QUATTRO RITRATTI: MATRJONA, GÉNIE LA MATTA, ENEA, GEPPETTO
PAOLO CASCAVILLA
La casa di Matrjona
Nell’estate del 1953 Ignatic ritornò dal gulag. Tutti gli ex deportati cercavano la città, ma lui voleva vivere in un piccolo villaggio. Non aveva nessuno che lo aspettasse e voleva insegnare matematica nella scuola di quel villaggio. Ignatic si sistemò nella casa di Matrjona e si trovava bene. “Essa non mi infastidiva con domande. Era tanto priva di curiosità donnesca oppure c’era in lei tanta delicatezza che non mi aveva chiesto se ero sposato. Tutte le donne di Tal’novo la importunavano per sapere di me. Lei rispondeva: – Se vi fa di bisogno, chiedetelo voi. Io so soltanto che viene da lontano”.
Una casa misera, di costruzione antica e solida, “fatta per una grossa famiglia, ma adesso vi abitava una donna sola di una sessantina d’anni”. Matrjona aveva subito ripetute ingiustizie e sventure, sei figli ed “erano morti tutti prima dei tre mesi, senza che avessero una malattia”; il marito si era perso durante la guerra; nel villaggio si diceva che aveva il malocchio. Eppure continuava ad essere disponibile con tutti, si offriva gratuitamente al prossimo e non era interessata ad accumulare beni.
“Domani, Matrjona, vieni a darmi una mano. Raccogliamo le patate”. E Matrjona non rifiutava. Abbandonava le sue faccende, andava ad aiutare la vicina e, tornando, diceva senz’ombra di invidia. “Ah, Ignatic, che patate grosse hanno! Le raccoglievo proprio di gusto, non avevo voglia di andarmene, davvero!”. Non si poteva fare a meno di Matrjona nel villaggio per arare gli orti e altre faccende. “Perché non la pagate?” – chiedeva Ignatic a una delle donne del villaggio di Tal’novo. “Non prende soldi. Contro voglia non si può mica darglieli”.
Arrivò la pensione e lei si comprò un paio di stivali di feltro, un nuovo giaccone… ma le sue abitudini non mutarono. Con gli altri si comportava con generosità, non per essere ammirata, ma perché così sentiva di fare. Matrjona morì in un incidente alla stazione ferroviaria, mentre aiutava dei parenti a trasportare un carro carico di travi.
Alla morte, raccontò Ignatic, emerse l’immagine vera della diversità della donna.
“Non si curava delle masserizie… Non s’affannava a comperare le cose e poi custodirle più della propria vita. Non si curava dei bei vestiti… Non compresa e abbandonata persino dal marito, estranea alle sorelle e alle cognate, ridicola, pronta a lavorare stupidamente per gli altri senza compenso, essa, che aveva sepolto i sei figli ma non l’indole sua socievole, non aveva accumulato averi per il giorno della morte… Le eravamo vissuti tutti accanto e non avevamo compreso che era il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra”
Molto tempo dopo l’accaduto, a quella stazione, 184 chilometri da Mosca, tutti i treni rallentavano, i passeggeri non conoscevano il motivo, solo i macchinisti sapevano il perché.
(A. Solzenicyn, La casa di Matrjona)
Genie la matta
“La chiamavano Génie la matta. A volte attraversava il paese a passi svelti con al braccio il cestino di legno in cui metteva sempre il sacco di iuta che le serviva da cappuccio in caso di pioggia. Io le correvo dietro con tutta la forza delle mie gambette”. Ogni giorno nelle fattorie a fare tutto, accettava qualunque lavoro: mieteva, tagliava la legna, zappava alberi e vigne, raccoglieva fave, piselli, frutta, puliva pollai e stalle, aiutava le vacche a partorire. Se c’era bisogno, cucinava per le feste, battesimi e matrimoni. Si spostava sempre a piedi, in estate a piedi nudi, in inverno con stivaloni di gomma. Parlava poco, e nessuno le rivolgeva la parola, se non per il necessario. La chiamavano sempre “la matta”. Sempre insieme con la figlia, Marie, che, quando era piccola, poneva su un sacco di iuta mentre lei lavorava. Più grande le trotterellava a fianco… Génie, se si accorgeva che la bambina rimaneva indietro, rallentava lo stretto necessario per dirle: non starmi tra i piedi… Spesso piangeva davanti al fuoco. “Non ho avuto niente, io” “Hai me” rispondeva la figlia. Abitavano in una casupola diroccata, umida, ci si arrivava per sentieri impervi e intorno si sentivano le volpi ululare.
Quando la moglie del sindaco si ammalò, fu chiamata a prendersi cura della fattoria, animali, figli… Il compenso? Una vaccarella, Rose. Marie si ammalò. “Mi dava tisane di tiglio, latte caldo con molto zucchero, mi preparava nella pentola suffumigi ai fiori di fieno. Mi asciugava e mi cambiava quando ero madida di sudore da capo a piedi. La notte, se avevo freddo, mi teneva stretta per riscaldarmi”.
Marie, da piccola, andava dalla nonna, che non la voleva; il nonno le dava retta, frugava nelle tasche e tirava fuori noci, nocciole, una mela. Dopo la malattia Il nonno le disse: “Sei molto magra, bambina mia… Anche lei era magra. Tu le somigli. Ma lei era sempre allegra, cantava dalla mattina alla sera. Dopo, c’è stata quella grande disgrazia”. Genie, vittima di uno stupro, non volle dire come era andata, si ritirò a vivere per conto suo, portandosi dietro ogni giorno la figlia, prova evidente di quella violenza. Poi Antoine, un contadino, le chiese di andare a casa sua. “E la bambina?” “Andrà a lavorare” “Marie continuerà la scuola, è brava, studierà”. La terra era poca, ma Génie fu irremovibile e Antoine l’accontentò. Ora Génie non diceva più “Togliti dai piedi”, ma “Studia… Fai i compiti”.
La nonna si fece viva. “Una zingara, ecco cosa sei diventata. Hai disonorato la più bella famiglia della regione. E adesso, non contenta di aver partorito una bastarda, vai a metterti con la famiglia più sordida del paese. Ma sta’ attenta… Posso farti rinchiudere in manicomio. Una matta in libertà tutti la guardano. Ma una matta rinchiusa se la dimenticano”. Génie non è matta è solo povera, infelice. Vorrebbe un amore senza sofferenze, una vita senza disprezzo. Con Antoine ha un bambino, nato dal consenso e dall’affetto, ma la famiglia e la comunità si vendicheranno ancora contro di lei.
La storia è raccontata dalla bambina. Parla dell’ingiustizia e anche della speranza, che Marie ritrova nelle parole d’amore di Pierre, in una notte, in una stazione.
Ines Cagnati, Genie la matta. di Ines Cagnati, figlia di contadini di Treviso trasferiti in Francia dopo la seconda guerra mondiale.
Enea e Giorgio Caproni
Enea a piazza Bandiera a Genova, tra le macerie della guerra, una apparizione e una ispirazione per Giorgio Caproni. La statua settecentesca di Enea emerge quasi intatta tra crolli e rovine intorno. “Io quella città non l’avevo mai vista, mai visto il piccolo monumento a Enea… Una meraviglia immensa”. A questa statua si ispira la raccolta “Il passaggio d’Enea”.
Non c’è niente della retorica, della romanità dell’era fascista. Enea è vivo, concreto, sospeso tra passato e futuro, esule in cerca di un approdo e soprattutto terribilmente solo e terribilmente attuale. Enea che appare inatteso tra i palazzi sventrati e i cumuli di detriti, Enea con padre e figlio che passa tra le macerie di una città dall’altra parte del Mediterraneo può essere l’emblema del nostro tempo? “…Enea che in spalla / un passato che crolla tenta invano/ di porre in salvo, e al rullo di un tamburo / ch’è uno schianto di mura, per la mano / ha ancora così gracile un futuro/ da non reggersi ritto”
“Il passaggio di Enea” è la condizione dell’uomo costretto a fare i conti con l’eredità della seconda guerra mondiale. Troia brucia alle spalle dell’eroe virgiliano, il futuro, quel lido della costa laziale appare lontano, indistinto, così il passato e il mondo sono frantumati in mille pezzi dopo la fine della guerra. Un nuovo inizio nelle mani di tre generazioni, che hanno perso tutto, e che con coraggio si muovono per una nuova vita e nuove terre.
“Io ho girato molte città d’Italia… non ho incontrato l’unico Enea possibile, l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine e nella sua umanità. L’unico Enea che meritava davvero un monumento in mezzo a una piazza, simbolo di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso di una tradizione ch’egli tenta di sostenere, mentre questa non lo sostiene più, e per mano una speranza ancora troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare, e che tuttavia egli deve portare a salvamento… Me lo vidi di soprassalto, e sebbene fosse un Enea di marmo, la mia emozione non fu minore di quanto ne avrei provata incontrandolo in carne e ossa”
Enea un simbolo. “Enea sono io, siamo tutti”. “Bianca generazione”, nel senso di inesistente, perché sopraffatta dalla dittatura e poi dal conflitto. Caproni parla nei “lamenti” (11 poesie), della “guerra penetrata nell’ossa”, con immagini di cupa soffocazione. “… Ah padre, padre / quale sabbia coperse quelle strade / in cui insieme fidammo! / Ove la mano / tua s’allentò, per l’eterno ora cade / come un sasso tuo figlio…” – “Quali lacrime calde nelle stanze? / Sui pavimenti di pietra una piaga / solenne è la memoria…” – “Ah padre… E a che affronti / solo nel cumulo d’anni e di mani / inasprite dal gelo i bui tramonti / che la spalla non regge più…”
L’uomo comune, sopravvissuto alla guerra, deve conciliare un passato che non si regge più da solo e un futuro acerbo. Nella vicenda leggendaria di Enea e nella sorte di quel gruppo marmoreo che peregrina nella città, prima di trovare collocazione in una delle piazze più bombardate di Genova, il poeta vede il destino suo e di una intera generazione, dentro le solitudini estreme di quel dopoguerra, nel tempo delle “rovine invisibili”. Enea rappresenta il dramma dei padri da salvare e dei figli da condurre verso un domani di cui non si vedono i contorni. Enea “solo nella catastrofe”, è figura della sconfitta e della speranza, del dolore di chi è giunto “nel punto d’estrema solitudine” e dell’attesa di vivere senza viltà, dignitosamente, con la forza di accettare la vita così come è, senza orizzonti.
Mastro Geppetto
C’era una volta… un re… No. Ragazzi avete sbagliato… C’era una volta un pezzo di legno, e a buttarlo nel fuoco c’era da far bollire una pentola di fagioli, questo pensava Geppetto, mentre ci lavorava per farne un burattino.
“La casa di Geppetto era una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono, un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto con il fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero”.
Geppetto lo chiama Pinocchio, perché è un nome che gli potrà portare fortuna. Lui ha conosciuto una famiglia intera che si chiamava Pinocchio: il padre, la madre, Pinocchi i ragazzi. E se la passavano bene, il più ricco di loro chiedeva l’elemosina. Quando costruisce Pinocchio, d’un tratto nota gli occhi un po’ impertinenti, risentito dice: “Occhiacci di legno, perché mi guardate così”. Tutti i babbi fatti allo stesso modo. Non vorrebbero essere guardati con gli occhi che essi stessi hanno fatto.
Pinocchio è un ragazzo povero e “le avventure di Pinocchio” sono quelle che un ragazzo povero può immaginare per sé. Pinocchio è irrequieto, incontra furbi e buona gente, è arrestato… cerca di riparare, si pente, promette… ma poi le tentazioni… lui è buono, generoso, ma c’è sempre qualcuno o qualcosa sulla sua strada. Tutti i consigli sono inutili, è un autodidatta, si educa nella strada… C’è il grillo – parlante, ci sono Geppetto e la Fata dai capelli turchini. Geppetto gli rifà i piedi, gli dà la sua colazione, lo educa alla frugalità: “quando mangi le pere, metti da parte le bucce, non si può mai sapere”. La Fata gli dice che le bugie sono pericolose… entrambi sono inascoltati, traditi, sarebbe giustificato il risentimento… invece lasciano sempre la porta aperta. Ed anche il cuore. Pinocchio sa che potrà, quando lo vorrà, tornare a casa, dove ci sono persone che gli vogliono bene.
Come si chiama tuo padre?”, gli chiede il terribile Mangiafuoco, sorpreso da un atto di generosità di Pinocchio. “Geppetto”. “E che mestiere fa”. “Il povero”. “Guadagna molto?” “Quanto basta a non tener mai un centesimo in tasca”. Mangiafuoco si commuove e gli dà delle monete d’oro. Ma è derubato, e per castigo si busca quattro mesi di prigione…. La Fata gli promette che non sarà più un burattino e diventerà un ragazzo. Ma Pinocchio parte di nascosto con il suo amico Lucignolo per il paese dei balocchi. Dopo cinque mesi di cuccagna altra metamorfosi, spuntano orecchie asinine e diventa un ciuchino. Viene comprato dal direttore di un circo, poi si azzoppisce e un musicante lo acquista perché con la sua pelle potrà fare un tamburo. Gettato in mare l’asino è mangiato dai pesci e lui torna burattino. Costretto a fuggire a nuoto viene ingoiato da un immenso pescecane. E chi trova dentro? Il buon Geppetto che è lì da due anni… La fortuna vuole che un immenso starnuto spinge il pescecane a vomitare tutto ciò che aveva ingoiato. Geppetto ha paura, non sa nuotare. Ma Pinocchio che fa? Se lo carica sulle spalle… Scopre che lavorare è quasi bello, deve farlo per sostenere il vecchio Geppetto e la Fata dai capelli turchini
Geppetto gli insegna l’immaginazione, la pazienza, la resistenza… a non cadere nella disperazione… E la fata? la speranza, la grazia, la bellezza e tanto altro.
(Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio)
“Jiminy Cricket in the La Bottega di Geppetto window display” by Castles, Capes & Clones is marked with CC BY-ND 2.0.
ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA Endoxa marzo 2022 Maternità/Paternità Paolo Cascavilla