L’IMPLOSIONE EUROPEA

FABIO CIARAMELLI

originalDalla Grexit alla Brexit

Ci affanniamo a discutere e ridiscutere di Europa. Ci spaventa il rigurgito delle derive nazionalistiche che alimentano l’euroscetticismo e danno forma, sia pur per ragioni molto diverse tra loro, a ipotesi di secessione (dapprima in Grecia; ora in Gran Bretagna, ove addirittura ci si prepara al referendum; domani chi sa). E allora, quasi per rassicurarci, facciamo l’inventario delle ragioni “alte” che dovrebbero motivare la scelta convinta dell’Europa come casa comune. Salutiamo, oltre che col dovuto rispetto, con buoni argomenti l’accorato richiamo di papa Francesco alla solidarietà e ad un’Europa che smetta di essere una “nonna stanca e invecchiata” e torni ad essere una “madre accogliente”. Ricordiamo che già Husserl, intorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, aveva scritto che “il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza”. Continuiamo ancora un po’ su questa strada, poi però con sgomento constatiamo che assai poco si vede di quella “fortezza d’animo” che, secondo il grande filosofo, dovrebbe combattere (e vincere) questo “pericolo estremo”. E perciò alla fine le ragioni “alte” si assottigliano e veniamo di prepotenza rimandati alle immagini d’una cronaca abbastanza avvilente, in cui prevalgono le “passioni tristi”, le pulsioni immediate, l’incapacità di fare progetti. L’Europa appare paralizzata da paure, sospetti, rivalità e risentimenti. Questa è la realtà con cui bisogna fare i conti, cercando di comprenderne le ragioni.

Il processo di integrazione europea  ha subìto una radicale battuta d’arresto provocata dai tre seguenti eventi: il crack del 2008,  il fenomeno delle migrazioni di massa da Africa e Asia verso il vecchio continente e infine gli attacchi terroristici rivendicati dal fondamentalismo islamico. Ciascuno al suo livello e con progressione geometrica a causa del loro intreccio, i tre eventi citati accrescono la percezione individuale e collettiva di insicurezza. Ed è proprio questa percezione d’insicurezza che a mio avviso costituisce il vero motivo della disaffezione di massa per le istituzioni europee, le cui prese di posizione vengono avvertite come radicalmente inefficaci quando non direttamente controproducenti.

Ovviamente, non si può ridurre lo stallo dell’integrazione europea a un insieme di percezioni più o meno vago. E infatti, dietro l’avvertimento diffuso d’una crescente mancanza di sicurezza (nel duplice senso di security e safety) non adeguatamente contrastata, se non addirittura provocata dall’intervento degli eurocrati, si riconoscono concreti processi socio-economici. Né il libero mercato lasciato a sé stesso, né l’interventismo o il dirigismo degli apparati burocratici hanno dato l’impressione di riuscire a fermare la crisi. La cui più grave e immediata ricaduta è non solo la disoccupazione ma il crollo delle prospettive di lavoro adeguato soprattutto per i giovani: Mario Draghi ha parlato al riguardo d’una generazione perduta. E una tale diagnosi senza speranza, proveniente dalla più alta autorità monetaria europea, la dice lunga sull’incapacità di governare gl’inderogabili imperativi di sistema da parte delle élites europee. Come stupirsi della sfiducia generalizzata che accompagna i loro spesso inefficaci proclami?

 Tutto ciò  non fa che aggravare le aree deboli dell’Unione: ne risentono soprattutto, per quel che ci riguarda più da vicino, tanto la crescente marginalità del Mezzogiorno d’Italia quanto l’evidente emarginazione economico-politica del Mediterraneo in quanto Mezzogiorno d’Europa. Non a caso, poi, è essenzialmente dal Mediterraneo che proviene l’invasione dei migranti, di cui si tralascia di considerare o si dimentica quasi subito il dramma epocale e si percepiscono immediatamente solo le minacce alla sicurezza europea. E a proposito di  Mediterraneo, chi si ricorda più che nel 1995,  il cosiddetto “processo di Barcellona” aveva annunciato un grande intervento economico e politico, che sotto il nome di partenariato euro-mediterraneo, all’indomani della caduta del muro di Berlino, avrebbe dovuto spostare verso Sud il baricentro delle iniziative europee? In questi vent’anni quel progetto, più che ridimensionato, è stato letteralmente rimosso.

Eppure proprio oggi la necessità di governare i flussi delle migrazioni dovrebbe riproporre, non solo per ragioni morali, ma innanzitutto per ragioni geopolitiche, il tema dell’apertura europea al Mediterraneo. Ma non se ne fa  niente, perché ciò esigerebbe una qualche forma di accordo sostanziale fra gli Stati membri, mentre proprio negli ultimi mesi sembra che tra di loro s’approfondiscano soprattutto divari e distanze. Qualcuno potrà dire che è molto difficile realizzare un’unità di intenti in un periodo di crisi fra ben ventotto Stati, tutti molto diversi tra loro, alcuni dei quali  divenuti membri dell’Unione Europea in anni molto recenti e ancora con tanti problemi irrisolti sul piano nazionale. Ma  a dir la verità, cadono le braccia se si guarda ai crescenti disaccordi tra gli stessi Stati fondatori. Proprio questi ultimi, Germania, Francia, Italia e Benelux (Belgio, Olanda e Lusseburgo), si sono mostrati incapaci di trovare un accordo effettivo sulle questioni più urgenti: innanzitutto sul modo di gestire l’arrivo dei migranti, e poi sul modo di applicare il rigore dei bilanci e infine sull’armonizzazione delle politiche fiscali nei confronti delle imprese. D’altronde, i primi scricchiolii del processo d’integrazione s’avvertirono proprio in Francia e in Olanda, quando nel referendum del 2005, fu clamorosamente bocciata la Costituzione europea. Da allora, la grande integrazione, che si sarebbe dovuta realizzare quasi automaticamente dopo l’unità monetaria, è rimasta sulla carta. La conseguenza di questo crescente disimpegno è la diminuzione delle responsabilità comuni, come si vede tragicamente nel caso dei migranti. La diffidenza reciproca è maggiore e sicuramente più evidente della collaborazione tra i governi e le cosiddette forze dell’ordine nazionali: e – cosa ancor più inquietante – neanche gli attentati terroristici hanno modificato le cose.

Finora l’integrazione europea è stata soprattutto monetaria. Le sue  implicazioni  economiche risultavano essenzialmente riconducibili a disposizioni normative provenienti dalle burocrazie  esterne agli Stati, giacché da soli i governi nazionali non avrebbero avuto la forza di fare le riforme necessarie al risanamento dei bilanci. Questo deficit di democrazia è stato funzionale alla realizzazione di un’Unione Europea orientata verso uno spazio di libero mercato.

Nella tradizione europea, tuttavia, la libertà dell’iniziativa privata è sempre stata giustificata in nome della creazione di ricchezza sociale, alla quale era sostanzialmente finalizzata. Dopo un lungo momento di fedeltà rigorosa ai diktat dei mercati, sembra essersene, almeno in parte, accorto anche l’eurogruppo, con la recentissima decisione che finalmente accetta di alleggerire il debito greco.  È troppo poco per parlare di un’inversione di marcia. Ma conferma che uno dei punti più sensibili della crisi che stiamo attraversando riguarda la possibile sopravvivenza della  principale caratteristica della “forma di vita” europea, cioè lo stato sociale, con le sue garanzie economiche, sociali e giuridiche.

Massimalismo economico-giuridico e minimalismo politico.

Ciò che manca all’Europa è oggi la mediazione tra le decisioni maggioritarie e il diritto delle minoranze a garantire le conquiste dello stato sociale. Osservazione che non basta a risolvere alcun problema, poiché ne pone uno radicale: come rifondare una politica europea efficace, dal momento che le sue tradizionali espressioni e le sue rivendicazioni classiche si sono rivelate incapaci di rispondere alle sfide dell’economicizzazione della società globale?

 È questo il problema posto dai movimenti di protesta e mobilitazione popolare  che rumorosamente  contrastano   la tendenza degli organi centrali dell’Unione e in generale degli ordinamenti giuridici a neutralizzare l’aspetto conflittuale della vita politica.  È innegabile che il progetto europeo “realmente esistente” manchi d’un coinvolgimento diffuso e d’un radicamento che scavalchi le élites intellettuali più o meno burocratizzate, caratterizzato com’è, come qualche anno fa scriveva Antonio Cantaro, dal paradossale connubio di minimalismo politico e massimalismo giuridico (ed economico). Ne consegue una divisione in lobbies sempre più agguerrite che indeboliscono il potere politico e ne riducono il ruolo alla ricomposizione continua degli interessi in movimento. E così l’ordinamento europeo incorpora le esigenze e il rigore della logica finanziaria dei mercati, diventando la principale espressione del potere pubblico, forse la sola che sia presumibilmente in grado di intervenire con efficacia, esclusivamente però in nome delle compatibilità economiche.

In realtà, infatti, l’unica forma di legittimazione efficace nell’Europa contemporanea non rimanda in realtà né alla politica né al diritto, ma alla sola logica del sistema economico. Per autoriprodursi, quest’ultimo è costretto a perseguire incessantemente la massimizzazione dei profitti. La speranza (che il più delle volte si rivela solo un’illusione) che la massimizzazione dei profitti provochi automaticamente l’incremento dei consumi e quindi l’aumento del benessere individuale e collettivo è forse l’unica figura concreta della legittimazione  globale.  Ciò comporta la tendenza a una gestione della crisi che si limiti esclusivamente  al piano economico-giuridico, ispirandosi unicamente al rigore dei conti e alla salvaguardia della libertà dell’iniziativa privata.

Lo scenario internazionale e l’eccezione europea

Inutile nasconderlo: la strada percorsa dal progetto d’integrazione europea – e dall’attivo interventismo che l’ha accompagnato –  s’è limitata ai suoi aspetti finanziari ed economici, confermando e assecondando la sovranità del mercato. Il problema vero è che oggi appare anche in fase di esaurimento la stessa motivazione economica che era stata alla base del progetto di integrazione. In altri termini, in una fase recessiva come l’attuale, sembra spegnersi la scintilla stessa dello sviluppo economico che, benché non fosse e non potesse essere la condizione sufficiente dell’integrazione europea, ne aveva pur sempre costituito la condizione necessaria. Infatti l’essenziale dello sviluppo non sta nella sue condizioni o nei suoi presupposti, ma  nella creatività collettiva che fa diventare anche sufficienti ed effettive le condizioni  necessarie dello sviluppo.

 Ed era stato proprio un contesto del genere, caratterizzato dalla rilevanza di motivazioni “immateriali” capaci di mobilitare potenti energie collettive, che, all’indomani della catastrofe bellica, aveva innescato il processo d’integrazione delle politiche nazionali europee, da cui è nato dapprima il Mercato Comune e poi l’Unione. Si trattava d’una spinta propulsiva  che, proprio perché non vi si riduceva, accendeva la scintilla dello sviluppo economico e richiedeva un processo istituzionale capace di garantirlo e incrementarlo.

 Sennonché oggi, nel cuore d’una crisi economico-sociale profonda e destabilizzante, di cui bisognerà sforzarsi di comprendere anche le radici psichiche e le implicazioni culturali, riemergono in tutta la loro portata problematica i possibili squilibri fra dimensioni antagoniste della vita collettiva che la costituzione di uno spazio giuridico europeo lasciava in secondo piano, senza tuttavia aver potuto risolvere. Ecco perché, dopo quasi settant’anni di pace, ma dopo quasi dieci anni di stagnazione e poi recessione economica, il progetto europeo sembra irrimediabilmente bloccato.

Quale futuro per l’Europa?

L’immagine dell’Europa che la cronaca quotidiana trasmette è quella descritta in queste pagine, e perciò lascia poco spazio alla speranza. Non bisogna però dimenticare che la storia è il “luogo” dell’evento: quest’ultimo è sempre caratterizzato dalla rottura della continuità e dall’irruzione dell’imprevisto, con cui la stabilizzazione sociale, in un modo o in un altro, scende o scenderà a patti.

C’è da augurarsi che il declino pericoloso e autodistruttivo preso dalle élites che  governano le istituzioni europee possa essere interrotto. Il costante afflusso di “nuovi venuti”, che nei modi più incredibili riemergono dalle onde del mare dopo aver attraversato difficoltà e avversità cui nelle società del benessere non siamo più abituati, potrà smettere d’ esser considerato “il” problema dell’Unione Europa e potrà diventare l’opportunità d’un suo rilancio, se e solo se riusciremo a governare la diffusa ansia di sicurezza e le conseguenti, devastanti paure di essere assediati. Le attuali classi dirigenti dovranno farsene una ragione. L’unico modo per uscire dall’impasse dell’implosione europea è l’elaborazione d’una nuova e convincente proposta politica, culturale ed economica. A dire il vero, non se ne vedono le premesse, benché se ne avverta come non mai l’urgenza.

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