UN MONDO SENZA DIO: LA PROPOSTA DI BONHOEFFER
MATTIA ZANCANARO
Hic sunt dracones («qui abitano i dragoni»)designa originariamente regioni geografiche inesplorate, ignote e presumibilmente pericolose (pericolose anche solo per il fatto di essere ignote). L’espressione è uscita velocemente dall’àmbito delle carte geografiche, per arrivare a indicare regioni inesplorate di qualsiasi tipo, dalla sfera della vita in comune a quella della propria intimità. Il qui in cui abitano i dragoni è storicamente lo stesso qui in cui dimora Dio: quello spazio che, non ancora esplorato e conquistato dalla ragione, rimane così insopportabilmente sconosciuto da richiedere di essere tappato dalla divinità, che è il tappabuchi per eccellenza. È questo lo spazio che fedeli e non fedeli tendono ad attribuire a Dio: quello della domanda che, in attesa di risposta razionale più credibile, continua a rimanere tristemente insoluta e bisognosa di un rimedio temporaneo. Abbiamo illuminato la vita e il suo funzionamento fin nelle infrastrutture più recondite, e lì di Dio non c’è traccia; esso allora si dovrà trovare per forza dopo la vita, in un aldilà che rimane l’unico luogo che – per ora – è ancora capace di ritagliarsi. Dio è il post-mortem, e lo è solo fintantoché non saremo abbastanza preparati da sapere qualcosa di più preciso anche su quello, così da smettere anche di averne timore. Là dove abitano i dragoni, dov’è insolubilità e terrore, lì c’è Dio.
Ma un Dio da pregare o un Dio da negare può essere semplice tappabuchi? Se il vuoto non ancora riempito dal pensiero che sa fare a meno della divinità continua a perdere terreno in favore del sapere razionale che basta a se stesso, non è lecito pensare che la questione di Dio abbia i giorni contati? Se i dragoni stanno per essere sfrattati dal loro qui, non farà la stessa fine anche Dio? Il mondo non è forse già ora sufficientemente maturo da fare a meno dei suoi idoli? La situazione è molto ben fotografata da una delle tante frasi lapidarie di Emil Cioran: «È chiaro come il sole che Dio era una soluzione e che non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente» (L’inconveniente di essere nati). La frase di Cioran, dicevo, fotografa bene la situazione, perché dà per scontato, oltre il fatto che Dio sia stato, durante la storia, solo un enorme tappabuchi, anche che la storia di questo tappabuchi sia ormai giunta alla conclusione.
«Gli uomini, così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi». Così scrive, nella primavera del ’44, Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, in una delle più potenti lettere raccolte in Resistenza e Resa (raccolta di lettere e scritti da cui sono estratte le citazioni che riporto in seguito, salvo diversa indicazione). Per Bonhoeffer, oppositore del regime nazista e per questo internato nel carcere di Tegel (da cui scrive tutto il materiale poi raccolto in Resistenza e Resa), un Dio concepito religiosamente, cioè come soluzione esteriore a questioni insolute, non ha più ragion d’essere in un mondo divenuto capace di risolvere da sé i suoi problemi. Il Dio concepito dalla religione finisce per diventare l’oggetto di un tira e molla fra credente e non credente: il primo cerca di colmare lo iato inconoscibile che ancora rimane, il secondo cerca vanamente di lasciar sempre un po’ aperto quello squarcio che lui stesso in fondo ritiene destinato a chiudersi. Non ci sono più i dracones, e il Dio che è draco finisce con loro.
Quello che già da oltre un secolo è facilmente osservabile è che, tra religiosi e atei, campeggia una sorta di feuerbachismo inconsapevole. Come è noto, per Feuerbach la religione è Entfremdung, un fenomeno di proiezione estraniante; gli uomini, incapaci di essere felici di ciò che è possibile trovare su questa terra, proiettano in un lontano aldilà una dimensione di felicità e soddisfacimento. È difficile che qualcuno neghi di esser stato inconsapevolmente feuerbachiano almeno per un breve periodo della sua vita. E invero la prospettiva di Bonhoeffer sembra proprio dar ragione a Feuerbach: la religione è effettivamente Entfremdung, e proprio per questo l’uomo contemporaneo non ha più buoni motivi per essere religioso. Come si conciliano allora nel teologo la condanna della religione – condanna che in realtà era un luogo classico fra i teologi già da diversi decenni – e la forte riproposizione della necessità della fede?
La rivoluzione teologica di Bonhoeffer – operata in ottica strettamente cristiana, ma direi allargabile per molti versi a quello che Dio rappresenta o dovrebbe rappresentare per qualsiasi credo – consiste nel radicale cambio di prospettiva richiesto nei confronti del problema di Dio: «Mi sembra sempre come se volessimo soltanto timorosamente salvare un po’ di spazio per Dio; – io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. […] La fede nella resurrezione non è la “soluzione” del problema della morte. […] È al centro della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti ma sta al centro del villaggio». Non dove abitano i dragoni sta Dio, ma al centro del villaggio. Tutto funziona perfettamente anche senza ausili esterni, che finiscono col diventare un bastone per la vecchiaia di un mondo che, ben lungi dall’essere vecchio, ha soltanto superato l’età infantile. La proposta bonhoefferiana è quella di un uomo che, in quanto ormai maturo, si dimostri tale anche nel guardare al problema della divinità: per un non credente non può essere un semplice vuoto da riempire (quando non già riempito, e quindi un nulla di problema); per un credente non può limitarsi alla gelosa conservazione di uno spazio in soffitta per chi invece, in quanto Dio, esige di stare al centro della vita. Se il mondo è effettivamente maturo, per esso è arrivato il momento di dimostrarsi tale liberandosi dell’esteriorità della religione e collocando Dio – sia esso essere supremo da amare o problema da risolvere – nella concretezza del reale.
Finora si è parlato di fede in generale; da qui in avanti cercherò invece di capire se, nell’ottica di quanto discusso finora, c’è un proprium che la fede cristiana può rivendicare per sé. Bonhoeffer parla del compito di «pensare in maniera veterotestamentaria», ricordando che nell’Antico Testamento sono assenti i riferimenti alla vita oltre la morte. La vita è innanzi tutto qui e prima della morte, e con essa il suo creatore. Contrariamente a quanto non di rado si pensa e si tende a fare, è necessario leggere il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico (e non viceversa): il Dio dei cristiani ha vissuto nel mondo per mezzo della carne di suo figlio, e ha lasciato così agli uomini il compito di vivere pienamente su questo mondo, collocandovi se stessi e anche Dio. C’è così «la rivendicazione del mondo divenuto adulto da parte di Gesù Cristo», della «vita umana tutt’intera e in tutte le sue manifestazioni». La portata della figura di Gesù, che attraversa dall’inizio alla fine il Nuovo Testamento, può essere effettivamente apprezzata solo se, pensando in maniera veterotestamentaria, a Gesù si è capaci di guardare come un uomo che ha scelto di partecipare alle asprezze della vita di questo mondo. Con Gesù, Dio sceglie di esistere. Nel mondo l’uomo è semplicemente gettato, partecipa a sofferenze che, potesse, sicuramente deciderebbe di evitare; Gesù è invece l’unico la cui esistenza nel mondo è libera scelta, e niente più di questo testimonia di quanto il cristianesimo sia religione mondana.
Il figlio di Dio mandato sulla Terra è, prima di tutto, corpo, «presenza fisica» nel mondo: «L’uomo è stato creato come corpo, nel corpo si è mostrato il Figlio di Dio sulla terra» (citazioni da Vita Comune, opera scritta di getto nel ‘38). Oltre all’attenzione per il mondo c’è dunque quella per il corpo, che è ciò che innanzi tutto come uomini siamo. Il tema della corporeità attraversa larga parte della storia della filosofia del Novecento, venendo spesso posto in contrapposizione ad antropologie erroneamente bollate come “cristiane”. Il Dio che Bonhoeffer riporta nel mondo come corpo, il «Cristo che è presente fisicamente», dimostra come il Cristianesimo possa essere via d’accesso privilegiata a una visione della vita che, lungi dal voler svalutare il corpo, è capace di dargli l’importanza che merita.
Il compito che Bonhoeffer consegna alla contemporaneità è quello di un dibattito su Dio che ne sappia modificare profondamente la collocazione: se un Dio si dà, allora certamente esso è già qui; che ci sia qualcosa anche dopo, è discorso da affrontare solo in un secondo momento. La mossa bonhoefferiana neutralizza in un colpo un’intera visione del mondo che, via scienza, riteneva (e in parte ancora ritiene) che quella di Dio fosse una soluzione di emergenza. Non c’è alcuna scoperta scientifica, nessun ampliamento delle conoscenze, che possa cancellare la questione di Dio: se anzi essa deve stare al centro, sarà di volta in volta tanto grande quanto il mondo che avremo contribuito a determinare. Non “il mondo è abbastanza maturo da non avere più bisogno di consolarsi con una divinità”, ma “proprio perché ora il mondo è maturo, esso può finalmente vivere un rapporto sincero e non superstizioso con Dio”. Il mondo non ha più bisogno di Dio come soluzione e ulteriorità rispetto al dato, e proprio in virtù di questo può finalmente porlo al centro della vita. «Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio»: quando quella di Dio non è più una necessità, allora esso può essere autenticamente scelto (o eventualmente rigettato); saper vivere la propria vita anche senza Dio è la condizione minima per poter realmente portare Dio al centro della vita. «Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta». Dio non è l’onnipotente che risolve i problemi insolubili, ma l’impotente che ci chiede andar verso di lui «nella sua tribolazione», il Dio che «ottiene potenza e spazio nel mondo grazie alla sua impotenza», grazie alla sua incapacità di essere ciò che noi innanzi tutto e perlopiù vorremmo che fosse. «Non intendo riferirmi alla fede che fugge il mondo, ma a quella che sopporta il mondo e lo ama e gli resta fedele, nonostante tutta la sofferenza che esso comporta per noi»: è questa la fede autenticamente intesa (da fedeli e non fedeli). La fede non è ciò che fa acquisire credibilità e senso a un aldilà che sta dopo la vita, ma ciò che dà senso a questa vita, che di per sé non ha senso. Per il cristiano è prima di tutto la vita – e non il dopo – ad acquisire senso grazie a Cristo, ed essa ha senso come sequela dell’uomo che Cristo è stato; è la sequela di Cristo a dare direzione (senso) alla vita. È per questo che «tutto ciò che possiamo a buon diritto attenderci e chiedere a Dio, possiamo trovarlo in Cristo»: perché Cristo è l’uomo che ha accettato di vivere a pieno la vita, senza rinunciare a nessuna delle gioie e delle sofferenze che essa comporta, facendo del per-altri l’ideale concreto della sua esistenza di tutti i giorni.
Parlando di corretta impostazione del problema di Dio, non si parla di maggior attendibilità di una scelta (quella cristiana) rispetto a un’altra (né qui si sta cercando di portare avanti qualcosa come un’apologetica cristiana). Il problema è il posto che Dio occupa – oltre che nella vita, come ripetuto fino alla nausea – nel pubblico dibattito. In questo esso continua a esser relegato, da fedeli e ‘atei’ (e questi ultimi, secondo la lettura di Augusto Del Noce, molto spesso non potrebbero neanche propriamente dirsi tali, non essendosi mai posti il problema di Dio che la parola “ateo” custodisce in sé), insieme ai dracones. Fra le cose che non sappiamo e che scopriremo, Dio non c’è, perché di esso sappiamo già da ora abbastanza da scegliere se vivere secondo il suo insegnamento o se decidere di rifiutarlo. Il posto che, in ogni caso, deve avere per tutti, è unico: al centro del dibattito, al centro del villaggio. ll lavoro di Bonhoeffer, morto nel campo di concentramento di Flossenbürg a pochi giorni dal crollo del nazismo (a cui si era opposto fin dalla prima ora), è stato bruscamente interrotto; convinto che il mondo fosse maturo abbastanza da camminare sulle sue gambe, gli ha lasciato il compito di concepire Dio nel pieno della sua immanenza (immanenza che non esclude, ma anzi ribadisce con più forza, la trascendenza del divino stesso). Bonhoeffer pensava a una rilettura in chiave mondana dei concetti della Bibbia, che mettesse le comunità cristiane nelle condizioni di ripensare radicalmente se stesse. In realtà mi sembra che lo spunto che ci viene dato dal suo pensiero – i cui temi e problemi, farà bene ribadirlo, erano il rovello dei teologi almeno fin da Karl Barth – sia ancora più ampio, in quanto capace di coinvolgere cristiani e non cristiani in un drastico cambiamento del proprio modo di guardare a Dio.
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