel dominio originario di un identico ipostatizzato. Insomma, ci troveremmo nella situazione di un proprio totale senza estraneo, in cui, essendo dato già tutto fin dall’inizio, non ci sarebbe nulla da ripetere. Abbiamo visto, però, che l’identità di ciò che si manifesta, lungi dall’essere fin dall’inizio immediatamente presente e satura, diviene tale solo nella misura in cui si ripete nel significato (nell’“in quanto tale”).
Tuttavia, va scongiurata anche la situazione opposta, ovvero, quella di un’esperienza che parte da un’estraneità pervasiva. Questa corrisponderebbe a un esperire che, esposto perennemente all’irripetibile, all’inedito assoluto, nella modalità per esempio di continui shock, non riuscirebbe mai ad assumere significativamente nulla, giacché lo scarto significativo innestato nel “qualcosa in quanto qualcosa” si presenterebbe come costantemente lacerato. Insomma, in quest’ultimo caso, ci troveremmo di fronte alla situazione di un estraneo totale senza proprio, in cui mutatis mutandis neppure apparirebbe alcunché, poiché non si darebbe segnatamente mai nulla da ripetere.
L’esperienza del significato, perciò, si costituisce solo a partire da un gioco paradossale di alterazione e ripetizione. Si tratta di un chiasma di nuovo e vecchio che si innerva nell’“in quanto” e si articola secondo la dinamica per cui l’esperienza è sì colpita da “qualcosa” che essa non contiene fin dall’inizio, eppure in modo tale da fornire essa soltanto a questo stesso “qualcosa” spazio di manifestazione attraverso un significato. Ciò vuol dire: questo “qualcosa” di originariamente estraneo giunge a comparizione e all’esperienza solo nella misura in cui viene ripetuto nel significato stesso; ripetuto, però, originariamente, visto che, prima di tale significato, esso ancora non è.
Posta in questi termini, l’esperienza del significato, quale ripetizione originaria, deve essere allora interpretata nella configurazione temporale paradossale di un ritardo originario, in cui il ritardo si riferisce al fatto che l’esperienza del significato non comincia mai da sé, bensì da altrove, cioè dall’impulso estraneo che la colpisce e la mette in moto, e l’originarietà di tale ritardo si riferisce, invece, al fatto che l’esperienza del significato comincia in ritardo, visto che l’estraneo, che la spinge sulla scena, non può disporre di alcun altro luogo di manifestazione se non essa stessa.
III. Esperire è re-agire: il vecchio e il nuovo della risposta
Ma chiediamoci, a questo punto, in vista di una descrizione fenomenologica unitaria: in virtù di cosa l’esperienza del significato si configura intimamente come esperienza che, da un lato, prende le mosse sempre da un estraneo che non domina e, dall’altro, se ne rivela nondimeno unica possibilità originaria d’apparizione?
Secondo Waldenfels, è unicamente il carattere responsivo di ogni esperire a gettare luce su una dinamica paradossale del genere. L’esperienza si rivela esperienza di carattere responsivo, innanzitutto, perché il rapporto che si istituisce fra estraneità interpellante ed esperienza di significato altro non è se non quanto si consuma in ogni evento genuino di risposta. Detto in termini ancora più semplici: per Waldenfels, esperire è rispondere. Ciò che, difatti, si consuma in ogni avvenimento di risposta è esattamente la dinamica paradossale tale per cui un rispondere viene senz’altro innescato da un’ingiunzione estranea che lo precede, eppure laddove è solo il primo a far sì che la seconda entri in scena, e ciò proprio nella misura in cui vi reagisce offrendo significato alla sua richiesta.
L’esperienza di significato ha, inoltre, una caratura responsiva, poiché peculiare di ogni risposta è proprio il suo carattere di ritardo originario, ossia il fatto che essa – secondo quanto abbiamo poc’anzi segnalato –, per un verso, non comincia mai da se stessa, da un’appropriazione originaria di sé, bensì sempre da altrove, ovvero esclusivamente dall’evento della richiesta estranea a cui reagisce e che quindi la precede, mettendola in moto con inevitabile ritardo (domino dell’alterazione sulla ripetizione, del nuovo sul vecchio); per altro verso, essa è originaria nel suo ritardo, poiché ciò a cui essa risponde – l’estraneo – si origina «solo ed esclusivamente allorché vi risponde» (B. Waldenfels, Antwortregister, 1994, p. 266). Vale a dire, la richiesta estranea, che la provoca, non ha altro spazio di apparizione se non la risposta stessa (dominio della ripetizione sull’alterazione, del vecchio sul nuovo). In tale guisa, la risposta, nel suo cominciare in ritardo, mostra i caratteri di quell’imprescindibile pathos che connota l’originaria irruzione dell’evento estraneo inanticipabile (primato dell’inedito); nella sua originarietà (nel suo cominciare in ritardo) garantisce, invece, l’accesso alla richiesta estranea, altrimenti inacquisibile (primato della ripetizione).
Applicando, quindi, la logica responsiva alla struttura iterativa del significato, possiamo stabilire con esaustività quanto segue: che la significazione parta sempre da un’estraneità originaria del “qualcosa”, il quale diviene propriamente “qualcosa” solo nella misura in cui si ripete nell’“in quanto qualcosa”, non implica altro se non che l’esperienza è tale da procedere sempre da un appello estraneo al senso, il quale però appare solo «nella risposta che esso provoca e che esso precede in una precedenza irrecuperabile» (B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo, 2008, p. 78). In ultima analisi, dunque, l’intima articolazione dell’esperienza del significato rivela un carattere di risposta, poiché il “qualcosa”, essendo originariamente indisponibile, cioè estranea pulsione al senso, viene esperito solo quale appello che mette in moto una risposta, la quale, proprio reagendo a tale appello, è la sola a donargli significato, lasciandolo con ciò apparire per quello che è, allorché lo ripete originariamente “in quanto tale”.
Il paradosso di una ripetizione originaria, a cui inevitabilmente rinvia la dinamica del significato come risposta, può essere, a questo punto, ben descritto anche nei termini di quell’altrettanto paradossale struttura che Derrida ha reso nota nei termini di supplemento d’origine, secondo cui qualcosa non si dà in originale per poi ripetersi, bensì si dà in originale soltanto nella misura in cui si ripete, cioè nella misura in cui si presenta originariamente attraverso un suo sostituto. Un sostituto che, in quanto appunto originario, «non si sostituisce a qualcosa che, in qualche modo, gli sia pre-esistito» (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 1990, p. 361). A partire dalla logica responsiva, questo si lascia così tradurre: il sostituto originario è un sostituto di risposta, cioè «un rispondere che ripete l’estraneo nel proprio» (B. Waldenfels, Die verändernde Kraft der Wiederholung, p. 17) e soltanto così lo lascia apparire. Ma non solo: essendo tale per cui procede sempre e soltanto da un appello estraneo che non può recuperare, l’articolazione della risposta, pur rivelandosi l’unico luogo di manifestazione dell’estraneo, non possiede mai accesso totale a esso e, perciò, risulta inevitabilmente contrassegnata da una costitutiva parzialità. L’estraneo, così, «non si lascia mai completamente e chiaramente determinare» (ibidem) nella risposta che esso stesso mette in moto; in altri termini, «ciò a cui rispondiamo eccede sempre ciò che diamo nella risposta» (ibidem). Allo stesso tempo, però, il fatto che tale risposta parziale sia anche l’unico luogo in cui l’estraneo può darsi, significa che all’estraneo non vi è mai un accesso puro e diretto che lo mostrerebbe nella sua trasparenza e totalità, bensì solo un accesso indiretto e supplementare di risposta. Un accesso che, perciò, lo ha già sempre alterato nel mentre lo lascia apparire. Con ciò, la risposta, proprio nel suo carattere iterativo e supplementare, resta sempre un rispondere che, non potendo mai esaurire l’estraneo a cui si rivolge, vive nella costante e inevitabile oscillazione di una differenza responsiva fra ciò che essa tematizza e ciò a cui essa reagisce.
IV. Al di qua di abituale e inedito assoluti
Tale differenza permane sempre aperta e inconciliabile, innestandosi – come abbiamo sopra segnalato – nell’instabile chiasma dell’“in quanto” che lega e separa la cosa bruta dal suo significato, l’evento puro dalla sua rappresentazione, l’appello dell’estraneo dalla risposta del proprio.
Si tratta di una dinamica che, come si può ben immaginare, detiene delle conseguenze fondamentali per il nostro discorso sull’esperienza dell’inedito, poiché è proprio la dose di estraneità che in essa si esprime a incidere sull’esperienza responsiva del “qualcosa” nelle sue diverse gradazioni: dalla variante debole dell’abitudinarietà e quotidianità alla variante forte della straordinarietà e sorpresa. Nella variante debole, l’“in quanto” tende a congelarsi nella ricorsività della ripetizione e delle risposte di repertorio disponibili, sottolineando così il carattere d’unione nel chiasma. Qui fra “qualcosa” e “in quanto qualcosa” pare vigere una perfetta e indiscutibile coincidenza. Nella variante forte, invece, l’“in quanto” si dirige verso la lacerazione di un’irripetibilità, la quale, divaricando al massimo la scissione, lambisce il limite della rottura del significato e l’impossibilità di risposta. Qui la situazione che si presenta è quella dell’irrompere di un evento straordinario a cui nessuna apprensione di significato pare rendere giustizia. Ad ogni modo, in nessuno dei due estremi, sempre nella misura in cui si voglia parlare di qualcosa di esperito nei termini di significato, svanisce l’“in quanto” e la sua dinamica iterativo-responsiva. Nella versione ripetitiva, l’“in quanto” non giunge a sclerotizzarsi, poiché l’iterazione del significato, per quanto ricorsiva, deve concretamente attuarsi “in quanto qualcosa” e, dunque, non può cancellare la traccia di differenza che contiene. Questo è il caso in cui l’appello estraneo si affievolisce, dando luogo alla possibilità di risposte abituali, pressoché automatiche e, ciononostante, mai totalmente tali, poiché anche nell’abitudinarietà l’appello al senso non scompare e la risposta deve comunque essere effettuata di volta in volta. Nella versione dell’estrema sorpresa, l’“in quanto” non si dissolve in pura estraneità e differenza, giacché anche l’evento straordinario trova la sua minima forma di ripetizione nel registro stesso dell’essere esperito “in quanto” irripetibile. Come ci ricorda Waldenfels al riguardo, la storia della cultura è piena di calendarizzazioni di avvenimenti unici, i quali, proprio perché straordinari e irripetibili, spingono a che si riservi loro un posto d’onore lungo l’asse del tempo, fino a farne eventi fondatori che distinguono un prima da un dopo. In casi del genere, l’“in quanto” della risposta è sì caricato di una forte dose patica, ma comunque non scompare per lasciare il posto all’evento nudo e crudo. Altrimenti, avremmo a che fare con un’estraneità senza risposta che, a ben guardare, più che rimandare a un’esperienza dotata di significato, rinvierebbe ai casi dello shock e del trauma estremi – casi in cui l’esperire, più che potenziarsi, si sfalda, paralizza, implode.
Probabilmente è proprio per questo motivo che finanche il “mi è accaduto” più straordinario e irripetibile nasce già provvisto della traccia originaria del pronunciamento stesso che lo testimonia e, per quanto in misura minima, lo registra e ripete nel mondo. E, parimenti, esso emerge già subito anche dotato di una protesi intersoggettiva, che lo itera originariamente esponendolo nello spazio pubblico. Ogni irripetibile evento vissuto dal singolo, difatti, si sporge già sempre verso gli altri, sì da glorificare paradossalmente il proprio intimo segreto sul palcoscenico di un “ci” che (solamente) lo rende unico. Non è un caso, dunque, che abbia esordito con un’affermazione declinata al plurale: “qualcosa di inaspettato ci capita …”.
Questo tratto ultimo di riflessione meriterebbe un approfondimento specifico, a cui non posso, però, qui ottemperare per motivi di brevità. Ma ne ho fatto comunque cenno perché mi consente di chiudere con una domanda – interrogativo che potrà apparire, forse, un po’ indelicato, ma che, non per questo, intende in qualche modo sminuire l’immane sofferenza e l’avversa sorte occorse alle vittime di accadimenti tragici. Mi chiedo: chi, alle ore 8.45 dell’11 settembre 2001, ha esperito in misura maggiore l’evenemenzialità irripetibile dell’evento che si stava consumando alle Twin Towers? Per davvero uno tra i tanti individui X che vi si trovavano all’interno e che, forse, proprio quella mattina – assorbito dalla ripetitiva routine lavorativa tipica della megalopoli –, nemmeno aveva avuto modo ancora di realizzare data e (non avendo guardato l’orologio) ora del fatidico avvenimento? Certo è che di una tale presunta esperienza pura dell’evento, che si vorrebbe venisse ascritta a questi soggetti a esso immediatamente aderenti, non abbiamo traccia alcuna. E, a dire il vero, per una sorta di reduplicazione della sparizione delle tracce, è proprio di molti di costoro che neppure abbiamo “vere e proprie” vestigia, giacché se ne conservano solo resti non ancora identificati o identificabili. Anche qui, come si intuisce, il bruto qualcosa necessita della protesi originaria di un “in quanto qualcosa” per divenire il “qualcosa” – o meglio, in questo caso, il “qualcuno” – che pretende di essere.
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