DEMENZA, IDENTITÀ, METAMORFOSI

544903_b11dd91fcd_mKEVIN DE SABBATA

Stava disteso quasi immobile. Guardava ora da una parte ora dall’altra del letto, ora sorridendo, ora smarrito. Lo baciai sulla guancia, gli strinsi un po’ più forte la mano in segno di saluto, mi squadrò stupito e disse: ‘Chi sei?’. Mia madre scosse la testa: ‘Tuo nonno non è più lo stesso’.

La demenza, di cui il morbo di Alzheimer è la forma più diffusa, colpisce oggi circa 55 milioni di persone nel mondo, per la stragrande maggioranza anziani. I sintomi principali sono una irreversibile, progressiva e significativa perdita della memoria (a partire dai ricordi più recenti), disorientamento spazio-temporale, incapacità di riconoscere persone e cose, afasia e disturbi del linguaggio, aprassia, mutamenti della personalità.

Questi sintomi rendono la demenza una malattia sconcertante, soprattutto per noi, moderni occidentali. Infatti, tendiamo tipicamente a fondare la nostra vita su un’idea di stabilità esistenziale, di un io definito, che ci distingue dagli altri. Ci riempiamo la bocca di parole come ‘cambiamento’, ‘è ora di cambiare’ (soprattutto in periodi di campagna elettorale), ‘da oggi una nuova vita’ (generalmente prima di cominciare una dieta), ma non smettiamo di insistere sulla ‘mia opinione’, il ‘mio stile’, la ‘mia cultura’, la ‘mia patria’, ‘io e loro’, ‘io sono fatto così’, tutte affermazioni che presuppongono l’attaccamento ad un’identità stabile, sedimentata.

La demenza, invece, sia che ci colpisca in prima persona sia che riguardi un familiare o un amico, ci pone di fronte alla dissoluzione dell’io come lo intendiamo comunemente. Ci impone una metamorfosi; anzi, ci dice che siamo una metamorfosi.

Fra gli studiosi di bioetica è noto il caso di Margo, una donna affetta da demenza, al centro di un breve report pubblicato nel 1991 sul Journal of the American Medical Association dall’allora studente di medicina Andrew Firlick. ‘Ho conosciuto Margo’ racconta Firlick ‘quest’estate, nell’ambito del corso di geriatria. […] Margo ha il morbo di Alzheimer. Il suo corpo e la sua mente si stanno dissolvendo. […]. A Margo piace leggere, soprattutto i gialli, dice lei, ma ho notato che salta casualmente da una pagina all’altra; ha messo il segno almeno su una dozzina di pagine contemporaneamente. Forse, per Margo leggere è di per sé un giallo. […] Forse sta bene così, standosene semplicemente seduta lì, canticchiando fra sé e sé, dondolandosi leggermente avanti e indietro, annuendo e girando pagina ogni tanto […]. Margo non mi ha mai chiamato per nome. Non so se l’ha dimenticato da un giorno all’altro, né se si ricordi veramente di me. […] Margo mi ha confuso […]. Nonostante la sua malattia, o forse grazie ad essa, Margo è innegabilmente una delle persone più felici che abbia mai conosciuto. C’è un che di soave nel deterioramento a cui la sua mente sta andando incontro e che la rende spensierata, sempre contenta. Può essere che i problemi semplicemente non riescano a raggiungere il suo cervello? Com’è che Margo mantiene il suo senso di sé? Quando una persona non può più sviluppare nuovi ricordi e i ricordi passati stanno rapidamente svanendo, cosa rimane? Chi è Margo?’

Esperienze come quella riportata da Firlick riguardano il tema cruciale di cosa costituisca la nostra identità di persone e dove questa vada a finire in casi come quello della demenza. La questione ha anche notevoli risvolti pratici, perché da come l’affrontiamo dipende il modo con cui interagiamo con le persone affette da questa malattia e il peso che diamo alle loro opinioni e volontà. Per esempio, mettiamo che una persona per tutta la vita si sia dichiarata convintamente vegana e poi, a causa della demenza, lo abbia dimenticato e implori ripetutamente di avere una bistecca, dando segni di angoscia e turbamento se non esaudita. Cosa si dovrebbe fare in questo caso? Bisogna rimanere fedeli ai suoi valori e volontà passate, oppure basarsi su quello che sente e pensa oggi?

Su questi problemi si sono confrontati i sostenitori di due opposte concezioni dell’identità individuale. La prima visione è quella dell’identità come ‘continuità psicologica’ (psychological continuity) o ‘connessione psicologica’ (psychological connectedness), inizialmente teorizzata da filosofi come Locke, Hume e Parfit. In base a questa teoria l’identità di una persona è essenzialmente data dalla continuità che lega la sua esistenza passata con quella presente. Usando le parole di Hume ‘se non avessimo alcuna memoria, non avremmo alcuna nozione del concetto di causalità e conseguentemente di quella serie di rapporti causa-effetto che costituisce la nostra identità di persone’ (da A Treatise of Human Nature, 1739). Seguendo questa teoria, una persona affetta da demenza non sarebbe più la stessa persona (e forse non sarebbe da considerare neanche propriamente una persona) e quindi le dichiarazioni e i valori da questa espressi in precedenza non si applicherebbero più.

Sulla sponda opposta sta la ‘situated-embodied-agent view’ (SEA) elaborata dallo psichiatra inglese Julian Hughes, sulla base delle idee di pensatori quali Wittgenstein, Heidegger, Taylor e MacIntyre. Secondo questa visione, la nostra identità sta nel fatto che, indipendentemente dai mutamenti che attraversiamo e da ciò che (non) ricordiamo, possiamo comunque costruire una narrazione, una storia che collega tutte le tappe della nostra vita. Questa narrazione è data non tanto dalla nostra continuità psicologica, ma soprattutto dalla nostra dimensione corporea e dalle nostre interazioni sociali, ovvero da chi siamo per gli altri. Citando il filosofo olandese Marc Slors, nonostante le nostre vite possano non essere, sotto il profilo psicologico, del tutto coerenti (essendo soggette a rotture con il passato, mancanza di autocoscienza, perdita di abilità cognitive) rimane comunque ‘una narrazione complessiva […] costituita dai vari contenuti delle nostre consecutive percezioni’; così ‘la serie delle nostre percezioni assume una coerenza narrativa in virtù del fatto che le sappiamo causate dal movimento di un unico corpo attraverso un mondo fisico stabile (anche se non statico), di cui conosciamo la natura e il funzionamento’ (da ‘Two conceptions of psychological continuity’, in Philosophical Explorations, 1998, pp. 61ss). Quindi, anche la persona che, a causa della demenza, abbia perso la gran parte dei suoi ricordi rimane sé stessa, e quindi i valori e le volontà che questa abbia espresso in precedenza rimangono validi.

In realtà, ciò che la storia Margo e il dibattito appena ricordato ci mostrano è che la nostra identità individuale è più precaria di quanto pensiamo. Anzi, a volte si ha la sensazione che essa, almeno nel modo in cui viene comunemente intesa, e cioè come insieme stabile e definito di caratteristiche che distinguono il singolo individuo, sia poco più che un mero abito esteriore, spesso non corrispondente al nostro vero io. Dopo decenni passati a costruirsi un’identità, un’immagine, una ragione di vita, boom, arriva l’Alzheimer (ma può essere anche il cancro, un’ischemia, un incidente stradale, la perdita del coniuge o di un figlio, la perdita del lavoro o una pandemia globale) e tutto crolla.

Il motivo per cui sentiamo costantemente il bisogno di affermarci come individui identificati da caratteristiche riconoscibili, sono le pressioni che ci vengono dalla società. Chiunque ci incontri, anche per un breve istante, non può fare a meno di appiccicarci una maschera addosso e noi dobbiamo in qualche modo farci i conti. Però, la nostra vera identità è fluida. Siamo un miscuglio in costante evoluzione di fattori naturali e influenze storiche, sociali, culturali. Siamo appunto una metamorfosi. La nostra vita si svolge nella tensione costante fra la nostra interiorità caotica e creativa ed il bisogno di contenerla in un’identità riconoscibile da vendere agli altri. Prendere coscienza di questo ci permette di guardare più consapevolmente a eventi traumatici come la demenza, senza soccombere ad una dialettica della tragedia, ma riflettendo sul loro significato esistenziale.

Inoltre, l’adozione di questa prospettiva ci permette di guardare sotto una nuova luce anche una serie di altre questioni identitarie di cui è costellato il dibattito politico attuale. Pensiamo all’accesa discussione in corso sul concetto di identità di genere, spesso intrappolata nella polarizzazione fra chi sostiene che il genere debba essere unicamente determinato sulla base del dato biologico e chi sembra considerarlo una mera scelta del singolo, indipendente da fattori naturali o pressioni sociali. Impostare la questione in termini di interazione fra il livello interiore e quello sociale, potrebbe aiutare l’adozione di posizioni intermedie, che consentano sia un maggior dialogo fra posizioni contrapposte, sia una più profonda comprensione dell’intricato complesso di fattori che influenzano la costruzione dell’identità di genere di una persona. In questo modo si favorirebbe un più utile dibattito su cosa sia veramente necessario, anche a livello di provvedimenti normativi, al fine di creare un contesto favorevole ad una matura e rigorosa riflessione critica su tali questioni a livello individuale e di far sì che poi le singole persone possano esprimere sé stesse in modo libero e consapevole.

Abbracciare l’idea di identità come metamorfosi porta anche a ripensare un altro concetto fondamentale per la società e l’etica moderne, quello di autonomia e auto-determinazione. Ancora oggi tendiamo a definire questo concetto secondo i canoni del pensiero liberale. Secondo questa concezione, ogni persona adulta e sana di mente deve essere lasciata, salvo rarissime eccezioni, libera da influenze esterne a decidere per sé stesso, senza rendere conto a nessuno, a prescindere dalla sensatezza e opportunità delle sue scelte. Questo concetto postula un modello di persona nettamente distaccato dagli altri, padrone di sé stesso, artefice della sua fortuna, ‘so tutto io’, che organizza la propria vita in base ai propri valori e alla coerente visione di sé costruita negli anni. Questo modello fa il paio con la visione affermata, nell’ambito della concezione dell’identità come continuità o connessione psicologica, da Locke, che definisce l’individuo come ‘un essere intelligente e pensante, provvisto della capacità di raziocinio e riflessione, e in grado di considerare sé stesso come sé stesso in diversi tempi e luoghi; cosa che può fare solamente grazie a quella coscienza che è inseparabile dalla capacità di ragionamento e che anzi, io credo, sia per questa indispensabile’ (da An essay concerning human understanding, 1690).

Tuttavia, questa visione dell’individuo entra in crisi in casi come quello della demenza, in cui, per via della perdita di memoria, delle fluttuazioni delle abilità cognitive e dei mutamenti della personalità causati dalla malattia, nello steso soggetto sembrano convivere varie personalità, con ricordi, sensibilità e valori diversi. Inoltre, le persone affette da demenza non sono spesso in grado di decidere da sole e hanno bisogno di aiuto. Per questo, il modello liberale tende ad escluderle, in quanto ‘non sane di mente’, dalla possibilità di decidere per sé stesse, lasciando però individui che, indipendentemente dalle loro (in)abilità cognitive, sono pur sempre persone, totalmente in balia delle decisioni e talvolta anche degli abusi di badanti, tutori, amministratori di sostegno e dirigenti di case di riposo, che spesso non riconosco loro alcun diritto di parola, derubricando sistematicamente le loro richieste e comportamenti ad espressioni senza senso di una mente malata.

Inoltre, il concetto liberale di autonomia entra in crisi anche in tutte quelle occasioni, frequentissime nella vita di ognuno di noi, in cui non sappiamo cosa scegliere e ci affidiamo al consiglio altrui, oppure in quelle situazioni in cui abbiamo sì le idee chiare ma le nostre possibilità di scelta sono limitate da fattori almeno in parte al di fuori del nostro controllo. D’altronde, la vita è un susseguirsi di ripensamenti, di ‘come si cambia per non morire’, di ideali utopici coltivati da ragazzi e seppelliti da adulti, di carriere mirabolanti sognate da bambini e abbandonate per un impiego in banca.

C’è quindi bisogno di un modello meno statico ed individualista di autonomia. Così, filosofi contemporanei come l’australiana Catriona MacKenzie, propongono una visione alternativa, c.d. ‘relazionale’ di questo concetto. Secondo questa concezione, ciò che ci rende veramente autonomi non è l’assenza di interferenze esterne, ma anzi il prendere coscienza che non siamo un monolite fisso e solitario, ma le nostre scelte e la nostra identità sono frutto dell’influenza delle persone, dei luoghi, degli eventi e anche delle malattie che incontriamo sul nostro cammino. Così, patologie come la demenza diventano semplicemente uno dei tanti eventi che cambiano noi e le nostre decisioni, e vanno accettati come fatti della vita. Qui siamo su un’idea dell’identità personale che va nella direzione della ‘situated-embodied-agent view’, ma che, a differenza di quest’ultima, non presuppone una ‘narrazione’ che colleghi le varie fasi della vita di una persona, accettando semplicemente il cambiamento e la fluidità dell’esperienza umana e riconoscendo validità anche ai valori e alle opinioni della persona con demenza.

Anche qui si tratta di abbandonare una concezione egoista e statica dell’individuo per scoprirsi metamorfosi, parte di un divenire in cui siamo tutti connessi: un messaggio particolarmente importante in un momento storico in cui, a causa della pandemia, abbiamo potuto toccare con mano come i comportamenti di ognuno abbiano un impatto formidabile sulla vita di tutti e in cui, in relazione a questioni come quella dei vaccini anti-Covid e del ‘green pass’, assistiamo ancora a rigurgiti individualistici, in cui il concetto di libertà viene strumentalizzato per difendere posizioni che non tengono conto delle possibili conseguenze sul resto della società e sulla salute degli altri.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA SCIENZE NATURALI

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